Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

I libri sulla Shoah. Una guida storiografica suddivisa per periodi e per temi

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1) Lo sviluppo della storiografia della Shoah

La bibliografia degli studi consacrati sulla Shoah è ormai immensa. Quella che viene qui proposta comprende solo, in modo selettivo, volumi pubblicati in lingua italiana.

Menashe Kadishman, Installazione Shalechet (Foglie cadute), 1997-2001, Museo ebraico di Berlino
Menashe Kadishman, Installazione Shalechet (Foglie cadute), 1997-2001, Museo ebraico di Berlino

Gli anni trenta e quaranta

Diversi intellettuali ebrei tedeschi, costretti ad abbandonare la Germania nel 1933 e soprattutto dopo la promulgazione delle leggi razziali di Norimberga, hanno lasciato delle importanti riflessioni sulla persecuzione antisemita, inserendole spesso nel quadro di lotta del regime contro il dissenso politico. Altri invece, più legati al sistema comunitario, hanno seguito il deterioramento della vita ebraica per effetto delle disposizioni sulla cittadinanza e sulla «protezione del sangue e dell’onore tedesco».

Molti documenti furono pubblicati nelle riviste dell’emigrazione ebraico-tedesca, in particolar modo in America. Dopo la guerra sono stati ripresi e studiati. Sono molto utili per la conoscenza del vissuto intellettuale ebraico davanti all’imprevista legislazione discriminatoria e per questo, soprattutto negli anni settanta, entreranno nell’«archivio della shoah». Anche alcuni ebrei rimasti in Germania hanno messo per iscritto ciò che avveniva e hanno trovato modo di tramandare i loro appunti (il più imponente documento è quello lasciato dal filologo Viktor Klemperer sulla Lingua tertii imperi). Saranno invece migliaia gli ebrei dell’Europa orientale a tenere dei diari e a curarne la conservazione facendo sì che una parte importante ci sia pervenuta. La più notevole impresa di storia del tempo presente di cui sia rimasta traccia è l’archivio fondato da uno dei protagonisti del ghetto di Varsavia (Emanuel Ringelblum). È stato parzialmente ritrovato, dopo la liberazione, e l’Istituto storico ebraico della capitale polacca ne sta pubblicando un’ampia selezione di documenti.

Gli anni quaranta e cinquanta

È il periodo formativo della storia della distruzione dell’ebraismo europeo. Le prime fonti sono quelle raccolte e classificate per istruire il processo di Norimberga. Le seconde sono quelle prelevate dagli alleati negli archivi tedeschi e trasferite a Washington e Mosca. Questa documentazione ha la caratteristica di fondarsi sulle scritture dello stato nazista nella convinzione che il sistema sterminazionistico, anche se fondato su ordini di segretezza assoluta, avesse lasciato segni dell’organizzazione preposta alla distruzione fisica. Ha orientato tutto il lavoro dei primi storici. Questo significa che nelle opere fondative di Léon Poliakov, Raul Hilberg, Gerald Reitlinger, vi è una rigorosa unidirezionalità e non si considerano le parole dei superstiti, troppo cariche di vissuto e orientate da quella fragile facoltà che chiamiamo «memoria». Per applicare una sequenza molto nota, si potrebbe dire che la ricerca delle responsabilità degli esecutori doveva essere condotta tra le carte degli esecutori stessi senza fare ricorso alle vittime e ai testimoni, cioè alle voci dei soggetti della persecuzione. La domanda dei primi ricercatori è la seguente: come si è arrivati a realizzare uno sterminio di massa?

Mentre si stava formando questa prima linea di ricerca e d’interpretazione si è impiantata una complessa e articolata rete di centri di documentazione. Essi furono promossi da ebrei passati attraverso la lotta clandestina e il movimento partigiano (specie nell’Europa orientale e in Francia). Questi uomini della resistenza hanno la singolare caratteristica di essersi trasformati in breve tempo da semplici ricercatori e conservatori di documenti in storici della shoah, dal momento che cercavano di mettere in prospettiva la loro esperienza. Non avendo però un’adeguata conoscenza della documentazione dei persecutori (quella cha stavano per l’appunto raccogliendo Hilberg, Poliakov e Reitlinger) il loro quadro si presentava piuttosto ristretto e vi era la tendenza a pensare la resistenza sotto la forma esclusiva della resistenza armata, da cui provenivano i molti ebrei sovietici emigrati in Israele e passati dalla guerra partigiana contro i nazisti alla guerra per la costituzione dello stato degli ebrei nella Palestina del mandato britannico. I centri di documentazione erano per lo più finanziati dai governi e dalle rispettive comunità ebraiche. Essi hanno quindi impostato le ricerche su base prevalentemente nazionale. Questa restrizione ha avuto un duplice effetto contrapposto: da un lato si è cominciato a trarre ogni tipo di testimonianza dal territorio nel quale si svolgeva la ricerca e quindi si è dato un grande impulso all’accumulo di documenti; dall’altro però si è spesso isolato il lavoro di documentazione dal contesto generale, che avrebbe imposto continui livelli di comparazione tenendo conto dell’orizzonte globale della politica nazista. Per di più, la restrizione al quadro locale (spesso esibita nei titoli) doveva anche obbedire alle tendenze generali della storiografia nazionale che si andava ricostituendo dopo la fine della guerra (esempio più rilevante è quello della ricerca polacca).

Gli anni sessanta

Ci sono diverse linee storiografiche che possiamo isolare e che convivono con gli effetti provocati nella ricerca storica da un evento clamoroso: la decisione dello stato di Israele di sequestrare e processare a Gerusalemme uno dei più importanti gestori dello sterminio.

La produzione di questi anni mostra in primo luogo una tendenza nuova, che avrà effetti importantissimi nell’allargamento della prospettiva storica degli studi sulla shoah: il genocidio, come oggetto d’investigazione, comincia a perdere la sua indipendenza evenemenziale e viene integrato nelle ricerche più generali sul nazismo. La politica antiebraica viene studiata in tutte le sue articolazioni. Arrivano i primi apporti delle discipline biologiche e giuridiche, vengono modulate nuove relazioni tra antisemitismo e razzismo, si comincia a considerare il ruolo del sistema industriale e di quello amministrativo. La politica antiebraica diventa per alcuni un capitolo di storia del nazismo (e sono molti i libri così concepiti); per altri appare invece come l’essenza stessa del nazismo. Ed è stata proprio questa insistenza sull’«essenza» che ha progressivamente consentito a sociologi e politologi, filosofi e teologi, di entrare nella ricerca, affiancando gli storici che l’avevano egemonizzata. Essi mostrano che il problema ebraico (nonostante le oscillazioni che subisce il discorso sulla sua «soluzione») non è una sub-cultura e non è nemmeno un sotto-prodotto del nazionalsocialismo. Anzi, si comincia a prospettare l’ipotesi che costituisca la lingua unificante di diversi enunciati parziali del discorso sulla dominazione di razza (mi limito a fare osservare che, in questo periodo, anticipando una tendenza che esploderà in pieno nel decennio successivo, si cominciano a studiare gli apporti delle discipline biologiche).

Accanto a questa tendenza ne appare un’altra altrettanto importante. Possiamo riassumerla nel seguente passaggio. Tutti gli stati europei, anche quelli di più solida democrazia e rimasti estranei alle pratiche d'esclusione legale degli ebrei realizzate dai governi fascisti, hanno manifestato, negli anni precedenti il primo conflitto mondiale e poi (con diversa intensità) tra le due guerre, un forte sentimento d'ostilità e di rigetto nei confronti della loro componente giudaica. Nello stesso periodo di tempo, gli Stati Uniti hanno spostato verso l'antisemitismo alcune delle tante energie razziste che avevano investito nella discriminazione contro la popolazione nera. Anche l'Unione Sovietica non ha esitato a intraprendere misure di persecuzione dei suoi cittadini di nazionalità ebraica e, dopo il secondo conflitto mondiale, ha adottato il dispositivo dell'antisemitismo di stato. Il risultato più importante di una nuova messe di ricerche sui comportamenti degli stati non fascistizzati né nazificati è certamente quello relativo alle opinioni pubbliche dei paesi alleati restate indifferenti allo sterminio. È su questa base che nascerà la formula successiva dell’«abbandono degli ebrei».

Al contempo però si ha una forma d’insistenza dello sguardo sulle «vittime». Ma questo sguardo opera un cambiamento di prospettiva altrettanto importante di quello dell’integrazione: comincia lo studio della società ebraica nella persecuzione (in particolare nei ghetti) non più come oggetto inerte, bensì come soggetto che utilizza le risorse della propria cultura e della propria storia. Un contributo di primo piano a questa svolta è l’impostazione che viene data alla shoah come disciplina a impianto universitario dopo che nel 1959 l’ateneo di Bar Ilan e quello di Gerusalemme ne avevano deciso l’istituzione. Sia in Israele che negli altri paesi nei quali la storia della shoah è diventata disciplina universitaria (con tutto il corredo che ne consegue: centri di ricerca, grandi sistemi di documentazione, tesi di dottorato) si comincia a staccare l’oggetto «shoah» dalla storia contemporanea in senso stretto e ad inserirlo nella storia dell’ebraismo. In che senso? Nel senso che, come si è detto, lo sguardo degli studiosi si fa più attento alle voci provenienti dall’interno. Perché questa attenzione si rendesse possibile era necessario cambiare il patrimonio di conoscenze dei ricercatori. Ci volevano non solo delle persone che conoscessero appieno la storia, la cultura, la tradizione della maggior parte degli ebrei vittime dell’olocausto per capirne i comportamenti, i sentimenti, le forme di resistenza e quelle di passività. Ci volevano della persone che fossero in grado di accedere alle fonti dirette dell’espressione ebraica: fonti in yiddish e ebraico, oltre che nella sequenza delle lingue dell’Europa orientale e centrale (dal russo e polacco all’ungherese e romeno). L’insegnamento della shoah diventa soprattutto per questo motivo uno spazio plurilinguistico coincidente con quello esistente realmente in Yiddishland (dal Baltico al Mar Nero, dall’Oder al Volga), e vi entra per lo più la nuova generazione figli di immigrati che, accanto all’ebraico e all’inglese, ha ricevuto una delle lingue ebraiche dell’Europa orientale.

La svolta è appena iniziata quando si opera un evento traumatico: si apre nel 1961 il processo a Adolf Eichmann – imputato di giudeocidio. Il processo ebbe, alla stregua di quello di Norimberga, degli effetti storiografici dirompenti e non previsti dall’impostazione che il sistema giuridico israeliano aveva dato agli interrogatori dei testimoni. Nel 1961 si apre infatti quella che è stata definita l’«era del testimone»: una figura che passa dall’aula del tribunale, dov’era stata convocata per produrre prove a carico degli imputati, al magnetofono dei tecnici della storia orale che intendono invertire lo schema della prima generazione degli storici e quindi fissare lo sguardo sulle vittime. Ciò porterà in tempi relativamente brevi a riclassificare e riconsiderare metodologicamente il sistema delle interviste già avviato dallo Yad vashem. Ma l’effetto storiografico più importante del dibattimento di Gerusalemme è lo svolgimento di due inquietanti e brutali domande che il pubblico ministero pone ai testimoni: perché non vi siete ribellati? perché avete accettato di entrare nei Judenräte (consigli ebraici) e nella polizia ebraica dei ghetti (le due istituzioni create dai nazisti per fare eseguire gli ordini contro gli ebrei dagli ebrei stessi), rischiando in questo modo di entrare involontariamente nella spirale collaborazionistica? Dalle risposte date al pubblico ministero, Hannah Arendt, combinandola con le ricerche storiche di Hilberg, trae una conclusione che scolvolge la società israeliana: i consigli ebraici hanno una grave responsabilità nella shoah perché hanno trasmesso alla popolazione l’idea della passività e dell’ineluttabilità degli eventi. Che la tesi di Hannah Arendt non fosse basata sul principio di realtà, ma su di una posizione moralistica che non aveva né obbiettivi di ricostruzione storica né motivi d’ordine giuridico, non è qui questione che interessa. Ciò che interessa è che, per contestarla, si allestì una ricerca storiografica di ampie dimensioni (da Israele agli Stati Uniti) che studiava sia il versante hilberghiano (fonti germaniche), sia il versante appena allestito della conoscenza della società ebraica e della sua cultura. Le monumentali ricerche prodotte in seguito sono al centro di questa svolta. La più ricca d’implicazioni è quella che conia la nozione di amidà – una parola ebraica che significa “tenere ferma” la propria posizione etica e che interviene a dare conto delle innumerevoli forme di resistenza. Se per Hilberg e Arendt l’unica forma di resistenza sembrava essere quella armata, gli studiosi della fine degli anni sessanta (convinti che la macchina nazista non consentisse il ricorso alle armi), insistono sull’imperativo di mantenere un’esistenza governata, con dignità, dalla cultura e dalla morale ebraica di fronte alla volontà genocidiaria e alle pratiche di sterminio. Alcuni studiosi hanno denominato l’amidà come kidush ha-hayim (santificazione della vita), formula laicizzata dell’invocazione kidush ha-shem (santificazione del nome di dio). Comincia in questo modo, rovesciando lo schema della prima linea, lo studio della società ebraica nella persecuzione non più come oggetto inerte, bensì come soggetto che utilizza le risorse della propria cultura per sopravvivere in condizioni estreme. È come se si volesse staccare l’avvenimento denominato shoah dalla storia contemporanea in senso stretto per riportarlo alla storia di coloro che l’avevano vissuto. Perché questa attenzione si rendesse possibile era necessario cambiare il patrimonio di conoscenze dei ricercatori. Per capire i comportamenti degli ebrei nella persecuzione (sentimenti, forme di resistenza, indici di passività) bisognava, con una torsione radicale dello sguardo, usare le categorie delle vittime.

Gli anni settanta e ottanta

La caratteristica più notevole dell’inizio di questa fase è una specie di ritorno alle fonti tedesche per capire la politica ebraica del nazismo. Non si è trattato di una tendenza polemica nei confronti delle ricerche concentrate sulla storia della società ebraica (che non erano nemmeno conosciute, dato che erano prevalentemente affidate a bollettini redatti in ebraico e in yiddish). Si tratta del fatto che, in questo periodo di tempo, la ricerca tedesca sul terzo Reich ha fatto un gigantesco passo in avanti, sia dal punto di vista documentario (approfondimento dell’archivio), sia dal punto di vista metodologico e storiografico. Essa consiste essenzialmente nell’avere spostato l’interesse d’investigazione dalla voce dei protagonisti del nazismo alle strutture amministrative che, per mezzo dei funzionari subalterni incaricati dell’applicazione delle norme di discriminazione (Leggi di Norimberga), funzionavano in modo, si potrebbe dire, semi-automatico (siamo al livello intermedio e infimo di Befehl ist Befelh [gli ordini sono ordini N.d.r.]). Quando si scatenerà la controversia tutta interna alla storiografia tedesca tra «intenzionalisti» e «funzionalisti» (i primi tendono a vedere la politica nazista d’annientamento secondo una proiezione lineare, come se la figura finale fosse implicita nella figura aurorale; i secondi tendono a privilegiare un andamento discontinuo o tortuoso o variabile e quindi a considerare le azioni in funzione dell’obbiettivo da raggiungere), i funzionalisti saranno anche chiamati «strutturalisti», perché seguono nel dedalo degli apparati burocratici il sistema che si muove indipendentemente dalle persone e dalle loro idee.

Da questo tipo di insistenza sulla struttura e sul modo di funzionamento della macchina del regime derivano alcuni importanti orientamenti di ricerca che congiungono insieme gli studi sul nazismo e gli studi specifici sulla shoah: il primo e più gravido di conseguenza è quello sul ruolo della gente ordinaria e delle masse in un ordinamento totalitario e costituisce uno dei terreni della ricerca storica che ha subito al massimo livello l’influenza delle ricerche sociali e della stessa sociologia. Si possono qui ricordare alcuni effetti sulla ricerca concreta nell’ambito della storia ebraica: il lavoro dei funzionalisti, mettendo in rilievo l’andamento tortuoso della politica antiebraica dei nazisti (alternanza di fasi a alto tasso persecutorio a fasi di relativo allentamento), ha influito in modo esemplare sugli studi che hanno per oggetto il comportamento degli ebrei tedeschi di fronte alla persecuzione. Alcuni ricercatori americani, esaminando il flusso migratorio degli ebrei, si sono resi conto che si elevava il tasso di arrivo in coincidenza con l’acme della persecuzione, ma che esso tornava a livelli infimi nelle fasi di allentamento. Le testimonianze di ebrei tedeschi sono state determinanti. Elaborate infatti delle interviste mirate, si è appreso senza troppe difficoltà che le operazioni di salvataggio attraverso l’emigrazione messe in atto da diverse agenzie ebraiche si scontravano con la convinzione degli ebrei tedeschi che l’allentamento fosse il ritorno alla condizione di normalità (per gli ebrei è culturalmente normale vivere in condizione precaria).

Questa tendenza a studiare l’immediatamente “prima” della shoah non ha connessioni con gli studi sull’immediatamente “dopo” la shoah. In questo periodo, il ritorno alla vita dei sopravvissuti non ha trovato infatti (salvo rare eccezioni) i suoi storici. Non mi riferisco solo all’allestimento delle strutture di accoglienza e reintegrazione per coloro che tornavano dai campi e per quelli che avevano vissuto la shoah in clandestinità e, il più delle volte, senza avere avuto conoscenza, se non per allusioni, di ciò che era avvenuto. Mi riferisco al fatto che nel 1945, malgrado la liberazione dei campi, migliaia di uomini, donne e bambini dell’Europa orientale, denominati nel linguaggio burocratico degli alleati come DP (displaced persons), non vengono liberati dai campi, ma vi vengono trattenuti (alcuni per anni), perché non intendono ritornare là dove è avvenuto lo sterminio delle loro famiglie e delle loro comunità (Polonia).

Per capire il comportamento delle potenze occidentali bisogna tuttavia avere il coraggio di distendere su di un periodo piuttosto lungo tutta la questione: dal 1917 in avanti in tutte le democrazie europee e americane, così come poi avverrà nell’Italia fascista e nella Germania nazista, gli ebrei dell’Europa orientale vengono considerati comunisti (la formula fortunatissima nei regimi totalitari e democratici è «giudeo-bolscevismo»). Lo stereotipo è talmente radicato nelle visioni comuni e nelle viscere della cultura politica che s’installa immediatamente, nella diplomazia alleata, la convinzione che l’accoglienza degli ebrei dell’Europa orientale potrebbe equivalere all’inserimento di sovversivi nelle placide dimore dell’Europa occidentale e dell’America. Per dare figura politica all’emergente nozione di totalitarismo si immettono negli stessi campi nei quali vengono trattenuti gli ebrei polacchi che non accettano il rimpatrio in una terra che non considerano più come loro Heim [patria N.d.r.], si spostano nei campi ritornati di concentramento i collaborazionisti polacchi, ucraini, lituani, bielorussi (oltre ai tedeschi etnici). E poi, nel 1948, vi è la scelta americana che avvia la guerra fredda e separa il destino dei DP dagli ebrei di casa propria: la legge che modifica il flusso migratorio preferisce accogliere gli esecutori (cioè i criminali di guerra) rispetto alle vittime.

Non dobbiamo tuttavia credere che l’influenza della ricerca archivistica tedesca abbia inciso su tutte le componenti storiografiche. Esse erano in gran parte così consolidate nelle metodologie e nelle prospettive che hanno continuato a lavorare secondo la propria impostazione. È così che assistiamo a una forte ripresa d’interesse per la testimonianza (anche per effetto del raffinamento delle tecniche di prelievo), che fa aumentare il livello di produzione della storia ebraica (in gran parte in forma di storia della società ebraica). È questo il periodo di tempo in cui la storia dell’ebraismo contemporaneo si trasforma compiutamente in storia sociale dell’ebraismo: gli studi sull’amidà riprendono in modo più allargato e coinvolgono gli aspetti più diversi della vita, anche perché si assiste alla pubblicazione dei principali testi di riferimento: è soprattutto il grande centro ebraico di Buenos Aires, egemonizzato da tendenze dell’ebraismo laico e interamente ashkenazita, a pubblicarli in originale (yiddish o polacco), dando modo alla fine del decennio di allestire una complessa trama di traduzioni in inglese e francese che hanno consentito anche a studiosi privi della conoscenza delle lingue ebraiche dell’Europa orientale di riassumere i lavori della storia sociale dell’ebraismo nella shoah.

Dalla fine degli anni ottanta al nuovo secolo

Tutto l’immenso apparato di studi e ricerche condotto per quasi cinquant’anni in diversi paesi si trova improvvisamente davanti a una voragine: gli archivi dell’Europa orientale e dell’Urss si aprono senza restrizioni agli storici. Questo comporta una fase di rielaborazione di tutti gli schemi parziali e le sintesi precedenti. Gli archivi danno non solo conto della politica orientale nazista per il fatto che l’Armata Rossa aveva trasferito in Urss diversi fondi germanici, che erano ben più di una integrazione di quelli prelevati dagli americani o rimasti in Germania. Davano anche conto dei livelli di collaborazionismo delle popolazioni all’occupante tedesco (l’analisi delle documentazioni complete relative ai processi fatti ai criminali di guerra è adesso al vaglio di una nuova generazione di studiosi, la maggior parte dei quali viene dagli Stati Uniti e da Israele, ma conserva la caratteristica di essere a proprio agio con la documentazione russa oltre che con quella yiddish). In questa fase di prevalenza della corporazione degli storici, si ha tuttavia una pressione sempre più forte dei sociologi, che hanno l’ambizione di presentare una specie di storia globale dell’olocausto sotto forma d’una linea speficica.

L’apertura degli archivi russi e ucraini, polacchi e lituani, ha inoltre rimesso al centro dell’attenzione quella componente dell’ebraismo dell’Europa orientale che si orienta immediatamente verso la militanza nel movimento partigiano e che, quando viene presa per essere rinchiusa nei ghetti, organizza la rivolta. È infine emersa nella ricerca la storia di genere.

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Glowinski Michal, Tempi bui: un’infanzia braccata, Firenze, La Giuntina, 2004

Gradowski Salmen, Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944, Venezia, Marsilio, 2002

Guterman Simha, Il libro ritrovato. Romanzo, Torino, Einaudi, 1994

Hillesum Etty, Diario. 1941-1943, Milano, Adelphi, 1993

Hillesum Etty, Lettere 1942-1943, Milano, Adelphi, 1998

Holzman Helene, Questa bambina deve vivere, Venezia, Marsilio, 2005

Katzenelson Yitzhak, Il canto del popolo ebraico massacrato, Firenze, La Giuntina, 1995

Klemperer Victor, Testimoniare fino all’ultimo, Mondadori

Klüger Ruth, Vivere ancora. Storia di una giovinezza, Einaudi, Torino, 1995

Levi Primo, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1992

Lewin A., La carta nera. (Una coppa di lacrime). Diario dal ghetto di Varsavia, Milano, Saggiatore, 1993

Korczak Janusz, Diario del ghetto, Milano-Trento, Luni, 1997

Mazor Michel, La città scomparsa, Venezia, Marsilio, 1992

Nirenstajn Alberto, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Einaudi, Torino, 1958

Perechodnik Carel, Sono un assassino? Autodifesa di un poliziotto ebreo, Milano, Feltrinelli, 1996

Ringelblum Emmanuel, Sepolti a Varsavia. Appunti dal Ghetto, Milano, Il Saggiatore, 1965

Rolnikaite Masha, Devo raccontare. Diario 1941-1945, Milano, Adeplhi, 2005

Roseman Mark, Il passato nascosto. Fuga e vita clandestina di una giovane ebrea nella Germania nazista, Milano, Corbaccio, 2001

Saletti Carlo (a cura di), La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, Venezia, Marsilio, 1999

Semprun Jorge, Wiesel Elie, Tacere è impossibile. Dialogo sull’olocausto, Parma, Guanda, 1996

Sereny Gitta, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1994

Steinberg Paul, Un altro mondo, Parma, Guanda, 1997

Šur Grigorij, Gli ebrei di Vilna. Una cronaca dal ghetto, 1941-1944, Firenze, La Giuntina, 2002

Wiesel Elie, La notte, Firenze, La Giuntina, 1980

Wiesenthal Simon, Il girasole, Milano, Garzanti, 2000

Il negazionismo

Bastian Till, Auschwitz e la “menzogna su Auschwitz”. Sterminio di massa e falsificazione della storia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995

Guttenplan D. D., Processo all’Olocausto, Milano, Corbaccio, 2001

Pisanty Valentina, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998

Shermer Michael, Grobman Alex, Negare la storia, Roma, Editori Riuniti, 2002

Vidal-Naquet Pierre, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo storico, Viella, 2009

Memoria della shoah e post-memoria

Sono qui comprese alcune opere che propongono riflessioni importanti sul genocidio.

Agamben Giorgio, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998

Arendt Hannah, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1992

Bauman Zygmunt, Modernità e olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992

Bensoussan Georges, L’eredità di Auschwitz: come ricordare?, Torino, Einaudi, 2002

Derrida Jacques, Perdonare: l’imperdonabile e l’imprescrittibile, Milano, Cortina, 2004

Didi-Huberman Georges, Immagini malgrado tutto, Milano, Cortina, 2005

Jankélévitch Vladimir, Perdonare?, Firenze, La Giuntina, 2004

Jaspers Karl, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Cortina, 1996

Klemperer Victor, LTI. La lingua del terzo Reich, Firenze, La Giuntina

Lanzmann Claude, Shoah, Rizzoli, Milano, 1987

Levi Primo, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986

Ricœur Paul, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina, 2003

Robin Régine, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, Verona, Ombre Corte, 2005.

Todorov Tzvetan, Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti, 1992

Wieviorka Annette, L’era del testimone, Milano, Cortina, 1999