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Il lungo XX secolo. Postfazione. Con un ricordo di Alberto De Bernardi

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Nanni Arrighi: un ricordo di Alberto De Bernardi

Non è passato neanche un anno da quando Giovanni Arrighi se ne è andato, lasciando, tra gli amici e nella comunità scientifica, un vuoto profondo, anche in chi, come me, lo frequentava ormai raramente, dopo il suo lontano trasferimento negli Usa. Ci eravamo visti qui a Bologna negli ultimi anni perché aveva sempre accolto con grande disponibilità gli inviti che io e altri colleghi gli avevamo fatto, regalandoci sempre occasioni di riflessione e di discussione di alto livello, che non dimenticheremo facilmente.

Giovanni Arrighi nel 2006, dal sito http://www.sympathytree.com/giovanniarrighi1937
Giovanni Arrighi nel 2006, dal sito http://www.sympathytree.com/giovanniarrighi1937

Nanni infatti è stato uno studioso notevolissimo, come testimoniano i risultati delle sue ricerche che da oltre trenta anni costituiscono un punto di riferimento insostituibile per la comprensione del mondo contemporaneo: un flusso contante di suggestioni e sollecitazioni e una elaborazione continua di modelli interpretativi e di messe a punto metodologiche, sostenuti da una rara capacità di contaminazione interdisciplinare che ne hanno fatto, e ne faranno ancora per molto, un interlocutore indispensabile non solo per gli economisti e i sociologi, ma anche per gli storici e i geografi.
Un intellettuale a cui tornare ogni qual volta ci si interroghi sulla complessità del secolo appena trascorso e sulle radici di lunga durata di quello che abbiamo appena cominciato; ma anche quando ci si voglia confrontare con una lezione di metodo capace di abbracciare l’intero campo delle scienze umane. Così è accaduto a me, ma credo di essere in buona e grande compagnia.
Ma Nanni non ci mancherà solo per la sua capacità di obbligarci a ridefinire costantemente i nostri punti di vista e il quadro delle rilevanze di cui servirci, e a decentrarci concettualmente e metodologicamente, abbandonando piste disciplinari e percorsi di ricerca consueti.
Ci mancherà anche perché era anche una bella persona, simpatico e disponibile, privo di arroganza e di sussiego; pur essendo uno dei pochi intellettuali italiani ad avere una autentica statura internazionale, era rimasto “uno di noi”, con il qual era facile riprendere il filo di discorsi lasciati in sospeso anche per anni: un “noi” maturato nella condivisione di un pezzo, breve ma significativo, della propria esistenza, anche se ognuno a suo modo aveva dismesso da tempo i panni dell’intellettuale militante.
Da li aveva preso le mosse circa cinquanta anni fa la biografia culturale e professionale di Arrighi, quando aveva deciso di dedicarsi al mestiere di ricercatore seguendo un apprendistato molto diverso da quello percorso da molti rampolli della buona borghesia milanese, da cui anch’egli proveniva, finiti nei ranghi accademici. Appena dopo aver conseguito la laurea all’Università Bocconi andò ad insegnare prima in Rhodesia e poi in Tanzania combinando i suoi interessi di studioso per il problemi del Terzo mondo e del sottosviluppo con la con la sua passione politica. Mentre entrava in contatto con i movimenti di liberazione di quei paesi portava a termine Sottosviluppo e sovrastruttura in Africa [Torino, Einaudi, 1969], ancora oggi un testo fondamentale per questo ambito di studi.
Espulso dalla Tanzania per motivi politici ritornò in Italia, nel pieno della mobilitazione politica degli studenti e del proletariato di fabbrica, insegnando in due “capitali” della contestazione: Trento e Milano. Mentre cresceva il suo impegno militante nel mouvement - ci siamo conosciuti allora nella Milano della bomba alla Banca dell’agricoltura, delle assemblee alla Statale, dei collettivi autonomi di fabbrica, dell’officina teatrale di Dario Fo, di Gaber e di Jannacci, partecipando insieme alla creazione di uno dei tanti gruppi extraparlamentari nati nel capoluogo lombardo, il Gruppo Gramsci – contribuiva attivamente al dibattito scientifico sulla “political economy” , collaborando alla “Montly review” di P. Baran e di P. Sweezy, mentre intensificava il suo rapporto con I. Wallerstein e il gruppo di intellettuali “terzomondisti” che lavoravano al Braudel Centre presso la State University of New York Binghamton.
Nel ‘79 dopo una breve esperienza di insegnamento nella nuova università calabrese di Arcavacata (CZ) e dopo aver pubblicato La geometria dell’imperialismo [Feltrinelli, Milano, 1978] nel quale portava termine, se così si può dire, i suoi studi sul sottosviluppo, inquadrandoli però in una nuova prospettiva di ricerca incentrata sui sistemi mondiali, che non avrebbe più abbandonato, lasciava definitivamente l’Italia per trasferirsi negli Stati Uniti.
Con questo breve ma denso volume, dedicato prevalentemente alla studio delle due grandi crisi del capitalismo, quella di fine Ottocento e quella degli anni Trenta del secolo scorso, nell’intento di pervenire a una concettualizzazione dell’imperialismo, Arrighi cominciava a fare i conti con il marxismo, riscoprendo Hobson, l’inventore stesso del termine e della sua prima teorizzazione, e soprattutto cominciando a riflettere sul concetto di impero, nell’età del capitalismo industriale.
Era l’inizio di un percorso che negli anni successivi si sarebbe arricchito di nuovi stimoli e di nuove prospettive di ricerca man mano che maturava il confronto critico con la storiografia braudeliana e la riflessione sul “sistema-mondo” delineato da Wallerstein si intrecciava con gli apporti teorici della “world history”, che proprio in quegli anni veniva assumendo un profilo metodologico maturo.
Esito più compiuto di questo complesso tragitto scientifico è stato Il lungo XX secolo, pubblicato nel 1994 e tradotto due anni dopo in Italia [Milano, Il Saggiatore]. In esso Arrighi proietta l’analisi delle trasformazioni intervenute nel capitalismo nell’ultimo quarto del secolo scorso, sull’onda della crisi degli anni Settanta, in una prospettiva di lunga durata che parte dal Cinquecento. Questa prospettiva analitica serve ad Arrighi per cogliere le implicazioni storiche profonde del processo di finanziarizzazione del capitalismo che costituisce la cifra più significativa del cambiamento epocale intervenuto dopo la conclusione dei “Trenta gloriosi”. Nell’espansione finanziaria degli anni Ottanta e Novanta si nasconde non solo la crisi della leadership economica americana, affermatasi all’indomani del secondo conflitto mondiale e prende corpo una fase di transizione nella quale siamo immersi, ma soprattutto si delinea un modello di crisi di egemonia gia presentatosi in altre epoche della storia dell’Occidente.
Servendosi della bussola elaborata da Braudel e da una rilettura critica di Marx, Arrighi si addentra nella storia del capitalismo individuando un modello di transizione dei regimi di accumulazione del capitale, imperniato sul dominio della finanza, che si riproduce in ogni fase di cambiamento dell’economia mondo: sia nel passaggio dall’egemonia economica delle città-stato genovese e veneziana a quella del piccolo stato-regionale olandese, sia in quello nel quale matura la consegna del testimone da Anversa e Rotterdamm all'impero mondiale britannico nel diciannovesimo secolo, fino alla lunga transizione dall’egemonia britannica all’affermazione della potenza americana come centro dell'economia mondo, il «filo rosso» che accomuna questi passaggi epocali ruota intorno al declino del mondo della produzione del commercio e dalla parallela ascesa della finanziarizzazione del capitale.
In questa ottica il primato del capitale finanziario che caratterizza l’esito della crisi degli anni Settanta-Ottanta del Novecento segnala il declino dell’egemonia americana e l’apertura di una fase di transizione nella quale è immerso il sistema mondo di fine secolo: un passaggio di fase storica, dunque, che definisce i caratteri del presente non solo sul versante dell’economia, ma anche della geopolitica.
Infatti la costruzione delle egemonie imperiali del passato come del presente presuppone un ruolo attivo dello Stato, una relazione stretta tra politica e economia, tra Stato e capitale in forza della quale il primo gioca il ruolo indispensabile di regolatore e di coordinatore delle pulsioni anomiche che attraversano e connotano il mercato capitalista.
Come ha scritto Simone Selva in una attenta recensione del volume

Proprio questa 'santa' alleanza tra Stato e mercato, tra politica e capitale, tipica della distinzione proposta a suo tempo da Fernand Braudel tra economia di mercato e capitalismo, spiega per Arrighi la capacità dimostrata nei secoli dalle economie emergenti di attrarre dall'estero quantitativi sempre crescenti di capitali: una sfida, questa, decisiva per capire come le economie che di secolo in secolo si fanno egemoni sul sistema capitalistico prevalgono proprio grazie alla saldatura tra poteri pubblici e forze del mercato. L'elemento di novità che la crisi americana presenta è costituito proprio dalla capacità statunitense di riproporsi come il maggiore catalizzatore delle risorse necessarie ad ogni economia per costituirsi come forza egemone, tanto da spingere l'autore a chiedersi se questa giunzione maturata negli Stati Uniti tra Stato e mercato sia a tal punto affinata e provata da non temere future sfide ad opera di analoghi connubi provenienti da altri paesi. [Jura Gentium, 1 (2005)]

I due successivi lavori di Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, con Silver Beverly J [Milano, Bruno Mondadori, 2006] e Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo [Milano, Feltrinelli, 2008], si interrogano proprio su questa ultima questione; una diversa prospettiva nella quale lo sguardo lungo tematizzato e articolato nel Lungo XX secolo, viene piegato allo sforzo di una prefigurazione dell’immediato futuro per rispondere all’interrogativo: chi sarà la nuova potenza egemone dopo il definitivo declino dell’impero americano? Su quali presupposti si fonderà l’egemonia del nuovo dominus del sistema mondo?
La chiave è nel titolo: Adam Smith a Pechino significa non solo ipotizzare il passaggio del centro del mondo da New York a Pechino, ma anche individuare in una nuova declinazione del rapporto tra economia di mercato e capitalismo. La Cina infatti si configura per Arrighi come il luogo storico nel quale una complessa economia di mercato, che per molti secoli è stata più dinamica di quella europea, non abbia fatto il salto verso il capitalismo. La forza della Cina di oggi, al di là del modello comunista impostosi nell’ultimo cinquantennio, sta proprio in questa differenza e in questa disconinuità.
Nanni ci ha lasciato proprio nel momento più alto e complesso del suo lungo tragitto intellettuale, quando il complesso modello intepretativo elaborato nel corso di un trentennio sarebbe stato chiamato a cimentarsi con la quarta crisi del capitalismo occidentale e con l’America di Obama.
Noi abbiamo pensato di ricordare Nanni nell’unico modo possibile, pubblicando l’ultimo suo scritto: la prefazione inedita in Italia alla nuova edizione del Lungo ventesimo secolo. Una nuova messa a punto di un ragionamento scientifico e di un lavoro intellettuale ancora nel pieno della loro elaborazione, che ci mostra uno studioso al lavoro, non pienamente soddisfatto delle conclusioni cui è arrivato, perchè misura il campo della ricerca ancora da fare, delle questioni da sciogliere, dei problemi aperti che la discussione appassionata della comunità scientifica aveva messo in evidenza e a cui Nanni voleva corrispondere nel modo che gli era più consono: studiando e pensando.
Dieci mesi fa questo laboratorio di ricerca starordinariamente attivo per un trentennio si è fermato; probabilmente ci metteremo molto tempo non solo a rielaborare il lutto per un’assenza dolorosa, ma a percepire in modo compiuto il vuoto che l’improvvisa chiusura di quel laboratorio ha prodotto nella conoscenza del mondo nel quale viviamo.

Ringrazio Beverly Silver e Verso Books per averci concesso la pubblicazione della traduzione del testo di Nanni.

***

Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Postfazione (21 marzo 2009)

[1]
(traduzione di Roberta Cimino)

Il Lungo Ventesimo Secolo ha espresso tre concetti principali. L’obiettivo di questa postfazione è chiarire il significato di quei tre concetti e valutare la loro utilità nel monitoraggio della situazione dell’economia politica globale, per come si è evoluta durante gli ultimi quindici anni, da quando cioè essi furono formulati per la prima volta.
Il primo concetto è che l’espansione finanziaria che giunse a caratterizzare l’economia globale negli ultimi decenni del XX secolo non fu un fenomeno, ma una tendenza ricorrente del capitalismo storico fin dalle sue origini. Se le tendenze del passato possono fungere da guida per il presente e per il futuro, ci potremmo attendere che l’espansione finanziaria ristabilisca temporaneamente la fortuna del principale organismo capitalista dell’epoca (cioè gli Stati Uniti), ma che essa alla fine porti a un cambiamento di leadership nel centro di accumulazione di capitale su scala mondiale.
Prendendo in prestito le parole di Gerhard Mensch [1979: 73], ho denominato l’inizio di ogni espansione finanziaria “crisi segnale”, e la fine di ogni espansione finanziaria “crisi terminale” del regime dominante di accumulazione. Nel senso in cui ho usato queste espressioni, la “crisi segnale” – cioè il passaggio dal commercio e dalla produzione alla mediazione e alla speculazione finanziaria – è un segnale che la possibilità di continuare a ottenere profitti dal reinvestimento di capitale nell’espansione materiale dell’economia mondiale è giunta al limite. Nonostante la finanziarizzazione permetta ai suoi promotori e organizzatori di prolungare la loro leadership nell’economia mondiale, storicamente essa ha sempre rappresentato il preludio a una “crisi terminale” del regime dominante di accumulazione, e cioè al suo collasso e alla sua sostituzione con un nuovo regime.
Il secondo concetto è che le precedenti espansioni finanziare non sono soltanto fenomeni ricorrenti (ciclici) ma anche momenti di essenziale riorganizzazione del regime di accumulazione. Attraverso consecutive riorganizzazioni di questo tipo, il capitalismo ha esteso il suo dominio su scala globale e ha progressivamente guadagnato in portata e in penetrazione. Le espansioni finanziarie, in altre parole, sono state accompagnate dall’emergere di organismi di accumulazione di capitale su scala globale, i quali sono, sia finanziariamente che militarmente, più potenti dei loro predecessori. Il terzo concetto è che la dinamica del capitalismo mondiale non solo è cambiata nel tempo, ma ha reso l’espansione finanziaria della fine del Ventesimo secolo anomala nei suoi aspetti chiave. Un’anomalia cruciale è rappresentata dalla biforcazione, che non ha precedenti, tra potere finanziario e militare, e che, come ho sostenuto, potrebbe svilupparsi in una di queste tre direzioni: (1) la formazione di un impero mondiale; (2) la formazione di un’economia mondiale non capitalista; oppure (3) una situazione di caos sistemico senza fine.

La Logica delle Espansioni Finanziarie

Nella concettualizzazione delle espansioni finanziarie avanzata ne Il Lungo Ventesimo Secolo, le espansioni materiali alla fine conducono a una sovraccumulazione del capitale, la quale a sua volta porta le organizzazioni capitaliste a invadere i rispettivi campi di azione; e la competizione si sposta sempre di più da un gioco a somma positiva a un gioco a somma zero (o persino a somma negativa). Accentuando la complessiva tendenza al ribasso dei margini di profitto nel commercio e nella produzione, la competizione spietata rafforza la tendenza degli organismi capitalisti a mantenere sotto forma di liquidi una crescente parte dei propri flussi di contante in entrata. In tal modo essa consolida quelle che possiamo chiamare le condizioni di “rifornimento” delle espansioni finanziarie. Così, come Greta Krippner [2005] ha dimostrato, non solo la porzione dei profitti complessivi delle società statunitensi rappresentati dalla finanza, dalle assicurazioni e dall’economia immobiliare negli anni ’80 ha quasi raggiunto, e negli anni ’90 ha superato, la porzione rappresentata dall’industria; ma più significativamente le stesse imprese non finanziarie hanno bruscamente aumentato i lori investimenti in azioni finanziarie rispetto a quelli negli impianti e nell’attrezzatura.
Le espansioni finanziarie prolungate si concretizzano solo quando questa maggiore preferenza per la liquidità da parte degli organismi capitalisti è unita ad adeguate condizioni della “domanda”. Storicamente il fattore cruciale nella creazione delle condizioni della domanda delle espansioni finanziarie è rappresentato da un’intensificazione della competizione interstatale per il capitale mobile—una competizione che Max Weber [1978: 354; anche, 1961: 249] ha chiamato “the world-historical distinctiveness of [the modern] era”. Il verificarsi delle espansioni finanziarie durante periodi di competizione interstatale per il capitale mobile particolarmente intensa non è una coincidenza storica. Piuttosto, può essere rintracciata la tendenza delle organizzazioni territoriali a rispondere a più severe restrizioni di bilancio, le quali derivano dal rallentamento dell’espansione del commercio e della produzione, entrando in competizione l’una con l’altra per il capitale accumulatosi nei mercati finanziari. Questa tendenza determina imponenti e ampie redistribuzioni del reddito e della ricchezza da tutti i tipi di comunità agli organismi che controllano il capitale mobile, aumentando e sostenendo così la redditività degli accordi finanziari che sono nettamente separati dal commercio e dalla produzione. Tutte le belle epoque del capitalismo finanziario—dalla Firenze rinascimentale alle epoche di Reagan e di Clinton—sono state caratterizzate da redistribuzioni di questo tipo [Arrighi 1994; Arrighi e Silver 1999: soprattutto il capitolo 3].
Secondo Braudel le “espansioni finanziarie” sono sintomi della maturazione di una determinata fase dello sviluppo capitalistico. Esaminando il ritiro degli Olandesi dal commercio intorno al 1740 al fine di diventare “banchieri d’Europa”, Braudel suggerisce che tale ritiro sia una ricorrente tendenza sistemica universale. La medesima tendenza era già stata messa in evidenza per l’Italia del XV secolo, e di nuovo intorno al 1560, quando i gruppi che conducevano gli affari genovesi si ritirarono gradualmente dal commercio per esercitare per circa settanta anni un controllo sulle finanze europee “that was so discreet and sophisticated that historians for a long time failed to notice it”. Dopo gli Olandesi, gli Inglesi replicarono questa tendenza durante e dopo la Grande Depressione del 1873- 96, quando la fine della “fantastica impresa della rivoluzione industriale” creò una sovrabbondanza di capitale monetario. Dopo la parimenti “fantastica impresa” del cosiddetto Fordismo – keynesianismo, a partire dagli anni Settanta del XX secolo il capitale statunitense ha seguito una traiettoria simile. Possiamo facilmente riconoscere in quest’ultima “rinascita” del capitale finanziario un ulteriore esempio di quella ricorrente inversione verso l’“eclettismo”, che in passato è stato associata alla maturità di un considerevole sviluppo capitalistico. “[Every] capitalist development of this order seems, by reaching the stage of financial expansion, toh ave in some sense announced its maturity: it [is] a sign of autumn” [Braudel 1984: 157, 164, 242-3, 246].
Strettamente legata a questa affermazione è l’osservazione di Marx secondo cui il sistema di credito è stato uno strumento chiave, sia a livello nazionale che internazionale, del trasferimento di capitale in eccesso dai centri di commercio e di produzione capitalistici in declino a quelli in ascesa. Poiché l’argomentazione principale di Marx nel Capitale prescinde dal ruolo degli stati nei processi di accumulazione di capitale, i debiti nazionali, l’alienazione dei beni e le entrate future degli stati sono trattati sotto la voce dell’“accumulazione primitiva”, cioè, “an accumulation not the result of the capitalist mode of production, but its starting point” [Marx 1959: 713, 754- 5]. Questa concettualizzazione ha impedito a Marx di riconoscere, come invece ha fatto Weber, l’importanza continuativa dei debiti nazionali in un sistema capitalista radicato negli stati che si fanno continuamente concorrenza per il capitale mobile. Nondimeno Marx ha effettivamente riconosciuto l’importanza continuativa dei debiti nazionali, non come espressione di competizione interstatale, ma come mezzi di un’“invisibile” cooperazione inter-capitalista che aveva di volta in volta ridato inizio all’accumulazione di capitale, attraverso lo spazio- tempo del capitalismo mondiale a partire dalle sue origini fino all’epoca del filosofo tedesco:

With the national debt arose an international credit system, which often conceals one of the sources of primitive accumulation in this or that people. Thus the villainies of the Venetian thieving system formed one of the secret bases of the capital-wealth of Holland to whom Venice in her decadence lent large sums of money. So was it with Holland and England. By the beginning of the 18th century… Holland had ceased to be the nation preponderant in the commerce and industry. One of its main lines of business, therefore, [became] the lending out of enormous amounts of capital, especially to its great rival England. [And the] same thing is going on to-day between England and the United States. [Marx 1959:755-6]

Marx non ha mai sviluppato le implicazioni teoriche delle sue osservazioni storiche. Nonostante il considerevole spazio dedicato al “capitale monetario” nel terzo volume del Capitale, egli non ha mai preservato i debiti nazionali e l’alienazione dello stato dal loro confinamento nei meccanismi di un’accumulazione che è “not the result of the capitalist mode of production but its starting point”. E tuttavia, nelle sue personali osservazioni storiche, ciò che appare come “punto di partenza” in un centro (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti) è allo stesso tempo “punto di arrivo” di lunghi periodi di accumulazione di capitale in centri precedentemente affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra). Per usare l’immaginario braudeliano, ogni espansione finanziaria è contemporaneamente “l’Autunno” di uno sviluppo capitalistico di importanza storica globale che ha raggiunto i suoi limiti in un luogo, e la “Primavera” di uno sviluppo di ancor maggiore importanza che sta avendo inizio in un altro luogo.
Come è stato accennato precedentemente, una simile tendenza è stata evidente negli ultimi 15 anni. Come peraltro ho sottolineato ne Il Lungo Ventesimo Secolo citando Joel Kotkin e Yoriko Kishimoto [1988: 123], “in a stunning reversal of Marx’ dictum, the United States is not following the pattern of other capital-exporting empires (Venice, Holland, Great Britain), but now is attracting a new wave of overseas investments.” Poiché la Cina ha rimpiazzato il Giappone alla guida dell’espansione economica est-asiatica negli anni Novanta e dopo il 2000, l’inversione è diventata meno evidente, dato che le corporazioni statunitensi hanno investito in Cina in misura molto maggiore di quanto abbiano mai fatto in Giappone. Nonostante rimane comunque vero che i flussi di capitale dai centri di accumulazione di capitale emergenti (Asia orientale) a quelli in declino (Stati Uniti) continuano a superare i flussi che vanno nella direzione opposta – un’anomalia dell’ultima espansione finanziaria sulla quale torneremo più avanti.

Modelli Ciclici ed Evolutivi del Capitalismo Storico

Le analogie tra i cicli sistemici di accumulazione – ognuno consistente nell’emergere di un nuovo regime nel corso dell’espansione di un vecchio regime—hanno portato alcuni lettori ad attribuire a Il Lungo Ventesimo Secolo una ragionamento strettamente ciclico per cui, secondo le parole di Michael Hardt e Antonio Negri [2000: 239], “it is impossibile to recognize a rupture of the system, a paradigm shift, an event. Instead, everything must always return, and the history of capitalism thus becomes the eternal return of the same” [vedi anche Detti 2003: 551-2]. In realtà l’enfasi posta dal libro sulla ricorrenza delle espansioni finanziarie non ci impedisce di riconoscere rotture sistemiche e cambiamenti di paradigma, e nemmeno è volta a tracciare la storia del capitalismo come un eterno ritorno dell’uguale. Al contrario essa è intesa a dimostrare che essenziali riorganizzazioni del sistema avvengono proprio nel momento in cui l’“uguale” (nella forma di espansioni finanziarie ricorrenti) sembra ritornare.
La figura 1 riassume il modello storico di ricorrenza ed evoluzione che può essere dedotto dalla comparazione dei consecutivi cicli sistemici di accumulazione proposta da Il Lungo Ventesimo Secolo. Nel momento in cui confrontiamo gli organismi, le strategie e le strutture dei cicli consecutivi, scopriamo che non solo essi sono differenti, ma anche che la loro sequenza descrive un modello che si evolve verso regimi di crescenti dimensioni, portata e complessità. La figura 1 riassume questo modello evolutivo, concentrandosi sui “contenitori di potere” che hanno ospitato i “quartieri generali” dei principali organismi capitalistici dei regimi consecutivi: la Repubblica di Genova, le Province Unite, il Regno Unito e gli Stati Uniti.
Al tempo dell’ascesa e della piena espansione del regime genovese, la Repubblica di Genova era una città-stato di modeste dimensioni e dall’organizzazione elementare, che di certo deteneva un potere molto limitato. Profondamente divisa a livello sociale, e piuttosto priva di difesa militare, era sotto molti punti di vista uno stato debole in confronto a tutte le grandi potenze del tempo, tra le quali la sua antica rivale Venezia si trovava ancora a un livello molto alto. Nonostante ciò, grazie alle sue vaste reti commerciali e finanziarie, la classe capitalista genovese, organizzata in una diaspora cosmopolita, era alla pari con alcune delle più potenti dominazioni territoriali d’Europa, e riuscì a volgere l’implacabile competizione per il capitale mobile che avveniva tra queste dominazioni in un potente motore per l’auto-espansione del proprio capitale [Arrighi 1994: 109- 32, 145- 51].
Al tempo dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione olandese, le Province Unite erano un tipo di organizzazione ibrido che combinava alcuni dei caratteri delle città-stato ormai in declino con altri propri degli stati nazionali emergenti. Organizzazione più grande e molto più complessa di quella della Repubblica di Genova, le Province Unite “contenevano” sufficiente potere per ottenere l’indipendenza dalla Spagna imperiale, per ritagliarsi a partire dagli imperi marittimi e territoriali di quest’ultima un impero di avamposti commerciali estremamente proficuo, e per tenere a bada le minacce militari provenienti dal mare da parte dell’Inghilterra e da terra da parte della Francia. Questo maggiore potere dello stato olandese in confronto a quello genovese permise alla classe capitalista olandese di fare quello che i Genovesi avevano già fatto—trasformare la competizione interstatale per il capitale mobile in un motore per l’auto-espansione del proprio capitale—ma senza la necessità di “acquistare” protezione dagli stati territoriali, come avevano fatto i Genovesi attraverso una relazione di scambio politico con le potenze iberiche. Il regime olandese, in altre parole, “internazionalizzò” i costi di protezione che i Genovesi avevano “esternalizzato”, così come è mostrato nella figura 1 [Arrighi 1994: 36- 47, 127- 51].
Al tempo dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione britannico, il Regno Unito non era solo una stato nazionale pienamente sviluppato. Esso stava anche conquistando un impero commerciale e territoriale su scala mondiale, il quale dava ai suoi gruppi di potere e alla sua classe capitalista un controllo sulle risorse umane e naturali del mondo senza pari e senza precedenti. Questo controllo permise alla classe capitalista britannica di fare quello che gli olandesi erano già stati in grado di fare—volgere a proprio vantaggio la competizione interstatale per il capitale mobile e “produrre” tutta la protezione necessaria attraverso l’auto-espansione del proprio capitale—ma senza dover contare, per quanto riguardava la gran parte della produzione agro- industriale, su cui si basava la redditività delle proprie attività commerciali, su organismi territoriali stranieri e spesso ostili. Se il regime olandese, in confronto a quello genovese, aveva internazionalizzato i costi di protezione, il regime britannico in confronto a quello olandese aveva internazionalizzato anche i costi di produzione [Arrighi 1994: 43- 58; 174- 238].
E infine al tempo dell’ascesa e della piena espansione del regime di accumulazione statunitense, gli Stati Uniti erano già qualcosa di più di uno stato nazionale pienamente sviluppato. Si trattava di un complesso militare-industriale con potere sufficiente da fornire a un gran numero di governi subordinati e alleati una protezione efficace, e da minacciare concretamente di strangolamento economico o di annientamento militare i governi nemici in qualsiasi parte del mondo. Unito alle dimensioni, all’insularità, e al naturale benessere del proprio territorio nazionale, questo potere rendeva la classe capitalista statunitense in grado di internazionalizzare non solo protezione e costi di produzione—come aveva già fatto la classe capitalista britannica—ma anche i costi di transazione, cioè i mercati da cui l’auto-espansione del proprio capitale dipendeva [Arrighi 1994: 58- 74 e capitolo 4].
Questo progressivo incremento delle dimensioni, della portata e della complessità dei consecutivi regimi di accumulazione di capitale su scala mondiale è in parte offuscato da un altro aspetto della parabola storica di questi regimi. Tale aspetto è un movimento doppio, in avanti e all’indietro. Ogni passo avanti nel processo di internazionalizzazione dei costi da parte di un nuovo regime di accumulazione ha comportato un recupero delle strategie e delle strutture governative e commerciali che erano state rimpiazzate dal regime precedente.
Di conseguenza l’internazionalizzazione dei costi di protezione da parte del regime olandese in confronto al regime genovese si verificò attraverso un recupero delle strategie e delle strutture del capitalismo di monopolio dello stato veneziano, il quale era stato rimpiazzato dal regime genovese. Allo stesso modo l’internazionalizzazione dei costi di produzione da parte del regime britannico in confronto al regime olandese si verificò attraverso un recupero, in forme nuove e più complesse, delle strategie e delle strutture del capitalismo cosmopolita genovese e del territorialismo globale iberico. E lo stesso modello si ripresentò ancora una volta con l’ascesa e la piena espansione del regime statunitense, il quale internazionalizzò i costi di transazione rilanciando in forme nuove e più complesse le strategie e le strutture del capitalismo corporativo olandese [Arrighi 1994: 57- 8; 70- 2; 243 e ss.].
Come mostra la figura 1, questo recupero ricorrente delle strategie e delle strutture di accumulazione, che erano state precedentemente rimpiazzate, genera un movimento pendolare all’indietro e in avanti tra le strutture organizzative “cosmopolite-imperiali” e quelle “aziendali-nazionali”, in cui le prime sono tipiche dei regimi “estensivi”—come erano quello genovese- iberico e quello britannico—mentre le seconde sono tipiche dei regimi “intensivi”—com’erano quello olandese e quello statunitense. I regimi “cosmopoliti-imperiali” genovese-iberico e britannico erano estensivi nel senso in cui furono responsabili della gran parte dell’espansione geografica del sistema capitalistico. Sotto il regime genovese il mondo fu “scoperto”, e sotto quello britannico fu “conquistato”. I regimi “aziendali-nazionali” olandese e statunitense, al contrario, erano intensivi nel senso in cui essi furono responsabili del consolidamento geografico, piuttosto che dell’espansione, del sistema capitalistico. Sotto il regime olandese la “scoperta” del mondo, realizzata principalmente dai partner iberici dei genovesi, fu consolidata in un sistema di depositi commerciali e di società per azioni privilegiate il cui centro era Amsterdam. E sotto il regime statunitense la “conquista” del mondo, precedentemente realizzata dai Britannici, fu consolidata in un sistema di mercati nazionali e corporazioni transnazionali che aveva il suo centro negli Stati Uniti.

Figura 1
Figura 1

Questo alternanza di regimi estensivi e intensivi confonde la nostra percezione dell’implicita tendenza a lungo termine alla formazione di regimi di crescenti dimensioni e portata. Quando il pendolo oscilla in direzione dei regimi estensivi, tale tendenza si intensifica e, quando oscilla in direzione dei regimi intensivi, essa appare meno significativa di quanto è effettivamente stata. Nondimeno, una volta che verifichiamo queste oscillazioni confrontando i due regimi intensivi e i due regimi estensivi gli uni con gli altri—quello genovese- iberico con quello britannico, quello olandese con quello statunitense—la tendenza implicita diventa evidente.
Lo sviluppo del capitalismo storico come sistema mondiale si è dunque basato sulla formazione di blocchi di organizzazioni governative e commerciali sempre più potenti e complessi, i quali sono dotati della capacità di ampliare la portata funzionale e spaziale del capitalismo mondiale. E tuttavia, più questi blocchi sono divenuti potenti e complessi, più breve è diventato il ciclo di vita dei regimi di accumulazione che essi avevano creato—ciò significa che più breve è diventato il tempo necessario a tali regimi per riemergere dalla crisi del precedente regime dominante, per diventare essi stessi regimi dominanti, e per raggiungere i propri limiti, come è segnalato dall’inizio di una nuova espansione finanziaria. Sulla base della datazione dell’inizio delle espansioni finanziarie proposta da Braudel, questo lasso di tempo fu meno della metà sia nel caso del regime britannico in confronto a quello genovese, sia nel caso del regime statunitense in confronto a quello olandese [Arrighi 1994: 216- 217].
Questo modello di sviluppo capitalistico in base al quale un aumento del potere dei regimi di accumulazione è associato a una diminuzione della loro durata, richiama alla mente l’idea di Marx secondo cui “the real barrier of capitalist production is capital itself” e secondo cui la produzione capitalistica supera costantemente le proprie barriere immanenti “only by means which again place these barriers in its way on a more formidabile scale” [Marx 1962: 244-5, corsivo nell’originale]. Ma questa contraddizione tra l’auto-espansione del capitale e lo sviluppo delle forze materiali di produzione e di un mercato mondiale adeguato può in realtà essere riformulata in termini più generali di quelli usati da Marx. Infatti Marx la applicò esclusivamente al capitalismo inteso come “modo di produzione”—cioè riguardo all’internazionalizzazione dei costi di produzione nella fase di sviluppo della Gran Bretagna. E tuttavia il principio secondo cui la barriera reale dello sviluppo capitalistico è il capitale stesso era chiaramente già in azione nelle fasi di sviluppo genovese e olandese.
Sia nella fase genovese che in quella olandese, il punto di partenza e di arrivo dell’espansione del commercio e della produzione mondiali fu la ricerca del profitto come fine a se stesso da parte di un determinato organismo capitalista. In una prima fase le “grandi scoperte”, l’organizzazione del commercio sulla lunga distanza entro e attraverso i confini del vasto impero iberico (o dei vasti imperi iberici) e la creazione di un “mercato globale” embrionale a Anversa, Lione e Siviglia furono per il capitale genovese puri mezzi della propria auto-espansione. E quando, intorno al 1560, questi mezzi non furono più funzionali a tale scopo, il capitale genovese si tirò tempestivamente fuori dal mercato per specializzarsi nell’alta finanza. Allo stesso modo l’impresa del trasporto di merci tra giurisdizioni politiche separate e spesso distanti, la centralizzazione dei depositi commerciali ad Amsterdam e delle industrie a elevato valore aggiunto in Olanda, la creazione di una rete mondiale di avamposti e di scambi commerciali, e la “produzione” di qualunque protezione fosse richiesta da tutte queste attività, furono per il capitale olandese puri mezzi per la propria auto-espansione. E ancora, quando intorno al 1740 questi mezzi non servivano ormai più allo scopo, il capitale olandese li abbandonò in favore di una più profonda specializzazione nell’alta finanza.
Da questo punto di vista nel XIX secolo il capitale britannico ripeté semplicemente un modello il quale era stato stabilito molto prima che il capitalismo storico da modo di accumulazione fosse diventato anche un modo di produzione. L’unica differenza stava nel fatto che, oltre al trasporto, al deposito, ad altri tipi di commercio a lunga e a breve distanza e alle relative attività di protezione e di produzione, nel ciclo britannico le attività estrattive e manifatturiere—cioè quello che potremmo definire produzione nel senso stretto del termine – erano diventate mezzi essenziali dell’auto- espansione del capitale. Ma intorno al 1870, quando la produzione e le relative attività commerciali non servivano ormai più a questo proposito, il capitale britannico si mosse verso una specializzazione nella speculazione e nell’intermediazione finanziaria, altrettanto velocemente di quanto avevano fatto il capitale olandese 130 anni prima e quello genovese 310 anni prima, e di quanto avrebbe fatto il capitale statunitense 100 anni dopo.
L’essenza della contraddizione sta nel fatto che in ogni caso l’espansione del commercio e della produzione mondiale è un puro mezzo nel tentativo diretto principalmente a incrementare il valore del capitale; tuttavia, nel tempo, essa tende a far diminuire il tasso di profitto, riducendo in tal modo il valore del capitale. Grazie alla continuativa centralità nelle reti dell’alta finanza, i centri di organizzazione già affermati sono quelli meglio collocati per volgere a proprio vantaggio la crescente competizione per il capitale mobile, così da ristabilire i propri profitti e il proprio potere a spese del resto del sistema. Da questo punto di vista il ristabilimento dei profitti e del potere statunitensi negli anni Novanta segue un modello che è stato tipico del capitalismo mondiale fin dalle sue origini. La questione che rimane aperta è se questo ristabilimento sarà seguito, così come è successo in passato, da una sostituzione del regime tuttora dominante (Stati Uniti) con un altro.

La Biforcazione del Potere Finanziario e Militare

Se il futuro del capitalismo mondiale fosse pienamente inscritto nei modelli discussi sopra, il compito di prevedere ciò che bisogna aspettarsi sarebbe semplice. Prima di tutto entro mezzo secolo circa dopo la crisi segnale dell’inizio degli anni Settanta, il regime statunitense dovrebbe sperimentare la sua crisi terminale. In secondo luogo, col tempo (diciamo in altri venti o trent’anni) la crisi sarebbe rimpiazzata dalla formazione di un nuovo regime capace di sostenere una nuova espansione materiale dell’economia mondiale. In terzo luogo, la principale organizzazione governativa di questo nuovo regime si avvicinerebbero ai caratteri di uno “stato-mondo” in misura maggiore di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti. In quarto luogo, diversamente da quello statunitense, il nuovo regime sarebbe di tipo estensivo (“cosmopolita-imperiale”) piuttosto che intensivo (“aziendale-nazionale”). E da ultimo, e più importante, il nuovo regime interiorizzerebbe i costi di riproduzione sia della vita umana che della natura, costi che il regime statunitense ha avuto la tendenza a esternalizzare.
Non possiamo escludere che alcune di queste aspettative saranno effettivamente soddisfatte. Difatti in Adam Smith in Beijing ho sostenuto cha la prima previsione si è già realizzata e che la seconda potrebbe essere in procinto di realizzarsi. Il fallimento del neoconservativo Project for a new American Century è risultato in tutti gli aspetti pratici nella crisi terminale dell’egemonia statunitense—cioè, nella sua trasformazione in puro dominio. Allo stesso tempo, la principale, involontaria, conseguenza dell’avventura irachena è stata il consolidamento della tendenza verso la ricentralizzazione dell’economia globale in Asia orientale, e, all’interno dell’Asia orientale, in Cina. Anche se questo slittamento geografico deve ancora creare le condizioni per una nuova espansione materiale dell’economia mondiale, non si può escludere che prima o poi lo farà – una questione su cui ritorneremo più avanti [Arrighi 2007: cap. 7].
Le transizioni da un regime all’altro non sono comunque pienamente inscritte in modelli prestabiliti. I modelli di ricorrenza ed evoluzione generalmente accettati mostrano che la successione dei percorsi di sviluppo, la quale nel corso dei secoli ha portato l’espansione del capitalismo mondiale al suo stato attuale, fino a giungere a dimensioni globali, non è stata un processo casuale. Ma la nascita di un nuovo percorso di sviluppo nel corso di ogni transizione è dipeso, ed è stato profondamente plasmato, da una varietà di fattori storici e geografici che furono essi stessi trasformati e ricombinati dalla competizione e dalle lotte che sono alla base delle espansioni finanziarie.
I modelli che osserviamo ex post sono, in altre parole, il risultato delle contingenze geografiche e storiche, in quanto essi sono storicamente necessari. Nella speculazione ex ante in merito ai futuri risvolti della transizione attuale, dobbiamo dunque dare la stessa attenzione ai fenomeni che si adattano ai precedenti modelli di ricorrenza ed evoluzione e ai fenomeni che non lo fanno – cioè alle anomalie significative dalle quali ci si può attendere che facciano discostare gli approdi futuri dai modelli passati. Come è stato notato precedentemente, un’anomalia critica della congiuntura attuale è la biforcazione senza precedenti tra potere finanziario e militare.
Come ho sostenuto ne Il Lungo Ventesimo Secolo, sebbene il collasso dell’Unione Sovietica abbia lasciato gli Stati Uniti l’unica superpotenza militare, il declino del potere sovietico fu accompagnato dalla crescita di quello che Bruce Cumings [1993: 25-6] ha definito l’“arcipelago capitalista” dell’Asia orientale. Il Giappone era senza dubbio la più grande tra le “isole” di tale arcipelago. Tra le altre isole le più importanti erano le città-stato di Singapore e Hong Kong, lo stato-guarnigione di Taiwan, e lo stato nazionale a metà della Corea del Sud. Nessuno di questi stati era potente secondo gli standard convenzionali. Mentre Hong Kong e Taiwan non erano nemmeno stati nazionali, i due stati maggiori – Giappone e Corea del Sud – erano totalmente dipendenti dagli Stati Uniti, non solo per la protezione militare, ma anche per la maggior parte della propria energia e dei propri rifornimenti alimentari, così come per l’utilizzo proficuo delle proprie manifatture. Contrariamente a ciò che alcuni critici de Il Lungo Ventesimo Secolo hanno sostenuto, non ho mai ipotizzato che alcuno di questi stati (Giappone incluso) fosse sul punto di rimpiazzare gli Stati Uniti come potenza egemone. Nondimeno il potere economico collettivo dell’arcipelago come nuova “officina” e “portavalori” del mondo stava costringendo i centri del potere capitalistico – l’Europa occidentale e il Nord America – a ristrutturare e riorganizzare le proprie industrie, le proprie economie e i propri modi di vivere [Arrighi 1994: 22].
Quando ho scritto Il Lungo Ventesimo Secolo non ero pienamente consapevole della portata e delle implicazioni della rinascita della Cina al centro dell’economia politica dell’Asia orientale. Ho effettivamente realizzato che tale rinascita ha ridotto, senza eliminarla, la biforcazione tra il potere militare (Stati Uniti) e il potere finanziario (Asia orientale). [In effetti questa è stata la principale ragione per cui, negli anni Novanta, ho spostato il fulcro della mia ricerca dall’“arcipelago capitalista” dell’Asia orientale alla Cina – vedi Arrighi et al. 2003, Arrighi 2007]. E comunque ho sostenuto allora, e lo penso ancora oggi, che il tipo di biforcazione tra il potere militare (Stati Uniti) e il potere economico (Asia orientale) che possiamo osservare a partire dagli anni Ottanta non ha precedenti negli annali della storia del capitalismo. Essa ha privato l’Occidente di uno dei due fondamentali fattori della sua fortuna nel corso degli ultimi 500 anni: il controllo sul capitale in surplus. Ugualmente importante, se la Cina/Asia orientale dovessero in futuro diventare egemoni, si tratterebbe di un tipo di egemonia molto diversa dal tipo occidentale degli ultimi 500 anni.
Infatti ognuno dei consecutivi cicli sistemici di accumulazione ha avuto come presupposto la formazione di blocchi di organizzazioni governative e commerciali ancora più potenti e dotati di maggiori capacità, rispetto al blocco precedente, di incrementare la portata spaziale e funzionale del capitalismo mondiale. Questo processo di evoluzione, come ho sostenuto, stava per raggiungere i suoi limiti perché “the state-and-war making capabilities of the traditional power centers of the capitalist West have gone so far that they can increase further only through the formation of a truly global world-empire” . E tuttavia la “realization [of such an empire] require control over the most prolific sources of world surplus capital-sources which are now located in East Asia”. Non mi era dunque chiaro (e non mi è ancora chiaro tuttora) “by what means the traditional power centers of the West [might] acquire and retain this control” [Arrighi 1994: 353-5].
Avevo dunque concluso tratteggiando non uno ma tre scenari abbastanza differenti, come possibili approdi della crisi del regime statunitense di accumulazione in corso. Gli Stati Uniti e i suoi alleati europei potrebbero tentare di usare la loro superiorità militare per ottenere un “pagamento di protezione” dai centri capitalisti emergenti dell’Asia orientale. Se tale tentativo avesse successo, potrebbe venire alla luce il primo impero effettivamente globale nella storia mondiale. Se un tale tentativo non fosse fatto, o se fosse fatto ma non avesse successo, nel tempo l’Asia orientale potrebbe diventare il centro di una società di mercato mondiale che sarebbe sostenuto non da un potere militare superiore, come è avvenuto in passato, ma piuttosto da un comune rispetto delle culture e delle civiltà del mondo. Nondimeno era anche possibile che la biforcazione sfociasse in un caos senza fine su scala mondiale. Come ho sostenuto parafrasando Joseph Schumpeter, prima che l’umanità soffochi nella prigione (o paradiso) di un impero globale che abbia il proprio centro in Occidente, o in un società di mercato mondiale che abbia il proprio centro in Asia orientale, “it might well burn up in the horrors [or glories] of the escalating violence that has accompanied the liquidation of the Cold War world order” [Arrighi 1994: 354-6, parafrasando Schumpeter 1954:163].

La Crisi dell’Egemonia Statunitense e l’Ascesa della Cina

Questi tre scenari tratteggiati alla fine de Il Lungo Ventesimo Secolo restano tutti possibili approdi storici alternativi alla crisi terminale dell’egemonia statunitense. La biforcazione tra potere militare e finanziario su scala globale, così come l’ascesa economica dell’Asia orientale, proseguono entrambi rapidamente. In un libro pubblicato nel 1999 e intitolato Chaos and Governance in the Modern World, di cui siamo co-autori, io e Beverly Silver abbiamo sostenuto che l’incapacità dell’economia giapponese di riprendersi dal crollo del 1990-92 e la crisi finanziaria dell’Asia orientale del 1997-8 di per sé non supportassero la conclusione che l’ascesa dell’Asia orientale era stato un miraggio. Abbiamo sottolineato che nelle precedenti transizioni di egemonia sono sempre stati i centri di accumulazione di capitale su scala mondiale che stavano emergendo da poco a sperimentare le crisi finanziare più profonde, poiché la loro abilità finanziaria superava la loro capacità istituzionale di regolare gli imponenti flussi di capitale mobile che entravano e uscivano dalle loro giurisdizioni. Questo è vero per Londra e per l’Inghilterra della fine del XVIII secolo e ancora di più per New York e per gli Stati Uniti degli anni Trenta. Nessuno userebbe il crollo di Wall Street del 1929-31 e la conseguente Grande Depressione statunitense come argomento per sostenere che l’epicentro dei processi globali di accumulazione di capitale non si fosse spostato dal Regno Unito agli Stati Uniti durante la prima metà del XX secolo. Una conclusione analoga non si deve trarre nemmeno per quanto riguarda le crisi finanziarie dell’Asia orientale negli anni Novanta [Arrighi e Silver 1999: specialmente capitolo 1 e Conclusione].
Ciò certo non implica che i centri finanziari in carica non possano sperimentare crisi finanziarie. Da questo punto di vista non sono possibili generalizzazioni. Nel corso della transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense, il Regno Unito non ha sperimentato una crisi finanziaria paragonabile a quella degli Stati Uniti. Al contrario nel corso dell’attuale transizione, nel 2000-01 e di nuovo nel 2008-09, gli Stati Uniti hanno sperimentato crisi altrettanto serie di quelle dell’Asia orientale negli anni Novanta.
Attraverso le crisi degli anni Novanta e dell’inizio del XXI secolo l’espansione economica della Cina è continuata secondo ritmi che non hanno eguali né precedenti per un territorio di simile livello demografico. Illustrando la forza dell’ascesa cinese abbiamo sottolineato le sue profonde radici, non solo nella ricostituzione sociale e politica della Cina nel periodo della Guerra Fredda sotto il comunismo, ma anche nei successi della Cina imperiale nella creazione di un’economia statale e nazionale precedenti la sua incorporazione, da subordinata, nel sistema interstatale eurocentrico. Più specificamente abbiamo sostenuto che la crescente centralità della Cina e della diaspora cinese oltreoceano, promuovendo l’integrazione e l’espansione economica della regione ha costruito una pratica est- asiatica di vecchia data che risale all’epoca imperiale – cioè una forte fiducia verso il commercio e i mercati nella regolazione delle relazioni tra i sovrani da una parte e tra i sovrani e i sudditi dall’altra. Intorno alla metà del XVIII secolo (con la Guerra dell’oppio), divenne chiaro che questa pratica di vecchia data era inadeguata a prevenire la subordinazione forzata del sistema regionale, che aveva il suo centro in Cina, all’interno del sistema eurocentrico. Verso la fine del XX secolo, comunque, questa fiducia storica verso il commercio e i mercati divenne il fondamento di una rinnovata competitività all’interno di un mercato globale profondamente integrato che emerse sotto l’egemonia statunitense [Arrighi e Silver 1999: specialmente cap. 4; Arrighi 2007: capp. 1 e 12].
La crescente centralità della Cina nell’economia globale ha due significative implicazioni per il potenziale esito della crisi dell’egemonia statunitense in corso. In primo luogo, nella misura in cui questa crescente centralità è radicata nell’eredità storica di una regione, ci si può attendere che essa rimanga molto più salda ed esclusiva rispetto al caso in cui essa fosse il risultato di politiche e di un atteggiamento che potrebbe essere replicato in altre regioni dell’economia mondiale. In secondo luogo, considerato il livello demografico della Cina, la sua espansione economica ha sovvertito la gerarchia globale del benessere molto di più di quanto abbiano fatto tutti i precedenti “miracoli” economici est-asiatici messi insieme. Infatti tutti questi miracoli (incluso quello giapponese) sono stati esempi della mobilità verso l’alto all’interno di una gerarchia fondamentalmente stabile. La gerarchia era in grado di strutturare, come in effetti fece, la mobilità verso l’alto di un gruppo di stati est-asiatici (due dei quali erano città-stato), coinvolgendo circa un ventesimo della popolazione mondiale. Ma strutturare la mobilità verso l’alto di uno stato che da solo comprende circa un quinto della popolazione globale è una questione completamente differente. Implica un totale rovesciamento della struttura fortemente piramidale del sistema gerarchico. E in effetti, nella misura in cui le recenti ricerche sull’ineguaglianza del reddito mondiale hanno individuato una tendenza statistica verso il declino dell’ineguaglianza interstatale a partire dal 1980, ciò è dovuto interamente alla rapida crescita economica della Cina [vedi, tra gli altri, Berry 2005].
Avendo notato la natura strutturalmente sovversiva dell’espansione economica continuativa della Cina, in Chaos and Governance abbiamo evidenziato due principali ostacoli alla transizione non catastrofica verso un ordine mondiale più equo. Il primo ostacolo era rappresentato dalla resistenza statunitense alla regolazione e all’adattamento. Parafrasando David Calleo [1987: 142], abbiamo sottolineato che il sistema mondiale che aveva il suo centro in Olanda e quello che aveva il suo centro in Gran Bretagna crollarono sotto l’impatto di due tendenze: l’emergere di nuovi poteri aggressivi e il tentativo da parte del potere egemone in declino di evitare la regolazione e l’adattamento, rinsaldando la preminenza che stava perdendo attraverso un dominio basato sullo sfruttamento. Scrivendo nel 1999, sostenevamo

There are no credible aggressive new powers that can provoke the break down of the US-centered world system, but the United States has even greater capabilities than Britain did a century ago to convert its declining hegemony into an exploitative domination. If the system eventually breaks down, it will be primarily because of US resistance to adjustment and accommodation. And conversely, US adjustment and accommodation to the rising economic power of the East Asian region is an essential condition for a non-catastrophic transition to a new world order [Arrighi e Silver 1999: 288-9].

Come evidenziato più avanti, l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti e il relativo cambio di direzione della politica estera statunitense può ridurre la gravità di questo primo ostacolo a una transizione non-catastrofica. Meno immediato ma ugualmente importante, è comunque il secondo ostacolo: la capacità, ancora non verificata, degli organismi dell’espansione economica dell’Asia orientale di “open up a new path of development for themselves and for the world that departs radically from the one that is now at a dead-end.” In altre parole si tratta della capacità di sviluppare un nuovo modello che segni una rottura con il percorso socialmente ed economicamente insostenibile dello sviluppo occidentale, in cui i costi per la riproduzione degli esseri umani e della natura sono stati ampiamente “esternalizzati” (vedi figura 1), principalmente escludendo la maggior parte della popolazione mondiale dai benefici dello sviluppo economico. Questo è un compito impegnativo la cui traiettoria sarà in gran parte definita dalla pressione dei movimenti di protesta e di auto-protezione provenienti dal basso.

In past hegemonic transitions, dominant groups successfully took on the task of fashioning a new world order only after coming under intense pressure from movements of protest and self-protection from below. This pressure from below has widened and deepened from transition to transition, leading to enlarged social blocs with each new hegemony. Thus, we can expect social contradictions to play a far more decisive role than ever before in shaping both the unfolding transition and whatever new world order eventually emerges out of the impeding systemic chaos [Arrighi e Silver 1999: 289].

Un anno dopo che queste parole erano state scritte la bolla della “new economy” che aveva il proprio centro negli Stati Uniti è scoppiata. Poco più tardi ci fu lo shock dell’11 Settembre 2001. Per un breve momento sembrò che gli Stati Uniti potessero salvaguardare il proprio ruolo egemonico mobilitando una vasta gamma di forze governative e non-governative nella Guerra al terrorismo. Gli Stati Uniti si trovarono tuttavia molto presto completamente isolati nell’intraprendere una guerra contro l’Iraq, la cui percezione generale era che essa avesse poco a che fare con la Guerra al terrorismo e che andasse contro le regole e le norme generalmente accettate nelle relazioni interstatali. Come Il Lungo Ventesimo Secolo e Chaos and Governance avevano entrambi previsto, la belle epoque statunitense è giunta al termine e l’egemonia mondiale degli Stati Uniti è entrata con ogni probabilità nella sua crisi terminale. Nonostante gli Stati Uniti rimangano di gran lunga lo stato più potente al mondo, il loro rapporto con il resto del mondo può essere oggi meglio descritto come un rapporto di “dominio privo di egemonia” [Arrighi 2007: 150-1; cf. Guha 1992].
Questa trasformazione è stato provocata non dall’emergere di nuovi poteri aggressivi ma dalla resistenza statunitense alla regolazione e all’adattamento. Il tentativo degli Stati Uniti di dipingere l’Iraq di Saddam Hussein come una nuova potenza aggressiva non ha mai avuto molto credibilità, mentre la strategia di sicurezza nazionale adottata dall’amministrazione Bush in risposta all’11 Settembre fu una forma di resistenza degli Stati Uniti alla regolazione e all’adattamento molto più estrema di qualunque cosa fosse stata prevista ne Il Lungo Ventesimo Secolo e Chaos and Governance. In misura certamente molto maggiore che in tutte le precedenti transizioni egemoniche, la crisi terminale dell’egemonia statunitense – se, come penso, questo è quello a cui stiamo assistendo- è stata un caso di “suicidio” di un grande potenza [Arrighi 2007: 161-5, 178- 210].
Anche prima del crollo finanziario del 2008, avevo perciò interpretato lo scoppio della bolla della “new economy” del 2000-01, insieme al fallimento della risposta neo-conservatrice all’11 Settembre, come il segnale della “crisi terminale” dell’egemonia statunitense. Il crollo del 2008 ha semplicemente confermato la validità di questa interpretazione. Non è chiaro cosa potrà fare l’amministrazione Obama per rallentare la crisi, o addirittura per invertirla. Sebbene Obama sia probabilmente un presidente altrettanto capace di Franklin Roosevelt, c’è una profonda differenza tra le situazioni affrontate dalle loro rispettive amministrazioni. Mentre sotto Roosevelt gli Stati Uniti erano diventati la principale nazione creditrice, Obama ha ereditato una situazione in cui gli Stati Uniti sono diventati la principale nazione debitrice. Questa differenza impone alla capacità dell’amministrazione Obama dei limiti nel perseguimento le politiche keynesiane a livello interno o le politiche egemoniche all’estero, che sono molto più rigidi di quanto sperimentato dall’amministrazione Roosevelt.
Nonostante questi sviluppi, i tre scenari post- egemonia statunitense delineati alla fine de Il Lungo Ventesimo Secolo rimangono tutti storicamente possibili. Sebbene il Project for a New American Century adottato dall’amministrazione Bush sia completamente fallito, esso non era il progetto di impero mondiale prefigurato ne Il Lungo Ventesimo Secolo. L’impero mondiale ipotizzato ne Il Lungo Ventesimo Secolo come possibile scenario post- egemonia statunitense era un progetto collettivo occidentale. L’idea che gli Stati Uniti si sarebbero imbarcati in un progetto di impero mondiale praticamente da soli è stata ritenuta troppo assurda perché valesse la pena di considerarla. Il fallimento di questa linea di azione non esclude la possibilità che una ricomposta alleanza occidentale si impegni in un più realistico progetto imperiale multilaterale. Senza dubbio il grande fallimento del progetto unilaterale statunitense può creare condizioni più favorevoli all’emergere in un progetto occidentale collettivo.
Mentre un impero universale dominato dall’Occidente rimane una possibilità, una società di mercato mondiale che abbia il proprio centro in Asia orientale appare come un approdo delle presenti trasformazioni dell’economia politica globale che è oggi molto più probabile di quanto fosse 15 anni fa. Come ho sostenuto in Adam Smith in Bejing: Lineages of the Twenty-first Century, la Cina è emersa come un’alternativa sempre più credibile alla leadership degli Stati Uniti nella regione dell’Asia orientale e anche altrove. Con gli Stati Uniti impantanati in Iraq, la Cina ha continuato a crescere a ritmo spedito, acquisendo in tutto il mondo risorse e alleati finanziari alla stessa velocità con cui gli Stati Uniti li stavano perdendo. Sebbene i settori chiave dell’economia cinese dipendano ancora fortemente dall’esportazione verso il mercato statunitense, la dipendenza del benessere e del potere degli Stati Uniti dall’importazione di merci cinesi a basso costo e dagli acquisti cinesi di bond del Tesoro statunitensi è sempre più forte. Ciò che è più importante è che la Cina ha iniziato a sostituire gli Stati Uniti come la principale forza alla guida dell’espansione commerciale ed economica in Asia orientale e altrove [Arrighi 2007: specialmente capp. 7, 10, 12].
Il crescente peso economico della Cina nell’economia politica globale non garantisce di per sé l’affermazione di una società di mercato mondiale che abbia il proprio centro in Asia orientale e che sia basata su un reciproco rispetto delle culture e delle civiltà del mondo. Come si è detto sopra, un risultato del genere presuppone un modello di sviluppo radicalmente differente, il quale, tra le altre cose, sia socialmente e ecologicamente sostenibile e rappresenti per il Sud del mondo un’alternativa più equa alla continuativa dominazione occidentale. Tutte le precedenti transizioni egemoniche sono state caratterizzata da lunghi periodi di caos sistemico, e questo rimane un possibile approdo alternativo. Quale degli alternativi scenari del futuro esposti ne Il Lungo Ventesimo Secolo si realizzerà rimane una questione aperta la cui risposta sarà determinata dal nostro agire collettivo.

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Note

* Questa Postfazione fu scritta da Giovanni Arrighi nel marzo 2009 per la seconda edizione di The Long Twentieth Century: Money, Power and the Origins of Our Times, ora pubblicata dall’editore Verso, New York, che ringraziamo per averci concesso la pubblicazione della traduzione italiana.

[1] Desidero ringraziare Beverley J. Silver per i suoi approfonditi suggerimenti e commenti sulle varie versioni di questa postfazione così come gli studenti dei nostri graduate seminars del 2008/09 alla Johns Hopkins, durante i quali le bozze di questa postfazione sono state discusse.