Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Quando la legge non c'era. Storie di donne e aborti clandestini prima della legge 194

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Introduzione

Alla fine degli anni Sessanta, il tema dell’aborto in Italia faceva ancora parte di quella serie di argomenti che comunemente sono ritenuti innominabili e le prime testimonianze pubbliche di donne che vi avevano fatto ricorso, apparse su libri e giornali verso la metà del decennio, fecero l’effetto di un vero e proprio choc culturale[1]. Partendo dalle parole delle donne, che improvvisamente rendono visibile il dramma della segregazione e della clandestinità, il presente lavoro tenta di dar conto di quello che si può considerare l’inizio della costruzione dello spazio pubblico e del mutamento della cornice giuridica entro cui si è inscritto e si sviluppa il dibattito sull’aborto nel decennio successivo. In questo ambito le fonti orali si fanno per noi strumento privilegiato di conoscenza, individuando lo snodo discorsivo che porta alla ridefinizione generale del problema, in un momento in cui sta per compiersi quella rivoluzione culturale e dei costumi che, partita dagli Stati Uniti, si estende – pur con modificazioni e modalità di “appropriazione” diverse da luogo a luogo – in tutti i paesi europei, e che porterà in particolar modo le donne ad occupare nuovi spazi e nuovi ruoli sociali. Tuttavia, nella prima parte degli anni Sessanta, l’Italia si trova ancora un passo indietro rispetto a tutto questo, in una realtà che per le donne rimane densa di stereotipi e pregiudizi, legata a ruoli codificati e sedimentati in secoli di storia. Come cogliere allora il bandolo di una matassa sotterranea e invisibile – così è l’aborto clandestino – e riportarla alla luce, facendone l’inizio della costruzione di un nuovo spazio di azione/narrazione capace di contribuire ad un vero cambiamento culturale? Attraverso l’analisi di alcune tra le molte testimonianze sull’aborto raccolte nel corso degli anni Sessanta, cercherò di mettere in luce come il racconto di quell’esperienza, profondamente individuale, in realtà non sia mai stata in nessun momento una voce isolata. Non appena detto, il racconto si popola immediatamente di altre voci e si fa storiacorale, in cui molte donne si riconoscono e ritrovano i tratti della propria biografia e in cui le relazioni familiari, amicali, le reti di vicinato e di solidarietà all’interno dei luoghi di lavoro si trovano in qualche modo sollecitate e coinvolte.

L’importanza delle prime parole

Scrive Luisa Passerini che quando si decide di utilizzare per il proprio lavoro di ricerca una fonte orale, vuol dire che si è deciso di affrontare lo studio degli esseri umani non solo rispetto al potere politico, alle strutture economiche, all’organizzazione sociale e agli schemi attraverso cui si è abituati a rilevare la realtà, ma anche attraverso i comportamenti interpersonali, i meccanismi psicologici e conoscitivi, gli interessi, le idee, le immagini che stanno nelle teste di ogni singolo individuo[2]. In altre parole, i sentimenti e le esperienze dei protagonisti. È nel passaggio dalla storia istituzionale, fatta di situazioni strutturate, alla rilevazione e allo studio delle singole biografie e delle reti di relazioni tra le persone che l’analisi del racconto dell’aborto assume rilevanza capitale: le voci di quelle donne – raccolte non come memoria di un evento passato ma nel momento stesso in cui la clandestinità era vita quotidiana e per molte un cambiamento non era nemmeno immaginabile – diventano la fonte privilegiata per conoscere la reale consistenza di un fenomeno che altrimenti non si potrebbe adeguatamente conoscere. Nell’Italia degli anni Sessanta, la legge che costringe le donne ad abortire clandestinamente fa da paravento ad una realtà che non ha né censo né classe, di cui tutti sanno, ma che non viene riconosciuta come problema. E invece il problema c’è: l’aborto è un’industria dalle solide fondamenta costruite sul corpo di milioni di donne. In questo contesto, la testimonianza di chi ha vissuto quel dramma si pone con effetto decisamente dirompente: la voce delle donne mette improvvisamente in luce una quotidianità dell’aborto fatta di silenzi che nascondono indicibili umiliazioni, fatta di pratiche mediche rischiose che mettono in pericolo la vita, fatta di improponibili geografie della clandestinità: donne costrette a lunghi viaggi e spostamenti in luoghi improvvisati e malsani rispondenti a sistemi di interessi che, sulla necessità e sulla disperazione delle donne e delle persone intorno a loro, hanno costruito solide fortune. Una situazione che costringe il sistema di valori di ognuna a rimodularsi rispetto alla necessità di trovare una qualunque via d’uscita. L’attaccamento ai precetti della Chiesa e le convinzioni morali fino ad un momento prima credute indiscutibili, le credenze, le diffidenze, i costumi sessuali appresi, l’adesione alla morale dominante, le paure: di fronte ad una gravidanza non voluta tutta questa rete emozionale subisce necessariamente una scossa molto violenta.

Costruire uno spazio narrativo

Per costruire lo spazio necessario alla condivisione di un dolore/di un problema/di un fatto – qualunque esso sia – il punto fondamentale sta nel mettere insieme e tenere in equilibrio le diverse narrazioni che lo descrivono, vale a dire: la cornice normativa (nel caso dell’aborto in Italia una legge penale di epoca fascista che lo vieta e per la quale quindi il fenomeno “non deve esistere”), le posizioni filosofiche/morali che vedono schierati da una parte gli abortisti (per i quali la possibilità di accesso a tali pratiche è centrale per l’autodeterminazione delle donne) e dall’altra gli anti-abortisti (per i quali aborto significa necessariamente omicidio), ognuna di queste parti supportata da partiti, gruppi religiosi e attivisti, in un confronto che si concretizza in una complessa polarizzazione, per cui non vi è un solo racconto, ma uno spazio – via via sempre più ampio – di confronto/scontro/condivisione dei discorsi, fino a comprendere un arco il più ampio possibile di saperi che, messi in competizione tra loro, ridefiniscono e allargano i termini del discorso[3]. Lo scopo di tutti questi attori è usare le parole come armi politiche, sia per dare forma comunicativa al modo in cui l’argomento viene recepito, che per screditare la parte avversa dando vita ad un allargamento del consenso verso le proprie posizioni. Appare chiaro che, pur parlando tutti dello stesso argomento, in realtà ogni gruppoproduce discorsi differenti, che mobilitano set di forze profondamente diverse. Tuttavia, questa schematizzazione del dibattito come terreno dialettico di scontro di blocchi di forze contrapposte non sembra sufficiente a produrre un sostanziale allargamento dello spazio discorsivo su un tema come l’aborto in un sistema che, nell’Italia degli anni Sessanta, appare bloccato da forti pressioni moraliste che vedono parimenti implicati sia i cattolici che i non cattolici. L’accelerazione decisiva avviene solo quando intervengono elementicatalizzatori[4], capaci di aprire il dibattito a nuovi filoni interpretativi. Nel caso dell’aborto, uno di questi elementi è proprio la testimonianza delle donne, di coloro cioè che, momento in cui raccontano, vivono sul loro corpo quel dramma, ponendo sotto gli occhi di tutti la discrasia esistente tra la teoria e la realtà dei fatti, tra i principi enunciati in una legge e la loro vita quotidiana. Ecco che, quindi, la storia orale, che porta alla luce e rende improvvisamente pubblico il sapere intimo e privato di metà della società, assolve esattamente al suo compito: lo choc culturale provocato da quelle primeparole rappresenta l’inizio della creazione di quello spazio di relazione costruttiva che, attraverso un dibattito lungo quasi dieci anni, porterà alla completa ridefinizione dei termini della questione aborto in Italia.

Essere donne negli anni Sessanta: la (non) conoscenza del corpo

Sulle questioni che hanno attinenza con il corpo, la sessualità e la vita di coppia gravano ancora pesanti contraddizioni nell’Italia degli anni Sessanta e persistenti stereotipi popolano il senso comune e l’immaginario delle persone, riconducibili tutti ad una morale di matrice tradizionalista e cattolica, ma che si esprimono anche nelle posizioni di chi cattolico non è[5]. Per comprendere questo momento particolare della nostra storia vengono in aiuto le molte inchieste sul costume e le abitudini degli italiani proposte in quel periodo sia dalla carta stampata che dalla televisione, anche se il solo regista che prende seriamente ed esplicitamente in considerazione l’argomento sessualità è Pierpaolo Pasolini in un suo famoso lavoro del 1965, dal titolo Comizi d’amore. Ciò che mostrano queste interviste è che le donne non solo devono fronteggiare i preconcetti legati alla loro “nuova” presenza nella sfera pubblica, ma devono soprattutto confrontarsi alla base con divieti e tabù sessuali considerati innominabili e per questo non discutibili. Da pagare resta lo scotto di quell’atavica sottomissione agli uomini cui le relega il sistema patriarcale. Dietro le parole, i pensieri, i libri, le canzoni, le immagini che, al principio degli anni Sessanta, raccontano i cambiamenti del costume, uno spazio vero autonomo per le donne ancora non si intravvede e agli uomini resta attribuito il ruolo di “controllori”: loro è la “sacra missione della vigilanza”, che li qualifica come moralisti, censori, difensori, unici custodi dei valori della famiglia tradizionale[6]. Tuttavia, il cambiamento è in atto e quella che sta emergendo è una generazionenuova di donne e di uomini: negli anni Sessanta ha vent’anni, la rivoluzione culturale dei costumi la trova pronta, e trova particolarmente pronte le donne[7] –per prime quelle con più possibilità di studio, quelle che vivono con più mezzi in città e che vengono a contatto con i media, che leggono i giornali e le prime pubblicazioni femministe[8], che vanno al cinema e che in questo modo, si trovano ad essere improvvisamente lontane dall’esperienza delle loro madri. Madri che nel dopoguerra avevano conquistato il diritto di voto, diventando in questo modo interlocutrici obbligate del mondo maschile della politica, ma senza che questo nuovo protagonismo fosse arrivato a cambiare la sostanza dei rapporti interni alle famiglie, dei pregiudizi e degli stereotipi che le tenevano comunque legate ad uno spazio altro, ad un mondo con altre regole rispetto a quelle che governavano la vita degli uomini nello spazio pubblico. Il vento che altrove sta producendo una storia che finalmente è di uomini edi donne[9], in Italia ancora si sente poco e quando la rivoluzione culturale finalmente investirà il Paese, non sarà difficile per le donne rendersi conto che quella sessualità che altrove si definisce “liberata”, in Italia è pur sempre – ancora – una sessualità maschile. Partendo da una semplice domanda su “come” vivono l’intimità con i loro compagni, le donne scoprono l’esistenza di un abisso di frustrazioni, un asservimento corporale che le imprigiona da tempo immemorabile e che continua, nonostante i cambiamenti culturali in atto, a caratterizzare ogni rapporto di coppia[10].

Sarà la presa della parola delle donne su un corpo fino ad allora così tenacemente nascosto e taciuto, a consentire di scoprire “ciò che era sempre stato lì e non era mai stato detto”. Tuttavia, la contrapposizione aperta non solo con l’altro sesso, ma anche e soprattutto con le madri e con i modelli – emancipati o tradizionali – di femminilità, non avviene subito: l’insofferenza cresce lentamente e si manifesta solo nel decennio successivo. Quando esplode tuttavia, lo fa con particolare violenza. Quelle madri, prive di visibilità sociale e politica, anche se lavorano, sono dedite all’accudimento dei figli come principale realizzazione di sé; il lavoro domestico, faticoso e frustrante, viene da loro rivendicato e difeso a volte di fronte alle figlie. Come scrive Anna Scattigno, esse appaiono “timide nei confronti del mondo esterno, custodi di un’immagine di femminilità come natura avulsa dalla storia, autoritarie, socialmente deboli e complici della propria esclusione, ostili in ogni caso al cambiamento”[11]. E’ così che alla fine degli anni Sessanta il corpo e la sessualità sia delle madri che delle figlie restano territori in gran parte sconosciuti. Eppure è chiaro che lì risiede un potenziale di irrinunciabile libertà.

La legge che perdona

Nell’affrontare un tema come l’interruzione di gravidanza in condizioni di clandestinità bisogna tenere presente che, per secoli, essa aveva fatto parte della vita quotidianadi molte donne e i motivi a monte del ricorso a una pratica così cruenta per controllare la fertilità non sono da ricercare soltanto nella grave carenza di informazione sulla contraccezione, circondata da tabù innominabili che culminavano nel divieto di nominarla, ma sono riferibili piuttosto a tutta una serie di cause, – diciamo strutturali – che riguardano l’impostazione tradizionale della società italiana. Negli anni Sessanta modelli radicati nella impongono ancora la maternità come principale – per non dire unica – realizzazione di sé per le donne, cui si abbina una diffusa ignoranza e una drammatica limitatezza non solo dei più elementari servizi sociali, ma anche dei servizi sanitari e di assistenza al parto. Questo il terreno su cui poggia il milione e mezzo di aborti clandestini stimato dall’Unesco all’inizio degli anni Settanta in Italia e i Settanta milioni di lire di giro d’affari annuo per chi li pratica[12]. Il ricorso al medico compiacente, all’infermiera del paese o alla mammana di turno si trasformano ogni volta in un rischio, non tanto di infrangere la legge, quanto di morire per quell’aborto. E molte donne, per lo più sposate e già con due o tre figli, la sorte la sfidano continuamente: nel corso di una vita fertile non è raro per alcune ricorrere a pratiche clandestine più volte in un anno. Altre ancora, in mancanza di mezzi e di possibilità, finiscono per imparare a mettere in atto da sole o con l’aiuto dei familiari più stretti quelle tecniche che hanno visto usare da altre donne per interrompere la gravidanza. Una sofferta trasmissione di saperi che all’urgenza mescola l’incoscienza e soprattutto l’assoluta mancanza di alternative, non solo materiali ma anche in termini di possibilità di “pensarsi” diversamente.

Fino a due anni fa la parola aborto non veniva mai pronunciata né alla radio né alla televisione né i giornali si sognavano di metterla in prima pagina (…) Inevitabilmente e dolorosamente le donne hanno sempre abortito e continuano ad abortire, pagando gli astratti lussi etici della società e il prezzo concreto delle loro sofferenze e dei loro disagi[13].

Così scrive Lietta Tornabuoni sulle pagine del «Corriere della Sera» nel 1975. Quel “prezzo concreto delle sofferenze” segna e distingue il corpo delle donne da quello degli uomini e raccontarlo diventa una necessità per dare senso a ciò che si fa, per riversare le emozioni dentro l’inesorabilità dei fatti.
Milioni di aborti[14] per gli storici attenti alle fonti orali sono milioni di storie, uguali e diverse, storie di ognuna e di tutte le donne e raccontarle raccoglie intorno altre storie, altre voci, perché ogni narrazione che ha come oggetto il corpo compensa le astrazioni eccessive e “dice”, non sul singolo evento, ma sui processi attraverso cui la società prende le sue forme, cambia e si modella[15].

La mia storia inizia male, con un matrimonio a 17 anni e con un compagno sbagliato. Poi otto anni di liti, di incomprensioni, di fame nera e di botte. Appena la più piccola delle mie figlie ha avuto l’età per essere accettata in un istituto ho lasciato la mia città e sono venuta a Roma, dove ho iniziato la lotta per la sopravvivenza. Inseguendo lavori duri (…). Per un lungo periodo sono stata disoccupata e proprio allora ho scoperto di essere incinta: come avrei potuto fare per crescerlo bene e non sbatterlo da un istituto all’altro, come avevo fatto per le altre due figlie? Quel bambino non potevo averlo. Ho chiesto aiuto ad una conoscente che mi ha dato appuntamento in casa sua. Non c’era anestesista, non c’era niente, mi ha fatto un’iniezione di Valium. Mi sono divincolata perché il cucchiaio ti raschia dentro, mentre sei sveglia, fa tanto male. E così son arrivate le perforazioni. Due all’utero una all’intestino. Non sono andata immediatamente in clinica. Portavo in grembo tre feti, non un solo. Sono stata ricoverata in prognosi riservata e mi è arrivata una denuncia per il reato di aborto[16].

E’ questo il racconto di una donna incriminata per aborto a Roma nel 1976. Una delle poche, perché all’umiliazione di un processo arrivano solo le più povere e isolate, coloro che abortiscono da sole con l’aiuto di altre donne, nell’impossibilità di ricorrere ad un medico o non riuscendo a trovare alternative di alcun genere.

"Ho sei figli e ho abortito cinque volte" è la storia di un’altra donna processata “mio marito entra ed esce dal manicomio. Fino a quando ho potuto ho fatto l’operaia, ora lavoro come donna a ore. Nel 1972 ho fatto l’ultimo aborto. Mi chiedo se è giusto che lo stato processi me senza avermi dato niente, per me e per i miei figli e se adesso devo andare in galera lasciando loro e mio marito in quelle condizioni solo perché non potevo metter al mondo il settimo figlio e non avevo i soldi per andare in Svizzera ad abortire"[17].

L’articolista descrive infine anche il pubblico che assiste al dibattimento: “alle transenne si accalcano decine di ragazzine, età media diciotto anni. Accanto all’imputata soltanto la figlia maggiore che tiene in braccio un neonato”. Si tratta, come si può capire, di processi alla legge, processi che non arrivano quasi mai ad un verdetto, ma vengono rimandati a data da destinarsi oppure, come in una beffa, vengono sanciti da un pronunciamento di “perdono” nei confronti dell’accusata. La legge non assolve quindi, la legge in questo caso perdona le donne, che restano però moralmente criminali[18].
La rappresentazione che ne danno i media – pur utile, poiché finalmente di questi fatti siparla– non aiuta tuttavia a capire i termini reali della questione: c’è una connotazione di pietismonelle narrazioni sopra riportate, le storie sono raccontate in maniera da accentuare il più possibile la situazione di eccezionale marginalità sociale delle vittime, costruendo uno scenario che induce il lettore a desiderare non tanto un cambiamento dei termini generali del discorso, ma un verdetto che assolva quella “poveretta”, che risolva il singolo caso pietoso. Nessuna concessione alla soggettività femminile: le donne rimangono comunque soggetti non autodeterminati.

Bisogna raccontare!

Al di fuori delle costrizioni di un processo, come si è riuscite a convincere le donne a raccontare la un’esperienza così dolorosa e intima come un aborto? Le ricercatrici, le giornaliste e le studiose che hanno affrontato questo tipo di problema negli anni Settanta, indicano come sia stato fondamentale lasciare che le donne, parlando dei loro casi quotidiani, si rendessero conto da sole che si trattava di un modo – forse l’unico – per uscire dall’isolamento di una casa ormai diventata una prigione e mettersi in relazione con altre donne, nelle cui storie riconoscere, come in uno specchio, la loro stessa condizione[19]. Raccontare di sé spezza almeno per un attimo la catena inesorabile degli eventi, e il racconto è una nuova e inaspettata “dimensione minima della cura di sé”. La lotta e la rabbia, quando ci sono, sono ancora sorde, il diritto da conquistare non è ancora la libertà, non è la paritàcon gli uomini, non è l’accesso allo spazio pubblico. Si tratta – ancora – di pura lotta per l’esistenza, per poter semplicemente uscire fisicamente di casa, per frequentare gli amici, la sala da ballo, per sposarsi con chi si ama, per avere un lavoro, per avere dei sogni o almeno un destino non segnato. Si tratta di costruirsi uno “spazio per sé” che non prescinde ancora dalla centralità della vocazione domestica del soggetto femminile, così come una certa tradizione lo ha codificato[20]. Fino alla metà degli anni Sessanta nessuno sforzo sembra essere capace di spezzare concretamente l’equivalenza rigida tra identità femminile e spazio privato della casa[21]. Si lavora ancora negli interstizi, nel ritaglio, per piccoli spiragli d’aria tra un “dovere” familiaree un altro.

La rivoluzione dei costumi è alle porte, eppure ancora la parola “libertà” per molte donne corrisponde a un unico e solo desiderio, difficilissimo da confessare: “non restare incinta continuamente”. Non individuano neppure nell’uomo, nell’incontrollata sessualità maschile, il vero problema. La questione si concentra tutta sul trovare un modo per evitare le gravidanze, un’urgenza assoluta che abbatte ogni barriera. Un figlio spesso vuol dire ripiombare nella miseria, perdere il lavoro, la casa, tornare al paese; è una questione di bocche da sfamare, di debiti da contrarre. Debiti che si fanno anche per abortire: “Quando si deve fare un aborto c’è da fare i salti mortali per i soldi si fa anche il prestito in azienda a volte, dando una scusa falsa. Tanto loro sanno benissimo a cosa serve ma non stanno a fare tante indagini a loro gliene importa poco del motivo”[22]. Molte delle donne che raccontano le loro storie, scrivono nel 1973 Frontori e Pogliana nell’introduzione al loro lavoro sulla condizione delle donne nelle fabbriche, non avevano mai avuto prima di allora né l’interesse né la forza di pensare a queste cose. Nel serrato scadenzario di incombenze, doveri, rituali della loro vita quotidiana non c’era né spazio né tempo per farlo. Durante le interviste però, dovendo rispondere per forza a domande precise, sembrano accorgersi, per la prima volta, della pochezza della loro vita, ne prendono atto in quel momento, quando cioè si materializza davanti ai loro occhi l’elenco infinito delle cose che fanno quotidianamente con/per il marito, con/per i figli e il niente che resta per loro.
Poi però, ad un certo punto ci fu la presa di coscienza.

Imparare a fare da sole

Le donne parlano, dunque. E per una che dice di sé, cento stanno intorno ad annuire, in ogni storia si riconoscono in tante, e tanti sono, spesso, gli aborti che si possono contare per ognuna. Soprattutto per ogni donna sposata, che ha una vita fertile di una ventina d’anni davanti a sé e in casa ha già altri figli. La coralità familiare, il coinvolgimento della rete di persone più vicine non è forse cercato, ma di fatto quasi sempre si verifica e colpisce la voce delle figlie più grandi che spesso, nella forzata intimità e promiscuità di una vita misera, si trovano ad assistere le madri in queste drammatiche circostanze:

Mia madre ha quattro figli e credo una decina di aborti… fin da quando ero piccina lei ha parlato sempre di queste cose con noi, per anni l’ho accompagnata io dal medico, nella sua casa… voleva assolutamente abortire anche il mio ultimo fratello, ma le abbiamo detto tutti che il fratellino lo volevamo e l’abbiamo costretta a tenerlo… inizialmente questa confidenza di mia madre mi dava fastidio e quando ho avuto un ragazzo non gliene ho parlato… lei però lo ha capito e mi ha detto di non preoccuparmi perché se resto incinta lei mi aiuterà. Lei sa come si fa adesso[23].

Pratiche che si svolgono in un ambiente domestico e che fanno sì che non sia rara la partecipazione, non solo del marito, ma dell’intero nucleo familiare, quasi si trattasse di un parto. Questa dimensione collettiva sembra avere quasi la funzione di annullare l’angoscia e di aiutare a trovare una qualche giustificazione: “farlo nell’ombra, di nascosto…no, sono cose che poi non dimentichi più che ti porti dentro per tutta la vita”[24]. Gli uomini, partecipi o semplicemente presenti nel momento in cui vengono prese le decisioni, appaiono profondamente ignoranti : sanno poco o nulla dei problemi della maternità e della sessualità femminile. Le loro voci colpiscono in maniera particolare più per quel “non sapere” del corpo e delle conseguenze del proprio agire che rende quasi infantile il loro approccio alla questione, che per una pur prevedibile forma di “arroganza difensiva”. Alcuni, pur esprimendo convinzioni più elaborate, mostrano atteggiamenti di pensiero profondamente immaturi nei confronti non solo delle donne, ma anche di sé stessi:

Per molti uomini il numero degli aborti è un vanto, l’uomo non è mai sicuro della propria virilità, ha sempre la sensazione inconscia di bluffare e quindi la fecondazione per l’uomo è la conferma che questa virilità esiste [25].

Si tratta dell’espressione di un sistema di valori che non garantisce libertà a nessuno. I più partecipi si affidano alle capacità e ai saperi acquisiti con l’esperienza dalle loro mogli e compagne, che “sanno fare da sole”, che “troveranno una soluzione”[26] e scaricano su di loro il peso della decisione:

Io sentivo il bisogno di farmi convincere da lei, ho lasciato che fosse lei a convincermi della sua scelta. Lei era decisa fin dall’inizio. Il giorno fissato una macchina è venuta prenderci, ci ha fatto fare il giro di mezza Roma e poi ci siamo infilati in una casa. Ci ha aperto una signora (...) ha aperto un porta seminascosta e siamo scesi in cantina dove c’era un uomo, un medico forse (…) nella stanza c’era buio (…) lui mi ha chiesto di aiutarlo a tenere ferma la testa della ragazza (…) ha lavorato un quarto d’ora, poi è squillato un telefono e lui ha risposto… (…) allora è arrivata la moglie e l’ha disinfettata, le ha messo un asciugamano in bocca e premeva perché lei urlava (…) intanto il medico aveva terminato e ci siamo presi un bel cognac tutti quanti[27].

Domesticità agghiacciante quella della “casa del medico”, tutta diversa dall’aborto “in casa propria”, che conserva nella familiarità dei luoghi e dei volti qualcosa di consolatorio. Rispetto all’atteggiamento maschile registrato da Banotti, la giustificazione dell’impossibilità di mantenimento dei figli, che pure descrive una realtà oggettiva di povertà e di precarietà di molte situazioni di coppia, mette fine alle angosce di molti uomini. Pur con qualche eccezione, come è il caso dello studente appena citato, nelle storie maschili, in genere, l’argomento aborto si apre solo nel momento di presa della decisione – “si fa” – e si chiude nel momento in cui si capisce che la propria donna “sa come fare”. Agli uomini è affidato al massimo il compito di reperire gli strumenti (“Lui ha trovato la sonda, poi io faccio da sola”)[28], in un fai-da-te che tiene tutto il problema all’interno della coppia o della stretta cerchia familiare e che viene spesso descritta nelle interviste come la “soluzione migliore”, l’unica che garantisce che la voce non circolerà (“mio marito ha detto che dovevo imparare anch’io a fare queste cose, per non essere in bocca a tutta la gente”), con il vantaggio non trascurabile che tuttoavverrà senza spesa (“diceva che così non avremo speso una lira”)[29].
A dominare la scena resta comunque la determinazione delle donne, che nasce dal vivere tutto sul proprio corpo e dalla consapevolezza di dover trovare comunque una via d’uscita: una donna che lo ha deciso deve abortire, anche se questo gesto cambierà la sua vita, le sue relazioni con gli uomini, con la fede, con la famiglia, anche se non sa ancora né come né dove accadrà. Deve, anche se difficilmente riuscirà a fare tesoro di un’esperienza del genere: nonostante il racconto di dolore e umiliazione riportato in tutte le testimonianze, l’agire sembra guidato da un sapere stereotipato, infuso dalla tradizione, dal senso comune, dall’abitudine, che fanno interiorizzare alle figlie lo stesso destino della madri, un destino di sacrificio domestico fin da bambine.

Molto spesso, è la vita nel piccolo paese, l’isolamento, la mancanza di relazioni amicali o di fiducia che costringe ad arrangiarsi:

Qui per noi è impossibile trovare qualcuno che lo faccia, così ho imparato a farmeli e da allora li ho fatti tutti con la sonda, ogni due tre mesi. Quando non avevo la sonda prendevo delle erbe, bevevo litri di vino rosso e facevo dei salti da un tavolo alto… mi avevano detto che così si abortiva … lui mi aiutava a risalire sul tavolo ogni volta…. Ma mio marito non è cattivo in fondo è la vita che ci ha fatti così[30].

Per alcune il coinvolgimento dei parenti è “dato per scontato” e non di rado capita che sia un familiare a compiere l’intervento: “Ho detto tutto a mio fratello che mi ha accompagnato da un zio che ha una casa in campagna poi gli ho chiesto di mettermi i ferri”[31].
A volte, una drammatica comunanza di esperienze tra madri e figlie le costringe a rivolgersi alla stessa “filiera della clandestinità”, senza che questo, per altro, crei necessariamente complicità o solidarietà:

Ho fatto 37 aborti nella mia vita. Forse sarà anche una cosa atroce e disumana per altri, ma io non avrei mai potuto mantenere più dei due figli vivi che ho e ho fatto sempre tutto da sola, ricorrendo agli insegnamenti di una “medichessa”. Le donne ricorrevano a lei di nascosto dagli uomini che, pur sapendolo (tutti sapevano) non lo avrebbero ammesso mai (…) ogni anno abortivo due o tre volte almeno. Alla fine mi sono comprata la sonda e lo facevo da sola, non ho bisogno di nessuno per abortire. Mio marito non mi dice niente, non mi aiuta, né mi ascolta. Lui è un meridionale e fa finta di non capire, ma sa tutto (…) La prima volta che sono andata la medichessa mi ha detto: “sei venuta in ritardo… tua madre è più sveglia di te, ci viene subito e siccome ci viene spesso, benedice la madonna ogni tre mesi (…)”. Non avevo mai pensato che mia madre, una donnetta rinsecchita e scialba, avesse ancora bisogno di questo[32].

Fa parte dello stesso mondo arcaico in cui donne e uomini, pur vivendo insieme sotto lo stesso tetto, sembrano appartenere ad universi differenti, la storia – se possibile ancora più atroce – raccontata ad Elvira Banotti da un’anziana contadina del Molise che, nel corso dell’intervista, parla dei suoi quattro parti e dei suoi dieci aborti con eguale serenità. Eppure, la sua è forse una delle testimonianze più drammatiche perché racconta di una selezione delle nascite infinitamente più crudele dell’aborto:

Era lui che manteneva la famiglia solo lui poteva decidere se il figlio doveva crescere o non doveva crescere. Dipendeva dal raccolto, dipendeva dai soldi che avevamo e allora io portavo avanti la gravidanza senza saper se il figlio sarebbe campato oppure no. Quando veniva il momento la levatrice gli faceva un segno che il bambino era nato e lui capiva se era maschio o femmina. Se era femmina lui faceva segno di no con la testa e la levatrice non legava il cordone così la bambina moriva (…) mia suocera mi diceva che dovevo comunque ringraziare Dio che mio marito mi faceva ancora fare i figli, voleva dire che veniva ancora con me e non andava con le altre (…).

La storia di questa donna è davvero molto complessa e se da un lato mette in luce il ruolo assolutamente “padronale” del marito, dall’altro svela anche il radicamento nella mente delle donne di quel ruolo, interiorizzato e quasi giustificato; svela un insieme di pregiudizi e di stereotipi assorbiti dal nascere e vivere in ambienti che ne sono permeati. La rassegnazione di fondo sul destino che accomuna le donne non impedisce comunque la consapevolezza che qualche cambiamento possa avvenire e di fatto sia già intervenuto:

Mia figlia ha avuto la mia stessa sorte, solo che lei con il marito va d’accordo, fa l’amore con lui come facevano ai miei tempi quelle donne lì (le prostitute, ndr) e quando capita che resta incinta fa tutto da sola…si vede che il mondo fa progressi![33].

Rilette a distanza di tanti anni, queste testimonianze conservano intatto tutto il loro carico di sofferenza e di emozione. Parole di una forza drammatica sconvolgente.
Il rifiuto della maternità, così come viene qui rappresentato, non ha nemmeno in nuce i connotati della presa di posizione politica: si evince semplicemente un desiderio di tregua, la ricerca di uno spazio di vita, uno spiraglio tra una gravidanza ed un’altra. L’aborto in questo momento non è una battaglia per i diritti delle donne, ma soltanto una pratica da tavolo da cucina, una sofferenza personale che difficilmente si spartisce con qualcuno (“parlavo solo con mio marito, non conoscevo nessuno, al paese non c’è il tempo di stare con le amiche”[34]) e che, anche quando la necessità comporta il coinvolgimento e la partecipazione dei familiari, si svolge in genere in un’agghiacciante – e clandestina – solitudine interiore.

Il racconto dell’aborto negli anni Settanta: cosa cambia

Quando il discorso pubblico sull’aborto inizia a diventare tema di agenda politica in Italia, ci si rende subito conto che si sta tentando di descrivere qualcosa di molto – troppo – intimo, per il quale un “vocabolario del corpo” legato ad una conoscenza reale in realtà non c’è ancora, o comunque non è a disposizione né delle donne né tanto meno degli uomini.
Nel 1975, l’esperienza di una giovane donna non è diversa da quella che avrebbe potuto vivere dieci anni prima:

sola come un cane, un indirizzo, un medico... Forse quello giusto dopo tanti che non avevano saputo che farmi un paternalistico discorso sulle mie responsabilità, sulle mie colpe, per nascondere in realtà la paura di compromettersi con una minorenne. Questa volta alla solita domanda risposi: 21 anni e quello allora mi rispose, quasi infastidito, che quelle cose lui non le faceva ma conosceva una tale. Presi appuntamento con la ‘tale’ per 20.000 lire (…) Da uno sportello della credenza tirò fuori l’attrezzatura: ferro da calza, sonda, speculo. Non vidi altro perché non volevo vedere… ‘Non sentirai molto male, dato che sei appena al secondo mese’ diceva. Invece io ero quasi di quattro mesi, ma non glielo dissi per paura che si rifiutasse di intervenire. Cominciarono le doglie il mattino dopo alle sei, alle nove non potevo più alzarmi per andare in bagno a cambiarmi perché lasciavo la scia di sangue per terra e mia madre avrebbe potuto scoprire tutto. Dolore, sangue, feto, placenta, terrore. Finalmente alla sera finì tutto.

Linguaggio più consapevole che sa nominare le cose, diverso certamente da quello delle storie di dieci anni prima. Ma la sofferenza è drammaticamente sempre uguale. Gli aborti si consumano ancora in una stretta cerchia e a forza di “non dirli a sé stesse” si finisce per non imparare nulla:

Grosso modo sapevo cosa era un raschiamento e mi raccomandai che mi addormentassero. La fatidica sera andai accompagnata da mio marito e da mia suocera, la quale aveva una paura terribile che la cosa si sapesse, perché, diceva, non avrebbe più avuto il coraggio di uscire e guardare in faccia la gente (…). Cominciai a tremare come una foglia, avevo una paura folle. Mia suocera e l’ostetrica, innervosite, mi dissero di far poche storie e, soprattutto, di non urlare per non insospettire i vicini. Mio marito ebbe il coraggio di svenire (…). Nemmeno un anno dopo ero di nuovo incinta[35].

Ed è questa omertà, imposta dal non avere le parole per dirlo, che rende queste storie ancora più importanti, ancora più dirompenti e capaci di dare forma a ciò che fino a quel momento era un pesantissimo silenzio.

Fino ad ora ho sempre cercato di nascondere, agli altri soprattutto, ma anche a me stessa, questo fatto. L’ho nascosto agli altri per non essere perseguita legalmente e moralmente e a me stessa per cercare di dimenticarlo come un fatto accaduto tanto tempo fa e dovuto ad incoscienza di adolescente. Da quando ho preso coscienza che le motivazioni che mi hanno costretto ad agire in quel modo non sono dovute a mia incapacità, incoscienza o aberrazione infanticida, ma hanno le loro radici in una organizzazione sociale che sfrutta il mio sesso, ho anche preso coscienza conseguentemente dell’importanza di raccontarlo agli altri[36].

Da qui, da queste parole consapevoli, comincia una nuova storia dell’aborto, che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta si aprirà timidamente e lentamente a nuovi scenari: alcune donne “più fortunate” che abitano nelle città, che studiano e lavorano, che hanno cioè reti di rapporti ad fuori della stretta cerchia della famiglia, cominceranno ad intercettare l’offerta d’aiuto proposta dai primi gruppi femministi e radicali che, in alcune città, allestiscono i primi ambulatori autogestiti e garantiscono un’atmosfera forse più amichevole, in cui a volte alla solitudine si sostituisce la presenza delle amiche e al raschiamento nuovi metodi meno cruenti[37], ma in cui l’agire è pur sempre fuori dalla legge.
Solo al termine di un percorso durato più di un decennio, passato attraverso un confronto dialettico serrato e ad una negoziazione tenace, frutto di una complicata elaborazione femminista, che transiterà con tumulto per le aule parlamentari e metterà a confronto e scardinerà per poi ricomporre di volta in volta tutte le posizioni, tutte le voci che partecipano al dibattito, solo al termine di tutto questo percorso si arriva all’approvazione della legge 194 nel 1978. Controversa, immediatamente avversata da parte importante dello stesso movimento delle donne, che proprio su questa legge compie la sua più grave frattura, ma attraverso la quale le donne possono dirsi finalmente “persone”.

Note

[1] M. Mori, Aborto e morale. Capire un nuovo diritto, Torino, Einaudi, 2008.

[2] L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Milano, Giunti, 1988.

[3] L. Boltanski, La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Milano, Feltrinelli, 2007, 193.

[4] R. Nossiff,Discourse, Party, and Policy: The Case of Abortion, 1965-1972, “Policy Studies Journal”, 26 (1998), II, 244-256.

[5] Si fa ma non si dice. Costume e morale negli anni cinquanta Puntata di Correva l’anno trasmessa da Raitre il 24 gennaio 2009. Il video della trasmissione è consultabile al sito: http://video.google.com/videoplay?docid=3364687023531090614#.

[6] S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, Roma, Carocci, 2004, 50-51.

[7] A. Giachetti, Nessuno ci può giudicare, in Le rose, a cura di A. Marazzi, Milano Feltrinelli 2005, 54-62.

[8] E magari alcune hanno già per le mani le prime copie di Sputiamo su Hegel, una delle opere più note di Carla Lonzi uscita nel 1970 e conoscono anche il Manifesto di Rivolta femminile, di cui la Lonzi fu una delle redattrici, anch’esso del 1970. E’ indubbiamente affascinante la forza con cui la Lonzi teorizza il separatismo e insiste sull’autenticità dei rapporti. Nelle sue opere convince perché sa dire ciò di cui non si sa, sa dire cioè le relazioni tra donne, e i suoi scritti diventano documenti fondativi del femminismo italiano, cui si aggiungono in quel periodo la traduzione e la pubblicazione di classici del femminismo d’oltre Oceano: La mistica della femminilità di Betty Friedan; La condizione della donna di Juliet Mitchell; Sesso contro sesso o classe contro classe? di Evelyn Reed; La politica del sesso di Kate Millet; La dialettica dei sessi di Shulamith Firestone; L’eunuco femmina di Germane Greer.

[9] Un “e” che fino al sessantotto distingue ma non separa, anzi accomuna donne e uomini nel desiderio di cambiare il mondo e che invece nel corso degli anni Settanta andrà separando i due sessi. Le donne vorranno e sapranno “fare da sole” (E. Guerra, Una nuova soggettività: femminismo e femminismi nel passaggio degli anni Settanta, in T. Bertilotti, A. Scattigno (eds.), Il femminismo degli anni Settanta, Roma, Viella, 2005, 25-68).

[10] L. Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Milano, Franco Angeli, 2005, 24.

[11] A. Scattigno, La figura materna tra emancipazionismo e femminismo, in M. D’Amelia (ed.), , Storia della maternità, Bari, Laterza 1995, 273-297.

[12] C. Saraceno, Dalla parte della donna. La questione femminile nelle società industriali avanzate, Bari, De Donato, 1979, 108-109.

[13] L. Tornabuoni, Inseguendo la realtà, c, 18 dicembre 1975, 1.

[14] «Il Giorno» del 7 settembre 1972 riporta un numero di aborti clandestini pari a 3-4 milioni l'anno, mentre il «Corriere della Sera» del 10 settembre 1976 parla di cifre variabili tra 1,5 e 3 milioni, a conferma dell’impossibilità di quantificare realmente fenomeno.

[15] A. McFarlane, The savage wars of peace. England, Japan and the Malthusian trap, New Hampshire, Palgrave McMillan, 2003.

[16] M. Durand, Processata per aborto si difende raccontando le proprie traversie,«Corriere della Sera», 3 febbraio 1976, 7.

[17] Ibidem, cit., 7.

[18] E’ una donna il giudice che condanna per aborto, «La Repubblica», 13 marzo 1976, 11.

[19] V. Visani, Storie di ginecologi, Milano, Effe Edizioni, 1975.

[20] Il riferimento è alla tradizione italiana che al termine “domestico” associa il riconoscimento di uno spazio chiuso, strettamente privato, protetto da difendere dall’influenza esterna. Diverso il discorso in area americana dove su un concetto aperto di “domesticità” si compie fin dai tempi dei padri fondatori un discorso di tipo enfatico sul valore sociale dello spazio privato, che compartecipa alle sorti pubbliche e politiche della nazione (Si veda a tal proposito: R. Baritono, La “mistica della femminilità” e il modello democratico americano negli anni della guerra fredda, “Scienza e Politica”, XXVI (2002), 83-100).

[21] Sulla genesi dell’identificazione dello spazio privato come spazio femminile ‘si veda: R. Sarti, Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma- Bari, Laterza, 20032, 270-303.

[22] Intervista ad una donna milanese, operaia (Fontori, Pogliana (eds.), Doppia faccia, cit., 39).

[23] Intervista ad una studentessa romana di ventidue anni (in Banotti, La sfida femminile, cit., 73).

[24] Ibidem, cit., 96.

[25] Intervista ad uno studente universitario di Roma (in ibidem, 196).

[26] Ibidem, 96-97.

[27] Intervista ad uno studente universitario di Roma (in ibidem, 197).

[28] Ibidem, 137-138.

[29] Ibidem, 137-138.

[30] Intervista ad una donna di ventidue anni di Massa Carrara (in ibidem, 104-105).

[31] Intervista ad una donna di ventidue anni siciliana (in ibidem, 108-109).

[32] Intervista ad una donna di quarantadue anni, casalinga (in ibidem, 125-126).

[33] Intervista ad una donna ottantenne del Molise (in ibidem, 126).

[34] Intervista ad una donna di ventotto anni di Napoli, cuoca (in ibidem, 207).

[35] Testimonianza raccolta in Basta tacere. Testimonianze di donne su parto, aborto, gravidanza e maternità, «Lotta Femminista», Ferrara, 1973.

[36] Percovich, La coscienza nel corpo, cit., 82-83.

[37] Mi riferisco al “metodo Karman” ad esempio, che si praticava per aspirazione entro l’ottava settimana di gravidanza ed era considerato quasi indolore, semplice e poco costoso (si veda ad esempio la descrizione che se ne fa l’articolo Ieri abbiamo assistito ad un aborto eseguito con il metodo Karman, «Il manifesto», 13 febbraio 1975, 1. Se ne parla diffusamente anche in Percovich, la coscienza nel corpo, cit.).