Storicamente. Laboratorio di storia
Determinismo economico
La congiuntura disciplinare nata negli anni ’30 attorno alle «Annales» era composta principalmente da demografia, geografia ed economia, e privilegiava l’utilizzo di fonti massive e l’applicazione di metodi quantitativi.

Ma gli storici di storia sociale sono stati spesso indotti a porre in risalto quegli aspetti dell’esperienza sociale che potrebbero essere descritti in modo quantitativo o sistematico rispetto ad entità apparentemente ineffabili quali la coscienza, gli atteggiamenti, le correnti di opinione, i sentimenti e simili. Tra gli storici del lavoro, questo pregiudizio sociologico è stato talvolta rinforzato dalla distinzione marxista tra la « base » materiale e la « sovrastruttura » ideologica, che conferisce, analogamente, una maggiore solidità ai fenomeni sociali ed economici anziché a quelli « mentali », e talvolta da un atteggiamento populista secondo il quale lo studio delle idee è intrinsecamente « elitario », mentre lo studio delle condizioni economiche e sociali è essenzialmente democratico. Da ciò deriva che gli aspetti mentali o ideali dell’esperienza della classe lavoratrice sono stati generalmente trascurati in favore delle strutture economiche e sociali, lasciando gli studiosi si storia sociale poco preparati ad affrontare le ideologie quando queste appaiono nel loro campo di ricerca (Sewell, Lavoro e rivoluzione in Francia, 23).

A partire dagli anni ’70 assistiamo alla formazione di un nuovo set disciplinare, caratterizzato dall’assenza di alcune discipline (quali l’economia) e dall’introduzione di sociologia e antropologia. Sull’onda delle trasformazione culturali, il primato economico nell’analisi del mutamento sociale viene abbandonato sia nel contesto inglese con Thompson, ma anche in quello francese attraverso l’analisi in chiave di sociabilità di Agulhon e al lavoro di Labrousse. Ph. Boutry si sofferma sulla metodologia utilizzata da Agulhon:

C’est dire assez que les déterminismes économiques et les affrontements de classe ne suffisent pas à rendre compte d’un « apprentissage » du politique qui implique à la fois les cultures, les mentalités et les croyances : ce qu’on appellera bientôt une anthropologie du politique. L’éloignement critique des hypothèses marxistes redouble ainsi l’abandon d’un engagement militant qui, pour Maurice Agulhon comme pour toute une génération d’historiens communistes de l’immédiat après-guerre, s’est opéré au tournant des années cinquante et soixante du XX siècle: «Quittant le parti, je devenais enclin à penser que, si « mes » réalités provençales ne répondaient à rien de connu chez Karl Marx, ce n’était pas parce que l’interprétation marxiste restait encore à élaborer sur ce camp (cela, c’est ce qu’aurait dit communiste) mais simplement parce que le marxiste était trop simpliste. (…) Mon retour politique, d’ailleurs lent, vers la démocratie libérale était assez bien accordé avec un facile repli scientifique vers l’éclectisme et l’empirisme». Avec Marx et contre Marx, l’analyse agulhonienne avance désormais sur les voies, plus larges et plus libres, ouvertes par Ernest Labrousse (Postface à M. Agulhon, 1848 ou l’apprentissage de la République (1848-1852), 305).

E su quella di Labrousse:

Aussi le «moment labroussien» a-t-il été, pour le futur historien de L’Apprentissage de la République, la voie royale d’une sortie du déterminisme économique et d’un dépassement progressif des problématiques marxistes de la «révolution bourgeoise». La prégnance des hypothèses labroussiennes est – implicitement ou explicitement – attestée à plus d’une page de l’analyse agulhonienne de la II République (Ibid., 309).

La progressiva perdita d’importanza dell’elemento economico crea un punto di vista che «nega la priorità ontologica degli eventi economici» (Sewell, Lavoro e rivoluzione in Francia, 29). Fondamentale opera di riferimento è La grande trasformazione di Karl Polanyi.

È infine il mondo della rivoluzione industriale, di cui Polanyi, sulle orme di Toynbee, Mantoux, degli Hammond e dei Webb, ma anche sulla base dello studio diretto di una vasta letteratura dell’epoca, sottolinea, contro la tendenza a ridurre il processo ai soli aspetti economici, il suo carattere di calamità sociale e culturale. […] Contro « la tradizione degli economisti classici che tentavano di fondare la legge del mercato sulle presunte propensioni dell’uomo allo stato di natura » e nello stesso tempo avevano abbandonato «ogni interesse per le culture dell’uomo “non civilizzato” come irrilevanti per una comprensione dei problemi del nostro tempo», Polanyi si rifà agli studi di Malinowski e Thurnwald sul comportamento economico dei popoli primitivi per confutare l’idea di un eterno uomo economico. […] E, come dice Polanyi, « niente ottenebra la nostra visione sociale altrettanto efficacemente quanto il pregiudizio economico» (A. Salsano, Introduzione a K. Polanyi, La grande trasformazione, XX, XXV-XXVI ).

Nel testo di Polanyi troviamo questo passaggio:

In realtà una calamità sociale è soprattutto un fenomeno culturale e non economico, il quale può essere misurato per mezzo di cifre dei redditi o di statistiche della popolazione. […] La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto «conflitto culturale» o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società (La grande trasformazione, 201-202).

E ancora:

L’eccezionale scoperta delle recenti ricerche storiche ed antropologiche è che l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli valuta i beni materiali soltanto nella misura in cui essi servono a questo fine. Né il processo di produzione né quello di distribuzione sono legati a specifici interessi economici legati al possesso dei beni; tuttavia ogni passo di questo processo è collegato ad una molteplicità di interessi sociali che alla fine assicurano che il passo necessario venga compiuto. Questi interessi saranno molto diversi in una piccola comunità di cacciatori o di pescatori rispetto a quelli che troviamo in una vasta società dispotica, ma in ambedue i casi il sistema funzionerà sulla base di motivi non economici (Ibid., 61).

Sul determinismo economico e sull’uso differente dell’indagine economica, vorrei riportare, infine, il pensiero di E. Grendi:

E non è detto che il riferimento all’attività economica costituisca il più ovvio termine di confronto ai fini della rilevazione della dinamica storica del corpo sociale. Alcuni storici hanno potuto sostenere di recente le tesi di una sostanziale stazionarietà dei rendimenti agricoli fra la Sicilia di Cicerone e quella del XVI secolo, o fra la Francia del XII e quella del XVIII secolo. Certamente la produttività è soltanto un indice dell’attività economica anche se particolarmente significativo ai nostri occhi. In ogni caso chi negherebbe le trasformazioni sociali, culturali, politiche avvenute in Sicilia e in Francia fra queste due date? (L’antropologia economica, Torino, Einaudi, 1972, XVI).