Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

L’immagine del nemico nel racconto cinematografico americano

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Abstract

The image of the enemy in American movies is closely related to the social, cultural and historical period in which a movie is produced. Common for all movies is the focus on American individualism. It is essential making sure that the individual freedom of man is maintained, and any attack on the everyman is seen as a threat.

E’ certo che i due generi che negli Stati Uniti hanno ospitato più frequentemente l’immagine del nemico sono la fantascienza e la guerra. A questo proposito, però, è necessario anticipare alcune riflessioni di carattere metodologico.

Il dibattito tra cinema e storia è sostenuto da anni sia in ambiti specialistici (docenti e studiosi di storia del cinema), sia da esperti non direttamente coinvolti nel sapere cinematografico. Per alcuni di essi, ad esempio Marc Ferro, il cinema può rappresentare un ottimo fattore di documentazione storica, sia per quanto riguarda l’impronta che ogni film porta della propria epoca, sia per l’importanza che la settima arte ha avuto in funzione propagandistica o come elemento attivo dei processi storici.

Su queste basi, negli anni più recenti, si è avuta una proliferazione di studi accademici dedicati agli aspetti più intriganti della cultura popolare e del cinema di massa. Sulla scorta degli studi di Roland Barthes, di Michel Foucault, del post-strutturalismo, gli studiosi statunitensi hanno piegato alle proprie esigenze le novità teoriche provenienti dal vecchio continente, trasformando testi di tradizione differente in una nuova episteme del sapere, non senza gravi fraintendimenti. Detto questo, però, bisogna ammettere che lo studio del cinema classico, del cinema di genere (horror, fantastico, noir), dei prodotti popolari come “vetrina” espositiva del momento storico che rappresentano, ha prodotto risultati interessanti. E se le università americane non hanno saputo resistere, in cinema come in letteratura, ad alcune forzature ideologiche pur di abbattere i tanto odiati canoni della storiografia ufficiale, è toccato nuovamente all’Europa – ora finalmente anche in Italia – irrobustire l’approccio agli studi culturali e popolari, spingendo l’analisi cinematografica oltre gli steccati più noti.

Territorio privilegiato per tale lavoro è senza dubbio il cinema fantastico. In esso convivono aspetti multidisciplinari, quali la storia della tecnologia applicata al cinema, la rappresentazione della tecnica e del progresso, lo sviluppo finzionale della scienza e della sua epistemologia, il legame tra letteratura e cinema di genere, via via fino al fertile rapporto che questo cinema intrattiene con i momenti storici in cui è prodotto. Uno degli aspetti più intriganti del fantastico, ovvero la figura dell’alieno, offre spunti numerosissimi. L’alieno, acquisizione abbastanza recente della fantascienza – la potremmo datare all’inizio degli anni Cinquanta – è un prodotto culturale tipico del dopoguerra statunitense. Proprio il cinema hollywoodiano, infatti, si presta all’indagine più approfondita: i tratti industriali e seriali della sua produzione permettono di recuperare il “visibile” di un’epoca e le tracce del tanto declamato immaginario di una civiltà.

L’alieno viene presto a raffigurare le peggiori fobie della nazione statunitense all’uscita da una guerra peraltro vinta con successo. Eppure, anche se l’economia si rafforza e si dà vita all’egemonia politica che spiega le sue ali fino ai giorni nostri, qualche cosa all’interno del sistema scricchiola: ne è vittima proprio il cinema, fiaccato da una battaglia anti-trust che limita lo strapotere delle grandi case di produzione e incredulo di fronte all’ìndebolimento dei generi classici (western, noir, musical). Hollywood reagisce con due grandi progetti: la nobilitazione dei generi classici, grazie alla quale gli stessi western e musical diventano sfavillanti spettacoli in technicolor e panavision; e la produzione di film destinati ad un pubblico adolescente, pronto a diventare il target preminente grazie al boom demografico dell’immediato dopoguerra. Nascono così i drive-in, i circuiti minori e indipendenti, i film di mezzanotte e i cult movies. Nascono soprattutto, i nuovi mostri dell’horror – dopo la grande emergenza all’epoca del muto e dei primi anni Trenta -, e della fantascienza. Se l’orrore tende alla sublimazione catartica dei traumi bellici – il sangue ridiventa finzione, la morte è reversibile, lo smembramento è più ludico che terrifico -, il fantastico degli alieni incarna invece le nuove ossessioni americane.

Da una parte, quindi, si presenta evidente lo spauracchio di Hiroshima e Nagasaki, seguito dalla corsa agli armamenti e dalla sproporzionata potenza dell’energia nucleare. Il cinema di fantascienza si affolla di scienziati pazzi costretti dalla propria sete di conoscenza a surreali metamorfosi: in L’esperimento del Dr. K  di Kurt Neumann, 1958, uno di essi incrocia il proprio DNA con quello di una mosca, dando vita a un essere ibrido e repellente – celebre anche il remake di David Cronenberg del 1986, intitolato semplicemente La mosca; in L’uomo dagli occhi a raggi X di Corman, datato ’63, lo scienziato fa da cavia a un nuovo preparato in grado di fargli trapassare la materia con lo sguardo. In tutti i casi, lo studioso pecca di hybris, e paga a caro prezzo la volontà di sfidare le leggi naturali. Sono proprio queste istanze, infatti, insieme alla sensazione di aver compromesso un ordine universale immutabile, a turbare il cittadino americano, posto di anno in anno di fronte ai passi da gigante della scienza. Come giustamente afferma Franco La Polla: 

nella fantascienza, la scienza genera i propri anticorpi e li oppone alla fonte della sua celebrazione e del suo esercizio, interrompendo – a volte in modo drammatico, a volte occasionalmente- l’evoluzione, lo sviluppo e in ultima analisi la concezione ottimistica e storicistica che la vuole protesa verso una meta tanto alta e nobile quanto indistinta. 

In Radiazione B/X di Jack Arnold, 1957, il protagonista si trova involontariamente esposto a pericolose radiazioni e rimpicciolisce fino a non essere più riconosciuto; in I giganti invadono la Terra, accade esattamente il contrario; e in  Assalto alla Terra, opera del 1954 di Bert I. Gordon, le solite agghiaccianti radiazioni inducono una mutazione genetica negli insetti, finendo col creare una specie di formiche gigantesche che attaccano l’uomo. Fino a qui il pericolo, sia pure fantastico, proviene dall’uomo e dai suoi disastri. Lo spazio profondo, invece, promette ben altre paure. L’alieno, nel suo senso etimologico di “altro” – tanto che in lingua inglese la parola alien sta a significare “immigrato” più o meno clandestino, allotropia su cui molto gioca il recente Men in Black), rappresenta per estensione il terrore da invasione tipico degli statunitensi. Negli anni Cinquanta nascono le dicerie più straordinarie, capaci però di colpire l’immaginario profondo di un paese: la guerra fredda, che adombra persino il pericolo di un’invasione sovietica, le tensioni con il blocco orientale e in particolare con la Cina, le crisi identitarie di una comunità che non si riconosce più come una volta – molti studiosi individuano nella fine degli anni Cinquanta i prodromi della protesta studentesca del decennio successivo -, non danno vita solo a film di spionaggio o alla propaganda esplicita del governo Eisenhower, ma innervano anche il cinema degli alieni. 

Il film più amato e studiato del periodo è, come noto, L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, 1956, su cui ancora oggi si dibatte polemicamente: la storia di alieni vegetali che “copiano” l’uomo e lo sostituiscono con sosia decerebrati all’interno della società rappresenta una metafora dei pericoli del comunismo (omologazione, appiattimento, dittatura), o piuttosto è un grido d’allarme nei confronti della disumanizzazione del modello capitalista? Non si dimentichi, tra l’altro, che il film usciva in piena epoca maccartista: la prassi con cui gli alieni del film scovano e denunciano gli infiltrati umani ricorda fin troppo da vicino i dolorosi processi in cui registi e sceneggiatori denunciavano i propri colleghi in cambio dell’impunità. Più semplici le cose di fronte a prodotti minori ma gustosi del calibro di La Terra contro i dischi volanti, del 1958, in cui visitatori ostili devastano i simboli della democrazia americana, come la Casa Bianca – prefigurando così Independence Day - o la Statua della Libertà; o ancora il ben più celebre La cosa da un altro mondo, diretto da Christian Nyby e Howard Hawks nel ’51, e rifatto da Carpenter nell’82: qui un essere metamorfico va ad abitare i corpi dei protagonisti massacrandoli uno ad uno.

In tutti questi casi, si organizza prontamente una risposta da parte del potere costituito. Secondo modelli di coordinamento delle competenze tipici della società statunitense, il classico gruppo dei “buoni” è costituito da: un militare di professione di bell’aspetto e sprezzante del pericolo; uno scienziato progressista, che piega il proprio sapere alle esigenze della nazione, non di rado con punte di vera e propria genialità; una donna dolce e desiderabile, destinata all’amore del giovane eroe di turno. Proprio nei personaggi femminili, del resto, si nasconde la cultura di un’epoca. Nel film di Fred Wilcox, Il pianeta proibito, 1956, l’attacco della specie aliena è in realtà la manifestazione della rabbia inconscia del protagonista; in questo caso, i baldi astronauti terrestri che giungono sul pianeta del titolo sono vestiti con i colori squillanti delle pubblicità d’epoca e portano pettinature degne della compagnia dei boy scout. Ancora meglio, come dicevamo, le donne: bionde, prosperose, eppur virginali, e soprattutto “sane”, ovvero cresciute secondo uno schema di benessere psicofisico tipico della propaganda eisenhoweriana, di cui Il pianeta proibito potrebbe costituire un documentatissimo esempio.

Ma non sono solo gli anni Cinquanta a funzionare in questo modo. Anzi, da questo momento in poi, la figura dell’alieno pare di volta in volta esprimere uno stato d’animo più o meno involontario della società o della cultura americana, anche se vanno sottolineati i pericoli cui va incontro chi questi film analizza: dietro l’angolo c’è sempre il rischio di un vizio di metodo, quello di caricare arbitrariamente ogni pellicola di un valore esoterico o simbolico, finendo con l’appiattire tutte le opere su uno stesso asse sintomatico. Comunque sia, l’urgenza di certi racconti affonda spesso le radici nei momenti di confusione o choc comunicativo. Pensiamo ad esempio al Vietnam, dapprima vissuto solo attraverso la televisione e i giornali, quindi, dopo il 1975, rielaborato in forma psicanalitica dal cinema di Coppola, Cimino, Kubrick. Non di meno, si potrebbe leggere un’opera come Aliens di James Cameron (1986) come un war movie, nel quale al posto dei vietcong troviamo orrendi granchi che si muovono sul proprio territorio attraverso giungle, cunicoli, passaggi segreti e producono una mortifera guerriglia in grado di annientare l’esercito americano. Lo stesso vale per alcuni remake contemporanei: non è un caso che L’invasione degli ultracorpi venga per ben due volte riproposto sul grande schermo. La prima volta nel 1979 – Terrore dallo spazio profondo di Philip Kaufman – la metropoli “sostituita” diventa facile omologo della città violenta e invivibile del dopo-Vietnam, con il boom della criminalità di strada. Il secondo film, del 1993 – Ultracorpi di Abel Ferrara -, ambientato interamente in una cittadella militare, propone un’esplicita riflessione antiistituzionale, gravida di umori controculturali e ribellistici: l’ultracorpo è l’esercito, fautore di un mondo spersonalizzato e verticistico.

Certo, la preoccupazione di tutti questi film è quella di salvaguardare i caratteri di libertà individuale dell’uomo. L’individualismo della società americana è il peggiore nemico di ogni omologazione, almeno apparentemente. Ogni attacco all’ everyman è quindi fonte di terrore e preoccupazione, cosa che il cinema di genere intuisce e fa sua in innumerevoli casi. Ecco perché, più che la macroscopica minaccia del comunismo, è più giusto parlare di fobia dell’identità: fobia, questa, che si dà come categoria principale per tutta la storia del cinema degli alieni. Pensiamo, infatti, all’epoca dei nuovi effetti speciali: da La cosa a Alien, fino allo splatter contemporaneo, ciò che terrorizza è la metamorfosi, la perdita di sé, la vertigine dello spossessamento.

Non mancano, in ogni caso, film che propongono visioni più pacificate del rapporto tra civiltà lontane. Di fronte al filone del conflitto perenne (che riprende quota in questi anni con Independence Day e il semiserio Starship Troopers), si schierano gli ottimisti del cinema politico, già in tempi non sospetti. E’ del 1951, per esempio, Ultimatum alla Terra, mirabile opera di Robert Wise, nella quale un alieno giunto sul nostro pianeta allo scopo di avvertirci dei pericoli causati dalla proliferazione delle armi di distruzione, viene prima ferito poi inseguito come un animale. In seguito, negli anni Settanta, sarà Steven Spielberg a ricordarsi dell’originalità del messaggio pacifista nel cinema fantascientifico, ed ecco che con Incontri ravvicinati del terzo tipo, datato 1977, il rapporto con gli alieni si carica di ulteriori elementi simbolici, mistico-allegorici, angelici. Con E.T., 1982, Spielberg completa l’opera, conducendo di pari passo una vera e propria “infantilizzazione” degli spettatori americani e un inno alla provincia americana, detentrice della ricetta democratica e cooperativa. Anche se molti hanno notato che il potere costituito e la scienza sono responsabili di ben magre figure nei due film, ciò sembra più che altro avere a che fare con un atteggiamento generale dell’epoca contemporanea. Se ragioniamo sul cinema fantastico e sul cinema degli alieni degli anni Novanta, infatti, notiamo prima di tutto un radicamento delle teorie ufologiche, delle stramberie controstoriche, delle credenze irrazionali. Anche in Italia, del resto, si stanno affermando riviste e pubblicazioni (“UFO”, “Dossier Alieni”) dove, come succede negli Usa da anni, si sostiene l’esistenza degli extraterrestri e se ne fa persino un problema politico, di volta in volta attaccando i governi in carica in quanto poco sensibili all’argomento. La vastità e la confusione delle pratiche religiose e culturali – in cui confluiscono new age, libelli insurrezionali, sette sataniche, neopagane, separatiste, culti massonici e misterici – fanno sì che il fatto storico, in pieno atteggiamento postmoderno, non sia più verificabile in modo oggettivo o condiviso. In poche parole, tra le sacrosante battaglie democratiche di un Oliver Stone – JFK o Salvador – e i nazi-alieni di X-Files non c’è tanta differenza. Entrambi rispondono a un atteggiamento di diffusa sfiducia verso le autorità e i mass media, propensione che sfocia in un ridimensionamento delle storie ufficiali, specie negli Stati Uniti, dove ogni minoranza etnica desidera – legittimamente - riscrivere i manuali. Basti pensare alla rilevanza straordinaria che un documentario palesemente falso e ridicolo come quello dell’autopsia dell’alieno di Roswell ha assunto in ambenti dell’informazione di solito seri e attendibili.

Il secolo degli alieni, dunque, si è chiuso con un cinema che si fa superare dalle attrattive di una realtà manipolata e che, per questo, intraprende due strade: la prima è quella della nostalgia per gli anni Cinquanta che furono – Mars Attacks!, Men in Black, etc. -, dove si cerca di recuperare l’innocenza perduta attraverso la mimesi di quegli scalcagnati metodi produttivi, quello stesso stupore infantile dell’epoca del secondo dopoguerra; l’altra è quella dell’accumulo onnicomprensivo alla X-Files, contenitore confuso ma affascinante di tutto ciò che risulta irrazionale agli occhi dello spettatore. Attraverso il cinema degli alieni, insomma, anche oggi si può ragionare su dati politici o ideologici, primo fra tutti il crollo dei grandi racconti, ovvero l’eclisse del credo moderno verso un’evoluzione diretta e lineare della storia civile.

Per il cinema di guerra, le cose sono un po’ differenti. L’immagine del nemico segue tutto sommato con una certa prevedibilità quel che l’opinione pubblica – o meglio il punto di incontro tra esigenze propagandistiche di stampo democratico e opinione pubblica orientata – pensa. Bisogna ricordare il cinema di guerra “durante” il secondo conflitto mondiale (rinuncio qui alla complicata disamina della I guerra mondiale al cinema, per cui esiste un completissimo studio di Giaime Alonge), impegnato in una ricollocazione patriottica e interventista del pubblico americano, di solito isolazionista. (esempio filmato...) Poi il più complesso cinema di guerra degli anni ’50, dove una minima revisione comincia a farsi strada, almeno quanto a rappresentazione dell’Altro (il tedesco diventa più che altro un disperato mandato allo sbaraglio dalla follia dei capi, e il coreano o il giapponese si fanno carico della metafora bestiale), fino alla scomparsa del war film negli anni Sessanta. Il Vietnam, secondo un’interpretazione largamente nota, esaurisce per un certo periodo la fame di immagini poiché invade lo spazio domestico – tv, radio, etc. – e il cinema su questo conflitto si dispiega a partire dalla fine del conflitto, come dimostrano le due ondate, la prima della fine degli anni ’70 (Il cacciatore, Apocalypse Now, Tornando a casa...), la seconda negli anni Ottanta, come forma di opposizione alla riabilitazione reaganiana (Platoon, Haburger Hill, Full metal Jacket). Il nemico qui è interno, addirittura secondo Stone c’è la proiezione di una guerra civile silenziosa che dagli Stati Uniti si proietta in Vietnam.  Solo oggi, un film come We Were Soldiers con Mel Gibson ha potuto rileggere il Vietnam come storia eroica senza che si scatenassero soverchie polemiche. Segno che l’interesse su quel conflitto è ormai svanito.

Al contrario, negli ultimi anni si è tornati a parlare di Seconda Guerra Mondiale. Film come Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa impongono la riflessione della generazione Vietnam su argomenti scomodi come il rapporto coi padri. IN senso democratico e clontoniano, Spielberg legge dunque l’intervento americano come ultima guerra giusta possibile e riesuma in tal senso l’immagine del tedesco sadico e ghignante, ritratto senza alcuna umanità. L’iconografia scelta è quella dell’elmetto abbassato fino al naso, a occludere gli occhi alla vista dello spettatore, e di denti aguzzi, bianchissimi, come assetati di sangue, rimando simbolico evidente alla ferinità del nemico.

Si tratta, perciò, di un confronto generazionale tra i figli (che contestavano i padri) e la memoria dei padri, tornata di moda. Ciò significa anche rispetto del nemico dei padri e rispetto per il cinema dei padri, come dimostra l’amore per i generi classici della vecchia Hollywood sempre espresso da Spielberg.

Al contrario Malick imposta una riflessione in cui il nemico dell’uomo è l’uomo stesso, inteso come ospite indesiderato in una terra incontaminata che – con la guerra o il progresso – tende a brutalizzare.

Si conferma perciò che l’immagine del nemico, nel cinema americano, è strettamente correlata ai momenti storici (sociali e culturali) in cui ogni filone o singolo film prende vita, e declinata dai singoli registi in stretto contatto con la temperie narrativa e figurativa del periodo previsto.

TESTI:

Di Marc Ferro citiamo Cinema e storia. Linee per una ricerca, Feltrinelli, Milano 1980; tra i lavori più interessanti sul cinema fantastico in America bisogna ricordare almeno Vivan Sobchack e il suo Screening Space – The American Science Fiction Film, New Brunswick-New Jersey-London, 1999; traiamo la citazione di La Polla dal suo limpido saggio La fantascienza, in Storia del cinema mondiale. II. Gli Stati Uniti, a cura di G.P. Brunetta, Einaudi, Torino 2000, pp. 1519-1534; per un riassunto della storia del genere, si rimanda a R. Menarini, Fantascienza, Enciclopedia del cinema, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2002; sugli alieni, ancora R. Menarini, Il cinema degli alieni, Falsopiano, Alessandria 1999; sulle questioni postmoderne, facciamo riferimento – nella messe di titoli possibili – a F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. Su cinema e guerra, almeno Alonge, Menarini, Moretti, Il cinema di guerra americano 1968-1999, Le Mani, Genova 1999 e G. Alonge, Cinema e guerra, Utet, Torino 2001.