Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Luce sul Sessantotto. Introduzione

PDF

Percorsi nella storia del Sessantotto

A ridosso delle pubblicazioni[1] e delle iniziative celebrative del quarantennale del Sessantotto si può constatare, che, almeno per quanto concerne l’Italia, in ambito sia pubblico sia degli “addetti ai lavori” non si sono registrati dibattiti particolarmente accesi o partecipati. A parte alcuni interventi politici, inseriti in una più ampia e complessa strategia, oramai peraltro conclusasi, di riabilitazione di forze politiche a lungo escluse dal cosiddetto “arco costituzionale” – un tema peraltro affrontato con approccio storiografico nel saggio di Loredana Guerrieri in questo stesso dossier –, il tono con cui si sono svolti convegni accademici e incontri pubblici è stato prevalentemente pacato se non addirittura a bassa risonanza, quasi a segnalare un calo di interesse per una stagione, quella cosiddetta “dei movimenti”, che forse si preferisce pensare superata per procedere ad archiviarla nella memoria breve della nostra Repubblica. Quest’ultima impressione può suscitare qualche inquietante interrogativo circa le modalità della società italiana, della sua classe politica così come della sua comunità scientifica, di rapportarsi con il proprio passato recente e di rielaborarne criticamente i lasciti, ma questa è una questione che non ci interessa affrontare ora, poiché ci porterebbe su un altro terreno di riflessione.

Il primo aspetto osservato, il prevalere di un tono sostanzialmente pacato, ci pare invece un indicatore interessante circa una fase di passaggio che sta attraversando la storiografia sul Sessantotto. Un ambito di ricerca che a lungo ha lamentato le difficoltà di ricostruire la storia del Sessantotto a causa del pervicace predominio, per un ventennio almeno, esercitato da una memorialistica marcatamente autoreferenziale, e dell’irrigidimento su un livello eminentemente politico del dibattito incentrato su una vacua diatriba circa le contraddittorie cifre, a seconda dei punti di vista, qualificanti il movimento – antiautoritarismo vs. dogmatismo; pacifismo vs. una pericolosa disposizione alla violenza; volontà di superamento dei modelli “borghesi” di relazioni interpersonali e di genere vs. il prevalere di un “machismo” malamente mascherato ecc. – e la delicata questione delle conseguenze innescate dal Sessantotto.

Il superamento di attitudini nostalgiche o acrimoniose, animate da un desiderio di chiusura di conti o di denuncia, dalla volontà di fare o rivendicare giustizia, in favore di un dibattito meno emotivamente partecipato e di conseguenza maggiormente svincolato da preconcetti e da ipoteche di sorta è stato in parte favorito dal lento ma ineluttabile cambio generazionale che inizia ad avvertirsi soprattutto nella comunità italiana di storici e storiche. Il progressivo allontanarsi del coinvolgimento biografico non ha certamente sottratto alcun merito a chi già negli anni Ottanta ha mostrato di sapere esercitare con il dovuto rigore il mestiere dello “storico del tempo presente”, di saper dunque governare in maniera sovrana i precari equilibri tra memoria soggettiva e processi sociali complessi[2]. Esso ha tuttavia facilitato l’accesso e soprattutto la possibilità di trovare ascolto anche a studiosi biograficamente lontani dal Sessantotto e avvicinatisi a questo oggetto di ricerca esclusivamente attraverso gli strumenti analitici e concettuali messi a disposizione dalle scienze storiche e sociali.

I saggi contenuti in questo dossier – il risultato di un workshop sul Sessantotto in Italia e in Francia tenutosi in due sedute, rispettivamente a Bologna e Nanterre, nell’ottobre 2008[3] – sono in parte indicativi di tale passaggio generazionale in ambito storiografico, un passaggio in cui le animosità reducistiche cedono progressivamente il passo a più autentici interessi conoscitivi, volti ad analizzare, studiare e comprendere ciò che il Sessantotto è stato e cosa esso ha significato nella storia della seconda metà del Novecento. A partire pertanto da quesiti non strumentali l’attenzione si concentra su alcune questioni essenziali e in parte finora solo superficialmente studiate per capire il Sessantotto. Innanzitutto il complicato intreccio tra i diversi momenti che lo hanno connotato, tra cui in particolare quello politico e quello culturale. Il Sessantotto, in Italia come negli altri paesi in cui si è dispiegato, si è formato in un contesto di profonda trasformazione della società (nei paesi industriali avanzati si era nel pieno della Golden Age), dell’università e delle relative funzioni sociali (da luogo di formazione di élite funzionali a centro di produzione “in scala” di quadri intermedi), e, di conseguenza, del ruolo e della definizione sociale della stessa popolazione studentesca, peraltro in costante crescita sin dalla fine degli anni Cinquanta e in balia del campo di tensioni contrastanti che attraversano il mondo accademico. Gli organi di rappresentanza degli studenti, che in Italia usciranno demoliti dal Sessantotto, dimostrano in più contesti di avere profonda consapevolezza delle trasformazioni in corso e di essere intenzionati a non subirle passivamente, a prendervi parte e riorientarle sulla base di una analisi critica della società.

Esemplari in tal senso furono le iniziative degli Students for a Democratic Society (SDS) negli USA sin dall’incontro nazionale di Port Huron nel giugno 1962, o ancora a quelle del Deutscher Sozialistischer Studentenbund (SDS) che nella seconda metà degli anni Sessanta si porrà alla guida del movimento studentesco in Germania Federale, o ancora alle iniziative dell’Unione Goliardica Italiana (UGI), dell’Intesa o dell’Unuri – il cui profilo politico era emerso chiaramente in occasione degli eventi legati alla morte dello studente Paolo Rossi a Roma nell’aprile 1966 – e l’occupazione del Palazzo della Sapienza di Pisa, nel febbraio 1967, da cui sarebbero scaturite le Tesi della Sapienza, un documento di riferimento importante per vasti settori del movimento studentesco in Italia.

La controcultura

Il pensiero e l’azione dei giovani intellettuali e in generale degli studenti più politicamente impegnati non erano avulsi dal complesso contesto sociale in cui prendevano forma; al contrario, vi si collocavano profondamente all’interno e interagivano con le più ampie trasformazioni sociali in corso. Una di queste, tra le più importanti nel tratteggiare il contesto di incrocio tra momento politico e momento culturale in cui avviene la formazione dei movimenti del Sessantotto nelle società industriali avanzate, riguarda l’imponente espansione dei mezzi della comunicazione e della cultura di massa – risale al 1964 l’opera di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, in cui si ritrova un istruttivo bilancio circa le inquietudini suscitate nel mondo intellettuale dall’irruzione della cultura di massa nella cultura “alta”, o “legittima” (per dirla con Bourdieu). Una cultura di massa che, come osserva Gianpaolo Fissore, filtrava valori e trasmetteva messaggi tutt’altro che omogenei o piattamente funzionali a logiche di riproduzione dell’universo culturale attraverso cui classi dirigenti e ceti dominanti esercitavano e legittimavano il proprio potere. Nonostante la cornice relativamente permeabile nei confronti di posizioni esorbitanti dai canoni della cultura dominante, gli spazi disponibili all’espressione della critica sociale risultano tuttavia asfittici, inefficaci o semplicemente insufficienti, deduciamo dal saggio di Silvia Casilio, da chi con tale cultura intende rompere radicalmente. Il bisogno di fare controcultura, di costruire discorsi, orientamenti valoriali, visioni e immaginari, forme e canali di espressione “altri” rispetto all’esistente, emerge come qualcosa di ubiquitario tra i giovani cresciuti nelle società del benessere del secondo dopoguerra. Un benessere di cui si godono tutti i vantaggi – l’accesso ai consumi e l’accresciuta mobilità sociale in primo luogo – senza tuttavia disconoscerne i rischi, le “trappole” che lo accompagnano, i vincoli e i condizionamenti, tra cui l’obbligo, pena l’esclusione dal paradiso, di calarsi in un ruolo grazie a cui integrarsi nella società e la necessità di riconoscersi in modelli predefiniti di configurazione di rapporti interpersonali e di genere. È in tale cornice che si spiega la formazione di piccole ma determinate nicchie di insofferenti all’ordine sociale esistente, tra cui si ricordano gli enragés di Nanterre, i provos di Amsterdam, gli uccelli di Roma o gli Yippies e poi gli Hippies di San Francisco tra i più noti. Nuclei che si dotano di canali comunicativi – e la musica vi gioca un ruolo sorprendente – attraverso cui costruire la propria alterità, e, al contempo, iniziare a scalfire, a graffiare la coltre stantia e soffocante del mondo ereditato, così come si faceva osservare nella dichiarazione di Port Huron.

Un movimento transnazionale

Un altro aspetto centrale per capire la rilevanza storica del Sessantotto verte non tanto sulla sua presunta qualità di evento “mondiale”, ciò che a nostro avviso è una valutazione discutibile oltre che rivelatrice di una certa dose di eurocentrismo recalcitrante, quanto piuttosto sul suo palese carattere transnazionale. Un aspetto questo che può essere spiegato in primo luogo a partire da un’analisi storica dei peculiari processi di circolazione delle idee, delle istanze di trasformazione sociale – a partire da una ridefinizione del ruolo dell’università e del sistema scolastico nel suo complesso – delle aspirazioni, così come delle strutture organizzative e delle forme e strategie di azione su cui il movimento si è qualificato. Un tentativo metodologicamente fondato e innovativo anche per quanto riguarda il contesto affrontato si ritrova nel saggio di Ayşen Uysal, in cui si ripercorrono le direttrici di un discorso che, partito originariamente da Stati Uniti e Francia, trova una non scontata cassa di risonanza nella Repubblica turca, attraverso pratiche di traduzione e rideclinazione di temi e argomenti in grado di rispondere a problemi e questioni avvertiti con particolare sensibilità in alcuni ambienti del mondo intellettuale turco. L’autrice ci offre pertanto un riuscito esempio di ricerca sul campo, che sulla base di una analisi metodologicamente guidata affronta indirettamente anche la questione della simultaneità del movimento, una questione a cui spesso si è data una risposta frettolosa e superficiale ripiegando su una presunta dimensione mondiale del broadcasting.

Accanto al tema della circolazione delle idee del Sessantotto se ne pone inoltre un secondo che riguarda invece la percezione interna al movimento, ossia tra i diversi contesti nazionali in cui si articolava. Una percezione che spesso fu più unilaterale che non reciproca, così come si rileva dalla ricerca di Antonio Benci sull’attrazione esercitata dal maggio francese sul movimento italiano. Il carattere esplosivo del joli mai rivelò un fascino straordinario soprattutto tra quei nuclei studenteschi che nell’ambito del rispettivo contesto nazionale si adoperavano nel tentativo di riuscire ad innescare una dinamica di mobilitazione di massa. È facile ad esempio immaginare la frustrazione degli studenti tedeschi al giungere delle notizie dalla Francia, la mattina dell’11 maggio: mentre a Parigi la cittadinanza, gli studenti, le forze dell’ordine e di governo erano ancora profondamente turbati, storditi, sorpresi, esaltati o indignati, dalla “notte delle barricate” che si era appena consumata, in Germania federale studenti e altri gruppi raccoltisi nella Opposizione extraparlamentare (APO) stavano sobriamente svolgendo la loro iniziativa nazionale (una marcia su Bonn) contro l’approvazione delle leggi di emergenza consapevoli del fallimento annunciato. Quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione imponente, in grado di raccogliere tutte le forze, istituzionali e non, che si opponevano al disegno di legge in questione, si era in effetti tramutata in una iniziativa in parte delegitimizzata a causa del ritiro dell’adesione da parte dei sindacati, un attore sociale di grande rilievo nel definire il profilo politico di una manifestazione pubblica. Così, mentre in Francia con la notte delle barricate si ponevano le premesse per una inedita convergenza di proteste tra gruppi sociali eterogenei che sarebbe culminata nella paralisi della vita quotidiana, in Germania prendeva avvio un processo tendenzialmente inverso, con grande frustrazione per il movimento tedesco.

L’ammirazione e il fascino dell’esplosione francese andò ben oltre i paesi limitrofi per giungere anche dall’altra parte dell’Atlantico: stando alle ricostruzioni di Todd Gitlin[4] gli eventi del maggio ebbero un’influenza non irrilevante sia nello stimolare un dibattito strategico all’interno della SDS, sia nell’imprimere quella radicalizzazione del movimento che si sarebbe consumata in occasione della Convention democratica dell’agosto del 1968. Sul finire del caldo agosto 1968 il filo rosso che, pur se indirettamente, congiungeva il maggio francese alla radicalizzazione delle proteste statunitensi pareva inoltre collegarsi significativamente a un altro centro di snodo della dimensione transnazionale del Sessantotto: mentre a Chicago la polizia reprimeva brutalmente gli studenti che gridando “The whole world is watching” intendevano avvicinarsi all’Hotel Hilton dove erano raccolti i democratici, a Praga l’esercito sovietico reprimeva brutalmente gli studenti che respingevano l’autoritarismo e il burocratismo del modello di socialismo che gli era stato imposto e in questo caso le immagini testimonianti la repressione armata ebbero effettivamente quella risonanza pubblica, suscitatrice di indignazione per i metodi usati, invocata dai manifestanti di Chicago.

Il dispiegarsi della dinamica transnazionale del Sessantotto è dunque un processo complesso e sfaccettato, non riconducibile unicamente agli effetti di accelerazione e potenziamento prodotti dalla circolazione mediatica di scenari di protesta. I media, così come illustra in maniera esemplare la ricerca di Audrey Leblanc, sono in grado di costruire, confezionare e proporre precise chiavi di lettura di un evento. Decisamente più complesso rimane invece il problema della traduzione, della ricezione di un discorso e del conferimento di senso all’azione collettiva da parte dei protagonisti stessi in un contesto di mobilitazione sociale. Lo studio del Sessantotto rappresenta sotto questo profilo un suggestivo oggetto di studio, tutt’altro che esaurito. 

Note

[1] Tra le più recenti pubblicazioni si ricordano Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Laterza, Roma-Bari 2008; Marica Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Carocci, Roma 2008; Diego Giachetti, …, ; 

[2] Il libro di Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988 può essere considerato uno tra i primi tentativi ben riusciti in questo senso.

[3] L’iniziativa è stata organizzata da un piccolo gruppo di ricercatori e studiosi del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna e dell’Institut des Sciences sociales du Politique dell’Université Paris X, tra cui si ricordano Marica Tolomelli, Federica Rossi e Rémi Guillot. Gli atti pubblicati in questo dossier si riferiscono alla giornata svoltasi a Bologna l’11 ottobre 2008.

[4] Todd Gitlin, The sixties. Years of Hope, Days of Rage, Bantam Books, New York 1987.