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Il grande brigantaggio nel cinema. Dalla prima alla seconda repubblica

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Il ritorno dei briganti

Il bianco e nero Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi, nel cast Amedeo Nazzari, racconta nel 1952 a mo’ di western la storia della dura guerra al brigantaggio, da un racconto omonimo di Riccardo Bacchelli dell’anteguerra, dove è probabile il deposito di racconti locali (area garganica), in linea con la vulgata sull’unificazione nazionale e le sue forti difficoltà nel Sud. A sua volta Li chiamarono…briganti!, di Pasquale Squitieri, 1999, è pensato anche come omaggio al western all’italiana di Sergio Leone; ma è costruito sull’autentica passione neoborbonica per la storia del maggior brigante meridionale, il lucano Carmine Crocco, seguita con una certa precisione documentaria e insieme come soggettivissima controstoria dei vinti; attori di grido quali Enrico Loverso, Lina Sastri, Giorgio Albertazzi e Claudia Cardinale.

In una rassegna di cinema e storia sui film risorgimentali 1905 - 2011[1] ci siamo occupati con particolare interesse di questi due importanti film sul brigantaggio ottocentesco, che accompagnano i discorsi storiografici e di opinione emersi nel centocinquantenario con un’attualità ancora pochi anni fa non prevedibile. Come spettacoli che arrivano da contesti e percorsi diversi a un versante oggi particolarmente controverso dell’unificazione italiana, richiamano bene la metafora del tapis roulant che riporta pezzi di memoria storico sociale già dati per usciti dal repertorio di quanto si è selezionato, con la quale Mario Isnenghi ha introdotto i tanti luoghi della memoria, da non abbandonare all’uso pubblico della storia invalso nel cospicuo revisionismo [Isnenghi 1996].

All’importanza della tematica storiografica – che è da riprendere sviluppando la ricerca e aggiornando le categorie e le interpretazioni, tra guerra sociale e guerra civile, Risorgimento italiano e meridionale [Lupo 2002; Bruno Guerri 2010; Manchon 2011; Pinto 2011a, 2011b] – ha corrisposto negli ultimi anni com’è noto un vero e proprio “ritorno dei briganti” come presunto luogo identitario di un Mezzogiorno in crisi all’interno della più ampia crisi italiana. Se il 2011 è andato calamitando già da alcuni anni un web neoborbonico che si è poi qualificato anche più chiaramente sul piano politico come Nazione Duosiciliana, Terronia…, è interessante verificare che già il film di Squitieri del 1999 conteneva tutti gli ingredienti del racconto oggi detto “neoborb”, che sarebbe corso on line con infinite manipolazioni, per confluire quindi nella vulgata sud vittimista strillata del fortunato Terroni del giornalista pugliese Pino Aprile. A partire dalla cifra di un milione di morti come esito della guerra di conquista del Sud, terra massacrata cui non resterà che emigrare [Aprile 2010, 9, 70 71]: cifra manifestamente sproporzionata ai 20 60.000 su cui si attesta la stessa storiografia che oggi ritiene legittimamente sdoganata la categoria di guerra civile anche per il brigantaggio [Lupo 2002; Bruno Guerri 2010; Lupo 2011], pur con angoli di visuali diversi quanto alla natura e al senso del fenomeno nell’unificazione italiana. Altrettanto priva di fondamento è l’immediata sequenza “repressione del brigantaggio/emigrazione” che viene ripetuta a iosa sui siti “neoborb”, come da Aprile, e che già si insinuava nel film di Squitieri di dieci anni prima (dalla storia mélo di due giovani pastori/briganti destinati al martirio, per i quali la madre aveva pensato l’emigrazione in Francia…, alla canzone Profezia delle ultime sequenze, o brigante o emigrante!). Nel condividere il giudizio espresso su questa rubrica da Paolo Noto [Noto 2011], che le fiction sul Risorgimento parlino di volta in volta piuttosto del presente, mi propongo qui di svolgere una lettura parallela di questi film sul brigantaggio molto diversi per fattura e memoria storica, distanti quanto la dislocazione Nord/Sud all’avvio della prima e della seconda repubblica.

Il brigantaggio di Pasquale Squitieri (1999)

Il nostro percorso può utilmente partire dal più vicino film di Squitieri, che nel 1999 doveva sorprendere per lo più la critica cinematografica come l’intellettualità politica di sinistra, subendo a quanto si dice il rapido ritiro dalle sale, se non altro per censurare la raffigurazione di un generale Cialdini assolutamente brutale e sanguinario. Il film boicottato nel 1999 ha recuperato intorno al 2011 un’ampia diffusione nei circuiti delle proiezioni “neoborb” ovvero sudiste (Briganti! è offerto su You tube in molti siti ed è da anni proiettato nelle feste folclorico politiche di provincia meridionale, che sovente hanno celebrato nel 2011 piuttosto un antirisorgimento).

Cineasta che, nei suoi film di vari contesti e generi, ha inteso coniugare il grande spettacolo con un’idea d’impegno civile nata a destra ma poi vissuta all’incrocio con il ‘68 [Monetti 2009, 14 15], con Li chiamarono… briganti! Squitieri è andato a un film storico di antirisorgimento irruente, che si rende esplicito nelle interviste più aperte ad ascoltare il regista. Avendo scritto già nel 1970 una sceneggiatura di base, all’uscita del film nel ’99 Squitieri spiega per esempio a un giornalista de «Il Messaggero» come, fatta salva la buona storiografia di Gramsci Croce Molfese…, questo film epico sull’unificazione come invasione dei piemontesi, di là da ricostruzioni puntigliose, ha voluto «usare l’immaginazione come memoria della storia» [Monetti 2009, 264]: dar voce essenzialmente a «una rilettura della questione meridionale per capire il malessere e la mancanza di speranze del nostro sud, che da un secolo si è dissanguato con l’emigrazione»; raccontare del resto la «storia documentatissima» della violenza dei bersaglieri che stupravano e tagliavano le teste. In breve, il film a tesi compone un racconto a tutto tondo neoborbonico – il Re di Napoli e la Chiesa di Roma baluardi della riscossa popolare meridionale – intorno alla storia nota di Crocco. Dal veloce riferimento nelle sequenze di avvio alla deludente militanza garibaldina del ‘60, il maggior brigante del periodo viene avanti come leader populista della forte mobilitazione legittimista del ‘61, capace quindi di una dura contesa del territorio ai “piemontesi”, braccato infine da un esercito italiano ormai attrezzato alla repressione intensiva sul territorio, non senza il contributo del tradimento di Caruso luogotenente opportunista – pratica del resto reale del banditismo in molti contesti e date [Molfese 1964; Scirocco 1986]. Lungo il film il regista monta un discorso antipolitico a tutto tondo sull’accordo che possidenti locali, politici liberali e già borbonici, cardinali romani (!), realizzeranno in coalizione strategica contro i briganti/contadini da massacrare. Fin dalle prime sequenze corre l’infuocata identificazione dei patrioti martiri del Sud versus il nemico nordico, con il ragazzo che sputa sul nome di Garibaldi (morti tutti i suoi familiari nei mesi garibaldini, a sua volta naturalmente morirà per il fuoco piemontese). Disattese le non meglio spiegate promesse ai contadini à la Gramsci, arriverà il generale Cialdini, ferocissimo teorico e pratico della repressione militare.

Nella citata intervista a «Il Messaggero», Squitieri spiegava di non aver voluto fare un film buonista, ma un film «nudo e crudo» sulla rapina e il genocidio del Sud [Monetti 2009, 263]. Viceversa, il film a tesi riserva il buonismo più partigiano alla comunicazione del capobrigante con il suo popolo, e attribuisce la violenza post 1860 tutta all’altra parte, sottacendo l’efferatezza della mobilitazione legittimista sia nei massacri politici che nelle pratiche criminali.

Nelle ambizioni a un’epica di controstoria, la vena nazional sudista di Squitieri si nutre d’altra parte di ingredienti che echeggiano un’antropologia comunitaria ancora viva, tra i paesi e i boschi dove si accampa l’esercito della liberazione. Così, i giochi di genere in cui le donne sono portatrici di antico maternage e intrinseca differenza femminile: un contemporaneo sessantottino che conquista molto spazio nell’immaginario della fiction, pur concentrata sulla vicenda politica briganti contro piemontesi. Analoga funzione di ponte, tra la rabbia politica e l’emozione antropologica, viene svolta dai canti affidati alla voce di Lina Sastri, un coro greco che politicizza il discorso comunitario già immesso nel racconto: tre canzoni di vogue popolare, scritte e musicate ad hoc da Luigi Ceccarelli su contenuti e modalità del lamento gridato, dove la dolente figura femminile piange la profezia di un destino di morte per i maschi briganti, e di un futuro italiano senza cittadinanza e senza libertà per questo popolo oppresso. Dialetto napoletano in contesto lucano, sullo sfondo importante della reggia di Caserta: la nazione duosiciliana si riconosce pur sempre a partire dal centro dell’antico regno.

Tale nostalgia tradizionalista può risultare d’altra parte contigua al meridionalismo terzomondista presente per esempio negli studi di Nicola Zitara sull’Unità d’Italia come nascita di una colonia[2], negli stessi primi anni ‘70 in cui Squitieri spiega di aver svolto la prima sceneggiatura. Nello splinder di lancio del film: «Se avessero vinto, si chiamerebbero Villa, Zapata, Guevara. Ma sono stati sconfitti e la Storia li chiama Briganti» [Monetti 2009, 263].

I fotogrammi del film si aprono del resto con la dedica (a dieci anni dalla morte) A Sergio Leone, e degli spaghetti western la pellicola riprende molti elementi stilistici: le cavalcate (con analoga musica di sottofondo) e analogo (sovente esasperato) uso del rallentatore; qualche sparatoria negli interni lucani come saloons; le colline sassose come canyons. Il western antirisorgimentale sembra peraltro fallire, quanto all’ambizione epica rivendicata dal regista, nei difetti cinematografici riscontrabili: la macchina da presa si muove caotica tra campi e figure, risultano invasivi i doppiaggi, poco compatta la colonna sonora, e per lo più priva di tono, a parte il coro greco di Lina Sastri. Il film si può dire dunque sgrammaticato nelle scelte stilistiche strabordanti il genere cui il regista si è esplicitamente richiamato[3]. In prospettiva storiografica, l’idea suggestiva di un’interna sconnessione stilistica può connettersi all’aver il regista seguito un percorso militante, verso una patria sanfedista da sempre di destra nella storia italiana, nel quale è poi confluito il populismo trasversale portato dai tempi, nella crisi sociale e di valori di fine ‘900. Briganti! è non caso zeppo di icone di sinistra: da attori come Lina Sastri ed Enrico Loverso, alla personalità libertaria di Crocco leader sincero del brigantaggio meridionale, all’emancipazione femminile/femminista nella figura della sua compagna, all’insistenza sull’emigrazione come genocidio, nell’alternativa da incubo che chiude il film o brigante o emigrante!

I percorsi trasversali intorno alla denuncia più o meno vittimista della condizione meridionale precedono del resto la crisi degli ultimi decenni e le onde identitarie contrapposte leghista/sudista. In una recente intervista di Squitieri sui suoi percorsi, Briganti! fa dittico con Razza selvaggia, un film a basso costo del 1980 sull’immigrazione a Torino, dove la lotta armata e la droga, la violenza banale e la prostituzione diffusa vogliono denunciare lo sfruttamento degli operai meridionali spaesati e porre dunque il problema dell’identità da riconquistare: è stato «dal punto di vista antropologico un ritorno al sud, a una nostra realtà più ideale che politica» [Monetti 2009, 66]. Degli umori sudisti lo stesso Squitieri ricorda la genesi più indietro nel tempo, nella frequentazione del gruppo ’63 e l’amicizia con Nanni Balestrini, autore tra l’altro di Vogliamo tutto. Contiguità con Lotta Continua? Il regista parla piuttosto per sé: era un «nuovo modo di vedere il meridionalismo (…). Tutto nasce a Napoli, alla libreria Guida. Con questo film ho voluto disturbare chi più di tutto ha sfruttato il meridione: cioè la Fiat (…)» [Monetti 2009, 65].

A qualificare il radicalismo antinordico di Squitieri, più che la protesta economico sociale, risulta il furto di cultura che il Sud avrebbe ricevuto: «un Sud rapinato della sua cultura», i contadini come i gauchos di «tanti paesi oppressi dalla civiltà tecnologica» [Monetti 2009, 265]. Parole queste che porterebbero – ancora a sinistra – verso il coevo «pensiero meridiano» [Cassano 1996], se la nostalgia di Squitieri per l’antica cultura non spostasse l’immaginario di una vasta ribellione sociale sul primato della violenza di briganti e legittimisti – un’avanguardia armata per tradizione di destra, che il regista chiama a protagonisti del suo film dirompente [Monetti 2009, 265].

Lungo gli ultimi anni ‘70, alcuni indizi di un’erosione delle culture politiche rispetto alle loro precedenti definizioni saranno da studiare nei percorsi, qui da sinistra a destra, del revival di alcune canzoni di protesta meridionale, che incrociano talora i film. Nel post ‘68 i musicanti nati con l’amatissima Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone hanno spostato talvolta versi di morte dai rivoluzionari ai briganti. Così è per Quant’è bello lu murire acciso, il film di Ennio Lorenzini su Pisacane (1975), dove la colonna sonora di De Simone accompagna il destino di morte del rivoluzionario con l’antico lamento dell’angioina Donna Sabella; in un imprecisato seguito, apprendiamo dal web, questo verso trascinante è stato trasferito da Eugenio Bennato nel canto A muntagna su Ninco Nanco, fedele luogotenente di Crocco, icona già nota dalla fotografia divulgata dopo l’esecuzione [De Jaco 1969] (nel film di Squitieri è un sessantottino con i capelli al vento, la chitarra e una postura nella morte come l’icona di Che Guevara; così già Pisacane nel citato film). La ancor più famosa Brigante se more, creazione 1979 dello stesso Bennato [Bennato 2010] (per lo sceneggiato L’eredità della priora, primo scialbo revisionismo dall’omonimo romanzo del 1964 di Carlo Alianello), manderà in visibilio il pubblico trasversale delle manifestazioni del 2011.

Per tornare alla metafora del tapis roulant che riporta i materiali della storia nelle nuove rappresentazioni: la morte del brigante musicata all’antica – riproposta facilmente dai film su You tube e in occasioni comunitarie svariate – muove evidentemente le corde di un’identità mortuaria del Sud all’alba del terzo millennio. La ricerca (per esempio di storia orale, o sulla letteratura) [Nigro 1987 e 2010], potrebbe far emergere come la proiezione di martirio concentrata sul nemico nordico del 1860 sia la scorciatoia memoriale per parlare della modernità deludente che, lungo un paio di generazioni di secondo ‘900, ha portato definitivamente questo mondo oltre la società rurale.

Il brigantaggio di Pietro Germi (1952)

Negli anni del dopoguerra, quando un’attenzione forte andava al Sud arretrato ma investito dalle lotte per la terra e dalla prima politicizzazione della democrazia repubblicana, Il brigante di Tacca del Lupo di Germi del 1952, su racconto di Bacchelli del 1936, è immerso in un Mezzogiorno interno dove è ancora immaginabile la guerra ottocentesca, impressa nella memoria sociale come la vera Grande Guerra ancora lungo il confino lucano di Carlo Levi [Levi 1994, 121 127]. A Germi, già riconosciuto come regista da In nome della legge del 1949, la poco nota novella di Bacchelli viene segnalata dal giovane Fellini, che ne cura la sceneggiatura insieme allo stesso Germi e a Tullio Pinelli (discendente dal generale Ferdinando rimasto famoso per il suo ruolo nella repressione feroce del brigantaggio). Le adeguate informazioni storiche di una sceneggiatura dunque elaborata in famiglia, peraltro, si innestano sul racconto che viene da una lunga permanenza nel Gargano dello scrittore bolognese, e che del viaggio conserva un’impronta fresca di luoghi attraversati e racconti ascoltati. La pellicola, mentre asciuga il sottofondo letterario del racconto, ne valorizza il percorso corale già ricco su questa prima storia italiana difficile. Tra i due testi corre un’analoga memoria complessa sulla repressione del grande brigantaggio, guerra necessaria ma dolorosa che ha molti attori. Primo protagonista è un capitano dell’esercito italiano determinato a servire la patria del Risorgimento ancora nel Sud – con la necessaria durezza della legge militare, però pensoso della reciproca violenza tra l’Italia appena nata e un Mezzogiorno insidioso; che Germi affida al carisma sempre rassicurante di Nazzari, ma che già Bacchelli aveva raccontato come patriota sofferente di un Risorgimento finito non bene nella guerra del Sud. Hanno il loro profilo i briganti criminali oltre che legittimisti, e i bersaglieri impazienti alle fatiche della guerriglia dettata dal nemico insidioso su una terra ostile. L’articolata società locale appare nel suo insieme attonita dinanzi alle dinamiche di guerra civile scatenatesi nel suo stesso seno; insicure su come schierarsi le élite possidenti e l’istituzione municipale. Nella contingenza cruciale della guerra meridionale, il potere militare deve dividersi con la polizia, ingrediente possibile del western ma storia italiana di frontiera e di legge [Caldiron 2004]. Già nel racconto di Bacchelli è definito perfettamente il ruolo chiave del poliziotto mediatore tra Stato e società [Gribaudi 1980], che sarà essenziale nella sconfitta dei briganti. Grazie all’esperta comunicazione del funzionario (borbonico, riconfermato dal governo liberale) con i soliti confidenti, la trama della guerra da western tra briganti e bersaglieri si arricchisce, aprendosi alla società, con la vicenda della moglie di un carbonaio rapita e posseduta dal lussurioso capobrigante; donde i propositi di vendetta del marito. Passato dalla consueta omertà alla cooperazione con i militari, il vigoroso carbonaio offeso nell’onore, già agganciato dal poliziotto, accompagnerà i militari nella tana del brigante per i monti impervi, sino alla battaglia decisiva e alla vittoria dei bersaglieri, con duello finale però all’arma bianca tra i due uomini in conflitto sessuale. La presenza femminile non è da meno, nello spazio che tanto il racconto quanto il film lasciano alla sofferenza di lei: la donna vive il disonore nella persona e nell’immagine a specchio che viene dalla comunità, tra il pericolo del ripudio in quanto violata, e lo straordinario recupero finale del conflitto, allorché, a conclusione del duello vittorioso che reintegra il marito nell’onore, la razionalità e l’umanità permetteranno al maschio di accogliere la persona della sposa[4]. La pace che conclude la guerra tra i due gruppi militari, e in parallelo nella società, viene corononata nel racconto di Bacchelli, e così nel film, da un lungo banchetto di fraternizzazione tra bersaglieri del Nord e paesani del Sud, con balli e canti (tra cui ancora la bella gigogin dei Mille garibaldini), prima che i bersaglieri ripartano e ognuno torni a casa – «il brigantaggio era finito» [Bacchelli 1952, 117].

A quanto pare i giovani e meno giovani critici nel 1952 non perdonarono al film la riconciliazione al suono dell’ocarina, come il modello schiacciante di Ford, che indicavano come Germi «non andò in fondo con la sua diagnosi del Risorgimento come conquista regia» [Kezik 1984]. Lo stesso critico si sarebbe ricreduto sul cinema d’impegno, da cui in quegli anni si pretendevano analisi circostanziate, veementi scelte di campo e perfino l’indicazione delle terapie [Kezik 2002, 9]; avrebbe apprezzato piuttosto il versante di Fellini nel discutere del film: «Non sono belli quei bersaglieri che strisciano come vermi su per la montagna?» [Kezich 2002, 8; Sesti 1997, 116 117]. Dal regista di In nome della legge, su un tema come il grande brigantaggio, nel lungo dopoguerra neorealista ci si aspettava evidentemente una trattazione storica non contaminata dal western ma concentrata sulla perdurante questione meridionale. Oggi possiamo andare oltre la «storiografia della disfatta» già nata nel dopoguerra [Di Rienzo 2011], e distanziare l’impressione di una nazione italiana che non c’è più [Gentile 1997]; dunque non condivido il giudizio che in questo film la partenza dei bersaglieri rappresenti l’irrimediabile distanza Stato/società e il fallimento del Risorgimento [Cavallo 2011]. In una prospettiva più aperta al nuovo che lo Stato nazionale portò alla storia contemporanea dell’intera penisola, è viceversa apprezzabile la misura con cui Germi – nel recepire del resto fedelmente il racconto non oleografico di Bacchelli – usò uno sfondo western per raccontare però con considerevole precisione spaccati realistici delle dinamiche apertesi nella guerra del brigantaggio, che ho già richiamato: la società locale articolata nelle sue strutture classiste e insieme faziose, le prevedibili omertà, le relazioni inter istituzionali tese ma poi capaci di collaborare, la comunicazione anche culturale delle stesse istituzioni con la società. Se In nome della legge era stato costruito lungo le ambivalenze ordine/disordine che sappiamo proprie della mafia (non senza ricadere nell’idealizzazione corsa tra ‘800 e primo ‘900), si può dire che due anni dopo il regista affronti con equilibrio la complessa tematica della storia del brigantaggio, in una prospettiva nazionale equamente divisa tra denuncia problematica e conferma unitaria.

Si può dare del resto per scontato che negli anni ‘50 dominino gli aspetti criminali su quelli legittimisti del brigantaggio (dei quali peraltro oggi rischiamo di ubriacarci, lasciando che un’ideologia eroicizzante sopravanzi le effettive razionalità incerte passate nella mobilitazione antiunitaria) [Manchon 2011]. La rinnovata attenzione storiografica allo State building, che nel Sud si avvia appunto con la repressione del brigantaggio [Manchon 2011; Lupo 2011], porta d’altra parte a non snobbare la storia di onore leso e reintegrato, che il film riceve da un racconto precedente di qualità folclorica/antropologia elevata, a fronte della comunità sessantottina dei briganti di Squitieri. Questa trama nazional popolare che si allunga dunque tra storia politica e culturale con effettivi apporti d’en bas [Manchon 2011] – tra il folclore e il western, ingredienti entrambi riconoscibili nelle sale degli anni ‘50, secondo la regola delle «immagini accettate» teorizzata da Sorlin [Cavallo 2010, 7 10] – racconta il brigantaggio per l’appunto come storia complessa.

La ricchezza del film di Germi si può cogliere infine laddove lo stesso modello western aderisce alla storia effettiva della guerra al brigantaggio come conquista palmo a palmo del territorio meridionale (e perché capaci di questo, i così detti piemontesi saranno progressivamente legittimati dalle popolazioni tendenzialmente legittimiste). Di quanto avviene, e si riscopre avvenuto, sul territorio, la ricerca identitaria contemporanea manifestamente vuole nutrirsi. È bene dunque riproporre – al pubblico eventualmente disposto nel XXI secolo a rivedere con attenzione le fiction sulla controversa storia patria prodotte dal XX sul XIX – sia il territorio scomposto di Squitieri, sia quello ferito ma ordinato di Germi. Nella nuova attenzione della critica cinematografica di fine ‘900 alla produzione lunga e non unitaria di questo cineasta, i bersaglieri della sceneggiatura di Fellini, che si arrampicano come vermi su per le montagne, raccontano un’adeguata memoria storica/geografica di legge e di frontiera: rivisitata bene dalla sensibilità di un regista che nel lungo dopoguerra, volendo girare il Sud, sviluppava «una concezione del mondo come spazio smisurato, selvaggio, doloroso, un’idea di questo Paese come ibrido meraviglioso e straziante di natura e Nazione» [Sesti 1997, 50; Caldiron 2004].

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Note

[1] A cura di chi scrive e di Massimo Cattaneo nel 2010-2011 si è svolta a Napoli la rassegna Visioni e revisioni del Risorgimento. Una rassegna di cinema e storia 1905-2011, presso il Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Napoli Federico II. Se ne richiama qui il dibattito sui film di Germi (introdotto il 24 marzo 2011 da Massimo Cattaneo e Mario Franco) e di Squitieri (31 marzo, introdotto da Vincenzo Esposito e Massimo Cattaneo).

[2] Zitara 1971, Marmo 1973. Il percorso terzomondista di Zitara, che dalla militanza nel PSI/PSIUP lo ha portato poi verso il sudismo neoborbonico, si legge sul web: vedi la pagina (fuori misura) di Wilkipedia che ne ricorda la scomparsa nel 2010, e l’elogio di Briganti! in occasione di una proiezione calabrese del 2004 <http://www.eleaml.org
/index.html>.

[3] Riprendo queste considerazioni dall’intervento di Vincenzo Esposito nella citata rassegna Visioni e revisioni del Risorgimento.

[4] Nel film il reincontro per la pace riprende fedelmente, ma in versione semplificata, la chiusura della novella, dove una magistrale scrittura letteraria svolge il ricco racconto folclorico di un corteo solidale, composto soprattutto da donne, che accompagna la sposa ripudiata dall’ombroso sposo: lo rimbrotta adeguatamente un’anziana mascotte comunitaria (la vecchia preposta a matrimoni e funerali) perché accolga la fedele compagna della sua vita, venuta bianca e delicata dalla città di mare per servire lui, sposo amato, nelle oscure montagne dei carbonari (Bacchelli 1952, 115-117).