Storicamente. Laboratorio di storia

Fonti e documenti

Cantacronache 1958-1962. Politica e protesta in musica

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Abstract
At the end of the 50s the italian band from Turin, named Cantacronache, created social and political songs, so contributing to the birth of a new musical genre in Italy. The founders Michele Luciano Straniero, Sergio Liberovici, Emilio Jona, Fausto Amodei, Margherita Galante Garrone, were joined from the collaboration of writers and poets like Mario Pogliotti, Franco Fortini, Italo Calvino, Umberto Eco, Gianni Rodari. The name of the group reveals its vocation: telling reality, writing songs about news facts in order to give them back to collective memory. Among the covered themes: italian news, Resistence, the research of social and political songs of the past or the recovery of the popular music heritage.

Cantacronache: sintesi del percorso artistico
e breve ritratto dei protagonisti

Cantare fatti di cronaca era l’intenzione che mosse un gruppo di musicisti, poeti letterati della Torino di fine anni Cinquanta, attivo dal 1958 al 1962. Michele Luciano Straniero, Sergio Liberovici, Emilio Jona, Fausto Amodei, Margherita Galante Garrone (Margot) tra i protagonisti, a cui si aggiunsero, con le loro collaborazioni, scrittori e poeti come Mario Pogliotti, Franco Fortini, Italo Calvino, Umberto Eco e Gianni Rodari. Giovani che raccontavano il Paese da una prospettiva critica e anticonformista, denunciando, protestando e riconsegnando alla memoria collettiva fatti e momenti di storia sociale e politica. Disegnavano un’immagine alternativa a quella di un’Italia smagliante e spensierata proposta, per esempio, dalla canzone leggera in voga in quegli anni di pieno “miracolo economico”. È nel recente documentario Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica [= Bentini et al. 2011], che emerge il racconto inedito del contesto culturale, politico e sociale dell’Italia di fine anni Cinquanta, ricostruito attraverso le canzoni e le biografie degli autori torinesi.

I Cantacronache erano fatti così: braccia e menti. Fra le menti c’erano Emilio Jona [...], Michele, che era anche un braccio, Amodei, una mente e anche un braccio, Margot, la moglie di Liberovici una mente e un braccio [...]. Liberovici mi aveva colpito subito perché scriveva già musica per orchestra[1].

Copertina della rivista «Cantacronache».
Copertina della rivista «Cantacronache».

A Sergio Liberovici, infatti, si deve l’ideazione del progetto, e poco dopo lo seguirono Michele Luciano Straniero (che come Liberovici collaborava alla redazione torinese de «L’Unità»)[2], Fausto Amodei, Emilio Jona, i principali fondatori del gruppo. Sono intellettuali, persone di cultura[3], studiosi oltre che artisti. Tutti praticavano altre professioni (Fausto Amodei architetto, Emilio Jona avvocato, Michele L. Straniero giornalista), mentre Sergio Liberovici era musicista colto e raffinato, inserito nel mondo della musica professionale[4].

L’ispirazione a creare il Cantacronache venne a Liberovici dopo un viaggio nella Germania dell’Est. Qui entrò in contatto col Berliner Ensemble di Brecht che gli offrì lo spunto di provare a scrivere canzoni «di valore critico-contingente», canzoni cioè che facessero da specchio alla realtà presente e che avessero una funzione di critica al sistema politico sociale e culturale, che fossero, insomma, «un vero e proprio strumento di denuncia sociale» [Peroni 2005, 44].

Michele L. Straniero sposò da subito la causa dell’impegno: «Delle canzonette leggere in sé e per sé non ce ne importava molto: il nostro interesse non era mercantile, ma precisamente sociologico e ideologico, e decisamente contenutistico» [Straniero, Barletta 2003, 17].

Poi, in breve tempo, dai fondatori il gruppo si allargò avvalendosi di interpreti come Piero Buttarelli, Margherita Galante Garrone (Margot), Silverio Pisu, Mario Pogliotti, Edmonda Aldini, Glauco Mauri, Franca di Rienzo e della collaborazione di poeti e intellettuali come Italo Calvino, Franco Fortini, Umberto Eco, Gianni Rodari, Giorgio De Maria. Un coinvolgimento che mostra quanto fosse importante per il collettivo «il richiamo alla collaborazione tra mondo della cultura e mondo della canzone che in quegli anni unisce in Francia personaggi come Sartre e Prévert alla generazione degli chansonniers» [Pivato 2005, 207].

«Straniero e Liberovici», infatti, dice Amodei, in quel momento «pensarono che valesse la pena creare un repertorio italiano che potesse stare alla pari con il repertorio degli chansonniers francesi, di un Brassens, Ferré, o col repertorio tedesco di Weill, Eisler, Brecht»[5]. Questi, dunque, i modelli cui il gruppo si ispirava: «il song tedesco da cabaret entre-deux-guerres e la canzone poetica impegnata francese» [Rolf-Ulrich 1971, 276].

Dal principio, dall’autunno del 1957 ai primi mesi dell’anno successivo, il nuovo “collettivo” si esibiva nei salotti buoni della borghesia torinese, da quello di Giulio Einaudi a quelli di Carlo Galante Garrone, di Luciano Foà, Elsa de’ Giorgi.

Successivamente fu sempre Liberovici a trovare, dopo i tentativi andati a vuoto con i grandi nomi dell’editoria, un editore musicale, Italia Canta, che si occupava di organizzare concerti prevalentemente ai festival dell’Unità. Italia Canta, molto vicina al Partito Comunista, cominciò a promuovere le loro esibizioni in determinati contesti: convegni, manifestazioni di partito, circoli. Ambiti in cui le canzoni dei Cantacronache trovarono da subito interesse.

Copertina del disco Cantacronache 1.
Copertina del disco Cantacronache 1.

Un pubblico di intellettuali, ma anche un pubblico popolare: «All’inizio – chiarisce Amodei – le esibizioni le facevamo nei salotti bene di sinistra di Torino, ci avevano mandato addirittura a Roma per uno spettacolo. Poi prendemmo l’indirizzo di andare a cantare ai festival dell’Unità o nelle case del popolo»[6]. «Mi ricordo – dice Jona – al Parco Lambro di Milano, di aver conosciuto Togliatti nel ’59 o ’60. Prima che lui parlasse noi cantavamo le nostre canzoni»[7].

Il 1° maggio 1958 avvenne la prima esibizione pubblica, come partecipazione al corteo della CGIL a Torino. Le canzoni di Cantacronache Dove vola l’avvoltoio?, La gelida manina e Viva la pace vennero suonate dagli altoparlanti di un grammofono collocato sul camion dei sindacati che sfilava durante la manifestazione organizzata in occasione della chiusura della campagna elettorale, mentre il testo venne distribuito ai manifestanti.

Copertina del disco Cantacronache 4.
Copertina del disco Cantacronache 4.

Il 3 maggio 1958 si tenne un concerto all’Unione culturale di Torino. La serata si intitolava 13 canzoni 13 e venne articolata in canzoni suonate da Liberovici al piano, Amodei alla chitarra, mentre le voci erano quelle di Straniero, Liberovici e Amodei. Ogni canzone era accompagnata da un disegno, realistico-espressionistico, in bianco e nero, visibilmente influenzato dallo stile popolaresco del Tallér de Gràfica Popular de Mexico, composto dai pittori e grafici collaboratori del gruppo, Lucio Cabutti, Giorgio Colombo e Lionello Gennero. L’idea era di creare una forma di arte totale in cui la musica si compenetrasse alle immagini in maniera originale e creasse una forte suggestione durante le esibizioni.

Nell’estate 1958 uscì il primo disco, Cantacronache sperimentale, con quattro canzoni insieme alla rivista «Cantacronache», contenente i testi delle canzoni, saggi e articoli. Seguirono concerti e conferenze in teatri, cinematografi, circoli culturali, sezioni di partito, sedi sindacali, accompagnati dalla diffusione della rivista «Cantacronache».

Tra il ’58 e il ’62 furono prodotti otto dischi Cantacronache, tre Cantafavole destinate ai bambini, su testi di Calvino, Fortini, Rodari, Jona; due Manifesti di poesia, con le voci di Vladimir Majakovskij e Nazim Hikmet; due di Cronaca: Firenze 1944 e No al fascismo; tre dischi di Canti di protesta del popolo italiano, un disco di canzoni ungheresi dell’Ottocento ispirate a Garibaldi (Viva Garibaldi), una serie sui canti della rivoluzione messicana e sui movimenti di liberazione a Cuba, in Angola e in Algeria, sulla guerra di Spagna e sulla resistenza al franchismo, ma anche sulla resistenza congolese e su quella europea. Perfino un disco sulla storia dell’URSS attraverso le canzoni [Deregibus 2010, 88].

Tra gli ultimi concerti ne fu organizzato uno da «Paese Sera» a Roma, al Teatro dei Satiri di Trastevere, dove il collettivo al completo eseguì il repertorio delle 13 canzoni. Il quell’occasione in prima fila vi era «il fior fiore dell’intellighentsjia romana di sinistra, con la centro Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini, Laura Betti, Enzo Siciliano» [Jona e Straniero 1995, 74].

1958-1962: piccola storia della canzone italiana. Canzonetta vs canzone d’autore: “evadere dall’evasione”

Collocare il Cantacronache nell’arco della storia della canzone italiana non è semplice: inziatori del genere d’autore quindi innovatori del sistema musicale, oppure semplicemente contestatori estranei al mercato discografico e per questo esperienza fallimentare?

Se ci affidassimo solamente ai manifesti poetici degli autori, primo fra tutti il saggio Le canzoni della cattiva coscienza [De Maria 1964], saremmo indotti a pensare al Cantacronache come un fenomeno quasi esclusivamente intellettuale che poco ha lasciato in eredità al mondo della musica, nato dall’idea di contestare il presente (quei primi anni Sessanta) visto come un ripetersi del passato, quando azioni repressive di stampo fascista miravano a degradare il sistema culturale e musicale assicurando a chi le esercitava l’effetto “distrazione del popolo” e il totale disinteresse di larghe masse verso la realtà, la lotta politica in corso, le problematiche sociali. Abbondavano, allora, canzoni i cui testi erano un invito a distrarsi, a non prendersela se qualcosa non andava. Questo “canta che ti passa” altro non era che la negazione dei problemi, la loro destoricizzazione. Il saggio, che prendeva in esame le ragioni storiche e strutturali del malcostume musicale italiano, guardava alla storia lontana per riflettere sulla realtà contingente. Gli autori, per esempio, intravedevano nel Festival di San Remo, inaugurato nel 1951, la sede di un ben attrezzato centro di diffusione di nuovi prodotti di fattura mediocre, «le canzoni da fischiettare in bagno per il resto dell’anno» [Innocenti 1995, 191], che rimbalzavano dalle radio prima, e dagli schermi televisivi poi, nelle case degli italiani. Ancora lo stesso meccanismo, la canzone si faceva evento e il Festival, in poche edizioni la più importante manifestazione canora nazionale, si trasformava nella «telenovela più lunga e prevedibile del mondo. Sempre nuova e sempre uguale a se stessa» [Innocenti 1995, 191].

Una telenovela, cioè un racconto romanzato della realtà in cui gli interpreti, come grandi attori, recitavano ruoli stereotipati, vendevano sogni a basso costo agli italiani che diventavano pubblico, massa. Un mondo a parte, quello della canzone, distante dal cinema o dalla letteratura che in quegli anni si misuravano con la poetica neorealista che disegnava, invece, il ritratto di un’Italia povera, senza lavoro e che ancora risentiva degli strascichi della guerra.

Ma fu la canzonetta a guadagnarsi il favore popolare e in virtù di questo a conquistare il successo, la sopravvivenza del genere e del Festival a lei dedicato che tutto raccontava, tranne la realtà.

C’è un celebre racconto di Umberto Eco, su Diario Minimo» spiega Jona «che racconta di un mondo futuro dove non ci sia nulla se non i libri di canzoni di San Remo. E uno storico del tempo cerca di ricostruire la realtà attraverso questo mondo immaginario, che non è reale, è fasullo.[8]

Ecco il progetto dei giovani torinesi: rinnovare la canzone attraverso l’impegno e lo sguardo alla realtà quotidiana. Le parole di Jona lo delineano chiaramente:

Ciò che ci proponiamo, al di là della polemica o della rottura, è di “evadere dall’evasione”, ritornando a cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terrena e quotidiana, con le sue vicende sentimentali (serie, più che sdolcinate, comuni più che straordinarie), con le sue lotte, le aspirazioni che la guidano e le ingiustizie che la opprimono, con le cose insomma che la aiutano a vivere o a morire. [Jona 1958, 5]

Bastano queste considerazioni a intuire quanto la posta in gioco fosse alta: non erano solo canzoni ciò di cui si parlava, ma un modo di guardare al reale e di parteciparvi attivamente, una diversa visione politica e sociale dell’Italia, che molto aveva a che fare con l’idea di contestazione, di rottura e protesta nei confronti di un sistema mal sopportato e dai principi non condivisi. Una dichiarazione di guerra a un mondo sentito come superficiale, evasivo.

Per questo tra gli aspetti che meritano di essere messi in luce dell’esperienza Cantacronache vi è proprio questa novità: la svolta culturale di cui il gruppo fu protagonista, e la contrapposizione maturata tra “canzonetta” (bene di consumo nella nascente cultura di massa: «oggetto d’uso» [Eco 1965, 313] se non prodotto «gastronomico»[9]) e canzone d’impegno (canzone d’autore). A quest’ultima i giovani torinesi riservano una nuova funzione: esprimere un contenuto di realtà.

Sia Stefano Pivato [2005] che Gianni Borgna [1985; 1980; 1998] convergono nell’assegnare al movimento torinese un ruolo da contraltare rispetto al contesto musicale di quel fine anni Cinquanta, ne sottolineano la diversità mettendo in relazione i temi e la resa musicale delle loro canzoni con ciò che li circondava, inquadrandoli come fenomeno di novità rispetto alla produzione mediocre della canzone leggera diventata business col festival sanremese. Una canzone, quest’ultima, slegata dal reale e incentrata sul racconto di un’Italia ancora prevalentemente arcaica i cui miti fondatori si rifacevano per lo più alla triade Dio-Patria-Famiglia di antica memoria. Retorica, lacrime e sangue, narcisismo maschile, esaltazione della donna-madre e patriottismo: questi gli ingredienti che la canzone leggera mescolava, condiva e dava in pasto a un pubblico sempre più vasto, che dalla radio passava alla televisione desideroso di conquistare nuovi spazi di evasione e di guadagnarsi il meritato svago in questi anni di boom economico.

Secondo Pivato queste canzoni funzionavano come mezzi «sia per allontanare e dimenticare i problemi quotidiani, sia per diffondere sentimenti di tranquillità e di rassicurazione» [Pivato 2005, 206]. Erano il segnale di una dimenticanza diffusa che conduceva a ignorare la cronaca e la realtà e che trovava il contenitore privilegiato proprio nell’Ariston di San Remo, il «palcoscenico della smemoratezza italiana» [Pivato 2005, 205].

Certo il contesto musicale a partire da quel 1958 era un caleidoscopio in continua trasformazione: ritmi e generi si rinnovavano velocemente, assecondando le esigenze della nascente industria discografica [De Luigi 1982], nuovi artisti incarnavano il gusto del pubblico giovanile, il «consumatore potenziale di nuove e insospettate disponibilità economiche» [Jona e Straniero 1995, 17]. Gli adolescenti determinavano il mercato preferendo spesso generi musicali provenienti dall’America, nuova «Terra promessa» [Castaldo 1994]: il rock’n’roll impazzava nelle sale da gioco, nei bar, nei night, suonato dalle casse dei juke-box. Era una musica che parlava il linguaggio della collera e del disprezzo per gli adulti, le loro ipocrisie, il potere, le regole, e celebrava il mito dell’eterno giovane[10].

In Italia la cantavano gli urlatori che avevano voci squillanti, scatenate e gridavano rabbia, o vitalità, o disperazione, a pieni polmoni. Alcuni di loro li ritroveremo al Festival di San Remo, divi della rinnovata scena musicale italiana. Con loro la manifestazione canora sembrerà promuovere nelle case degli italiani il nuovo che avanza, nella libertà dei costumi, nell’intraprendenza, nella danza sfrenata del corpo.

Gli urlatori, con il loro esibizionismo sessuale, con il loro vitalismo, con il loro ostentato anticonformismo, erano lo specchio fedele di un paese che, gradualmente ma rapidamente, usciva dagli orizzonti angusti del provincialismo e del ruralismo. Di un’Italia che aspirava più di ogni altra cosa ai comfort, al benessere, alle evasioni della società opulenta e i cui modello era l’America. [Borgna 1998, 83]

Cantacronache, invece, era la canzone “diversa”. Fuori dai circuiti commerciali, controcorrente, priva del seguito del pubblico dei giovani, i nuovi consumatori musicali. Decisamente fuori moda. Critico nei confronti del sistema musicale leggero, Cantacronache fece della canzone il campo di battaglia, ma l’obiettivo primario era la contestazione al sistema politico e sociale, la nuova Italia del benessere[11]. Dunque, senz’altro, demodé. Come il PCI in crisi d’identità, che ne sosteneva le iniziative attraverso l’appoggio della casa editrice Italia Canta che organizzava concerti e pubblicava i dischi.

Risulta però difficile stabilire ora cosa fosse canzonetta e cosa no, e se considerare il canone critico moralizzatore e pedagogico proposto da Cantacronache il punto di vista più oggettivo su quello squarcio d’anni. Lo stesso Jona rammenta spesso uno scritto di Proust, un invito a non disprezzare la cattiva musica perché anche in essa sono inscritte la vita e le sofferenze delle persone [Proust 1988]. «Questo noi lo avevamo presente – chiarisce –. Anche in ciò che appare abietto, evasivo e costruito sul nulla, c’è sempre qualcosa che poi diventa l’aura del tempo. La cattiva musica connota un tempo. Anzi, se dovessi fare un film su certe epoche certamente userei la cattiva musica perché, nella sua divaricazione rispetto alla realtà, la documenta quasi meglio»[12].

Canzonetta o canzone d’impegno, di Cantacronache non si possono certo trascurare alcune evidenze che sono all’origine, per esempio, del cantautorato in Italia, come il lavoro di trascrizione in musica di eventi significativi nella storia sociale e politica del Paese o la volontà di attivare nei cittadini uno spirito critico autonomo, una coscienza alternativa a quella omologata al sistema della cultura dominante. «L’intento primario – spiega Amodei – non era quello di mettere la canzone al servizio della lotta politica, ma solo di farne uno strumento culturalmente dignitoso di comunicazione e di dibattito»[13]. Attraverso le canzoni di Cantacronache l’Italia delle rivendicazioni e delle lotte riscopriva la piazza come terreno di scontro e la canzone d’impegno come luogo di condivisione di valori e ideali. Così, nella primavera-estate del ’60, in occasione del ritorno del popolo alla protesta, i Cantacronache incontreranno altri giovani interessati al loro repertorio e al sistema innovativo di scambio e diffusione di idee e messaggi da loro innescato, cantando nelle piazze, nei comizi, nella case del popolo, nei circoli, tra la gente.

Varrebbe la pena soffermarsi con più attenzione anche sugli interpreti che da Cantacronache hanno tratto spunti, e collocare le loro canzoni nei rispettivi contesti storici e culturali, per sbrogliare quel filo intricato che ha tessuto le trame della storia della canzone d’autore in Italia, quella che da Cantacronache è passata al Nuovo Canzoniere Italiano e ha toccato autori come Giovanna Marini, Ivan della Mea, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli, solo per citarne alcuni. Ma occorrerebbe uno studio più mirato[14].

Resta tra le tante, quale manifesto poetico del gruppo, La canzone dei fiori e del silenzio. Qui Cantacronache esprimeva chiaramente l’avversione al genere dei testi evasivi e dalle rime facili di San Remo. Gli autori non volevano tacere di problemi sociali e delle ingiustizie che colpivano la gente comune, non ci stavano a cantare di «boschi e fiori, degli amori felici», volevano parlare di miseria e lavoro, della vita «anche se ha giorni grigi e duri, degli amori, anche se sono tristi e oscuri», della realtà. Ma lo facevano con le stesse armi della canzonetta. La struttura, la foggia esteriore (di questa come delle altre) erano simili:

La tendenza era di usare formule melodiche semplici – dice Jona – strutture verbali e ritmiche giocate sulla capacità di memorizzazione della rima, non casuale, non astratta o retorica, ma essendo stimolati da ciò che avveniva intorno a noi[15].

Argomenti, temi, contenuti, voglia di intervenire sulla situazione sociale culturale e politica del Paese, facevano da corpo e sostanza alle canzoni.

L’idea era di prendere la struttura di una canzone commerciale (come era l’idea di Brecht e Weill), una struttura di una folk song, una canzone popolare anche di massa e provare a destrutturarla. Si voleva evitare quella sorta di immedesimazione patetica, quel pathos mieloso da intrattenimento tipico della canzonetta, ma usare quello stesso mezzo per far capire delle cose, non solo emozionare. Non c’era la volontà di dimenticare in modo snobistico il mondo della musica popolare e commerciale, ma provare a reinterpretarlo, reinventarlo utilizzandolo come possibile cavallo di troia per entrare in un immaginario a esso abituato. Quello era il progetto politico che c’era dietro[16].

Ecco perché una parte della critica riconobbe nel progetto Cantacronache «un tentativo di indirizzare la canzone verso l’intelligenza e un primo contraltare alla canzone intesa come un importante settore nell’industria della stupidità, quale diventa sempre più nei festival gangsteristici di recente memoria»[17].

La canzone, per gli autori torinesi, doveva incidere sulla realtà, invece di invitare a distogliere l’attenzione «dall’immenso spettacolo di questo mondo, bello e brutto»[18]. Non a caso l’ultima strofa della Canzone dei fiori e del silenzio era proprio un richiamo a intervenire invece di lasciarsi abbacinare dalle immagini edulcorate e false prodotte dalle canzonette. Tornare alla concretezza dei fatti, alle verità quotidiane di chi moriva nell’indifferenza, per lavoro, per un ideale.

Le contraddizioni della realtà italiana negli anni del boom economico nelle canzoni di Cantacronache

Il lavoro al Sud: La zolfara e gli “omicidi bianchi”

[[soundcloud]]https://soundcloud.com/storicamente/la-zolfara[[/soundcloud]]

Una canzone come La zolfara[19] dà modo di entrare nel vivo della poetica dei Cantacronache e nel loro sguardo trasversale sulle questioni sociali: l’obiettivo, infatti, è puntato sulle vicende dei lavoratori nelle zolfare, non certo su quelle dei proprietari e dei loro interessi economici. Nasce da un fatto di cronaca accaduto in quegli anni, come mostrano gli articoli di giornale che lo descrivono[20]: siamo in Sicilia nel 1958 e otto lavoratori muoiono nella zolfara di Gessolungo. Nessuno sembra preoccuparsene troppo, lo Stato tende a dimenticarsi che ancora in Italia si possa morire per lavoro. Nessuno contesta, così è una canzone ad alzare la voce, e a ricordare, nominandoli, i morti ammazzati, lì e in tutte le altre zolfare d’Italia. Poco prima anche a Ribolla, alcuni minatori erano rimasti sepolti sotto la miniera del grossetano e questo incidente era diventato lo spunto per un romanzo, La vita agra di Bianciardi. Anche qui il proposito del protagonista, un anarchico, era quello di vendicare le morti ingiuste dei minatori, distruggendo la sede milanese dell’azienda mineraria (la Montecatini). Bisognava annientare i padroni, i responsabili del danno, interessati solo a fare soldi e sfruttare i lavoratori senza preoccuparsi troppo di salvaguardare la loro incolumità.

La zolfara è una difesa di quei lavoratori costretti a subire condizioni precarie e mortali: «Nella zolfara si parla di lavoro che uccide, di speculatori che per bramosia di profitto non esitano a mettere a repentaglio la vita dei lavoratori» [Straniero, Barletta 2003, 33], ed è un’autentica canzone di protesta [Vettori 1974, 175]. Solo un Gesù Cristo vendicatore può aggiustare le cose e ricreare l’ordine compromesso: infatti è lui a salvare i minatori morti offrendo loro una vita migliore in paradiso, dopo aver distrutto la miniera (simbolo di ingiustizia) con un fulmine. La canzone è il riflesso della formazione cattolica di Straniero[21]. La sua voce, che racconta senza interpretare, offre una visione oggettiva e quasi distaccata del fatto, e per questo ha il pregio di rendere la descrizione fortemente realistica.

Il lavoro al Nord: Canzone triste, le lotte operaie e le donne al lavoro

[[soundcloud]]https://soundcloud.com/storicamente/canzone-triste[[/soundcloud]]

Canzone triste[22] presenta una diversa sfumatura sul tema del lavoro. La manodopera che si impiega nelle fabbriche o negli uffici, a pieno ritmo per mantenere alta la produzione di beni di consumo, necessari alle esigenze dei novelli consumatori desiderosi di acquistare nuove merci, vive un’esistenza precaria sul piano delle relazioni affettive: gli uomini, le donne, faticano a trovare tempo da dedicare a loro stessi e alla vita di coppia perché gli orari di lavoro non convergono. I turni lavorativi creano esistenze che viaggiano parallele e mai si incrociano: chi torna la sera e riparte il mattino, chi torna il mattino per essere di nuovo al lavoro la sera. Così solo un istante rimane ai due sposi della canzone per un bacio dato di sfuggita o per un caffè.

La canzone è una fotografia della condizione esistenziale di quegli anni e mostra come il miracolo economico fu per molti la condanna a una vita scandita da turni lavorativi e scarso tempo per gli spazi di libertà. Il lavoro adesso ingoiava, annullava le identità, intorpidiva. Anche le donne, impiegate nella fabbriche o negli uffici, lo subivano.

«Volevamo raccontare la condizione operaia, cos’era il salario, lo sfruttamento, la catena di montaggio»[23] chiarisce Jona. Non a caso, è proprio di questi tempi la ripresa dei conflitti sociali che caratterizzava le concentrazioni operaie, sia vecchie che nuove, quelle degli immigrati di origine rurale che, abbandonate le campagne, si riversavano nelle città del nord per trovare lavoro, e quelle delle donne. La battaglia per i diritti segnava momenti decisivi e generava valori da trasmettere alle generazioni successive.

Nel 1959, soprattutto, si stava verificando un riavvio significativo delle lotte operaie in diverse città italiane con alla testa i giovani, gli operai e gli immigrati. Cominciavano a venire alla luce una serie di ingiustizie profonde nel rapporto di lavoro:

le sperequazioni tra uomini e donne, fra impiegati e operai, o il permanere di gerarchie e di discriminazioni sempre meno accettabili. La grande pesantezza degli orari di lavoro trova poche giustificazioni in un mondo industriale caratterizzato da innovazioni tecnologiche e da razionalizzazioni dei processi produttivi: essa stride con le potenzialità offerte dalla società del boom e con l’importanza progressivamente assunta dal tempo libero. [Crainz 2005, 186]

La resistenza degli industriali a queste rivendicazioni fu durissima e appoggiata da una certa parte della Democrazia Cristiana. Tra le prime agitazioni vi fu quella degli elettromeccanici dell’industria a partecipazione statale che si riunirono il giorno di Natale del 1961 a Milano in piazza Duomo. Gli operai della FIAT di Torino tornarono allo sciopero il 7 luglio 1962 [Foa 1996, 286], negli anni in cui cominciava a sfumare la vampata del miracolo economico per lasciare il posto alla «congiuntura, una crisi economica temporanea» [Crainz 2003, 3].

Proprio nel 1962, ecco come la fabbrica entrava anche nell’immaginario attraverso il romanzo Memoriale di Paolo Volponi. Sono gli occhi del protagonista Albino Saluggia che così la descrive:

La fabbrica, grandissima e bassa, ronzava indifferente, ferma come il lago di Candia in certe sere in cui è il solo, in mezzo a tutto il paesaggio, ad avere luce. Nemmeno in Germania avevo visto una fabbrica così grande; così tutta grande subito sulla strada, senza recinti o cancellate dove la gente potesse lavorare avanti e indietro, tra il chiuso e l’aperto [...]. Dopo un momento il lavoro sembrava tutto uguale; la fabbrica era tutta eguale e da qualsiasi parte mandava lo stesso rumore, più che un rumore un affanno, un ansimare forte. [Volponi 1991, 11-12]

Ma illuminante è anche l’analisi della donna lavoratrice che viene dal mondo cattolico. Bastano alle donne pochi mesi di fabbrica e

le ritroviamo cambiate moralmente, quasi sempre infiacchite nella loro resistenza al male, più larghe nei giudizi morali su cose e fatti, più apatiche di fronte alla virtù, meno impegnate nella pratica religiosa. E, tutto, giustificato da una presa di coscienza (così come dicono loro) di quello che veramente è la vita. [Pernigo 1963, 189]

Ed è proprio la voce profonda di Margot in Canzone triste a entrare nell’intimità di una coppia di sposi che faticano a incontrarsi a causa dei diversi turni lavorativi. La canzone, dunque, non solo fa cenno alla nuova organizzazione della vita che il sistema impone, ma è anche una delle poche ad affrontare in quegli anni il tema amoroso in maniera realistica, mettendo in scena le difficoltà quotidiane cui poteva andare incontro una coppia di giovani lavoratori in una grande città. Non tratta, dunque, di un amore esotico, idealizzato, sentimentale, ma concreto, incentrato sull’osservazione del vero.

«Lui aveva il turno che finisce all’alba / entrava in letto e lei n’era già fuori» cantava Margot, e anche: «Il nostro letto serba il tuo tepor». Ecco che il riferimento al letto, cioè alla relazione amorosa e sessuale dei due protagonisti rendeva, tra l’altro, la canzone particolarmente innovativa e rivoluzionaria, sfidando le regole censorie del conformismo culturale che vietava la rappresentazione di argomenti vicini alla sfera intima. Questo elemento di contestazione e il rifiuto ad adattarsi ai contenuti concessi dalla società perbenista e conservatrice di quel finire degli anni Cinquanta segna ancora una volta il carattere trasgressivo di Cantacronache. Del resto, anche Il ratto della chitarra ne è una dichiarazione.

[[soundcloud]]https://soundcloud.com/storicamente/il-ratto-della-chitarra[[/soundcloud]]

In questa canzone Amodei racconta della sua chitarra che gli è stata rapita, una chitarra che la Questura ha schedato come «chitarra comunista» perché «Cantava senza paura / dei versi un poco insolenti / in barba alla Censura / contro i padroni e i potenti»[24]. Non a caso tra i temi più presenti nella produzione del gruppo torinese non manca l’anticlericalismo e la critica alla cultura bigotta che in quegli anni la Chiesa proclamava, soprattutto in Italia dove la presenza della Chiesa cattolica aveva inciso decisamente sui costumi, sulla mentalità, condizionando scelte e stili di vita [Martina 1977]. Ma soprattutto proponeva una discriminazione nei confronti dei non cattolici, mostrando una forte ingerenza nei confronti dello Stato.

Nel 1958 moriva Pio XII e su «Paese Sera» lo scrittore Roger Peyrefitte scriveva un articolo fortemente critico nei confronti del papa, scatenando interventi della polizia, campagne stampa contrapposte: «Siamo di fronte ad un vasto attacco contro la Chiesa, senza esclusione di colpi, comprendendo e anzi preferendo quelli destinati al suo capo, capo della religione di stato [...] condotto da un partito antidemocratico e anticostituzionale» [Verucci 1988, 250-251].

Tensioni e conflitti si succedevano in diverse località e mostravano questa frattura tra la Chiesa e la società contemporanea. A Prato si celebrava nel 1958 il processo nei confronti di Monsignor Fiordelli, vescovo della città toscana che aveva fatto leggere in chiesa una lettera in cui indicava come peccatori e concubini due coniugi che si erano sposati con rito civile. Questi avevano pensato bene di denunciarlo per diffamazione. Il vescovo, che aveva preferito non presentarsi in tribunale non potendo «essere sottoposto al giudizio del magistrato civile un atto riguardante il governo spirituale dei fedeli»[25] fu condannato al pagamento di una multa. Questa conclusione provocò reazioni molto accese da parte del Vaticano e dai quotidiani cattolici, che difendevano l’operato di Monsignor Fiordelli. Dai fatti in questione i Cantacronache trassero lo spunto per scrivere alcune canzoni anticlericali come La guerra era finita[26], che raccontava proprio di una coppia che aveva deciso di sposarsi civilmente: la loro unione nel corso degli anni si era rafforzata nonostante le tante disavventure e disgrazie che i due sposi avevano affrontato: scioperi, la guerra, la morte di un figlio al fronte. Ma la disgrazia più grossa era quella di essere dei miscredenti:

Siamo sposi illeciti / viviamo nel peccato / il nostro amore è ignobile / la vita ha insudiciato. / Noi per aver diritto / a un poco di rispetto / noi dovevamo unirci / davanti al chierichetto / e dall’altare il prete / ci avrebbe benedetti. / Lui deve benedire: / uomini e gagliardetti. [Jona e Straniero 1995, 216]

La canzone, però, si concludeva con una profonda riflessione sull’amore, che è «la forza di un sorriso» e che rivivrà nei cuori dei figli della coppia in terra e in paradiso.

Una canzone come Il Tributo[27] è ancora più critica: «Non era altro che un elenco di elargizioni» spiega Jona «che un comune italiano, Chieti, aveva dato ad organizzazioni religiose. Così recitava: “E vi abbiamo qui addietro narrato solo fatti precisi e indiscreti di un comune italiano i verbali vi leggemmo del comune di Chieti”»[28]. Nel 1958, infatti, su «L’Espresso» era uscito un trafiletto[29] che conteneva la lista dei provvedimenti approvati nei tre mesi precedenti dalla Giunta comunale formata dalla DC, MSI, PNM. Ve ne erano 16 ed erano tutti contributi indirizzati a istituzioni religiose: all’Azione Cattolica, Pontificia Opera d’Assistenza, suore Orsoline, e diversi altri.

La politica italiana nel luglio 1960: Per i morti di Reggio Emilia

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La canzone Per i morti di Reggio Emilia[30] affronta il tema della situazione politica in cui piombò l’Italia nel 1960. O meglio dell’Italia che arrivava al 1960, alla prova degli anni del boom. La continuità, nel passaggio dal fascismo al post-fascismo, è una chiave di lettura credibile del tipo di Stato che venne a consolidarsi in quegli anni, quando Ferdinando Tambroni, Ministro degli Interni prima e Primo Ministro dall’aprile ’60, eletto con il sostegno del Movimento Sociale Italiano [Longo 1970; Jona e Straniero 1995; Crainz 2005], giocò un ruolo di primo piano in questo processo.

Fausto Amodei in concerto a Reggio Emilia nel luglio 2010.
Fausto Amodei in concerto a Reggio Emilia nel luglio 2010.

Interventi repressivi e aumento di iniziative neofasciste[31] determinarono l’accentuarsi di tensioni sociali, che esplosero in scontri tra manifestanti e polizia a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, quando il MSI decise di indirvi il proprio congresso nazionale. Era il 30 giugno 1960. Poi fu la volta di Licata (5 luglio), di Roma (6 luglio), di Reggio Emilia (7 luglio). Il popolo tornava a partecipare, agire e protestare.

La canzone di Amodei racconta ed elabora l’episodio di Reggio Emilia, sigillato nelle trame della storia tragica del Paese.

A Reggio Emilia la Camera del lavoro aveva indetto uno sciopero politico per il pomeriggio del 7 luglio. Venne proibito l’uso della piazza dal Prefetto e la manifestazione fu ammessa solo nella sala verde del Teatro Alfieri. Ma i manifestanti erano più di duemila nella piazza davanti al teatro, seduti ad aspettare l’inizio della manifestazione, proclamata per le ore cinque.[32]

Le foto mostrano giovani accovacciati a terra impegnati nell’atto di cantare, fatto che avvalora l’ipotesi di una manifestazione spontanea, conseguenza di uno sciopero indetto dal sindacato. «Ci sono in piazza giovani non solo del PC, ci sono giovani socialisti, radicali, della DC, e anche diversi non politicizzati, operai, qualche studente»[33], dice Carrattieri.

Improvvisamente da tutte le vie di accesso alla piazza arrivarono camionette della polizia e dei carabinieri che cominciarono ad allontanare la folla con idranti che sparavano acqua colorata. Poi vennero lanciati lacrimogeni e infine proiettili veri che puntavano ad altezza uomo. Cinque giovani vennero colpiti, quattro morirono subito, uno la sera in ospedale. Ferite anche una trentina di persone di cui venti gravemente. Il sindaco intervenne cercando di fermare la carneficina e a quel punto si smise di sparare. La Camera del lavoro invitò i manifestanti a tornare a casa, così si concluse lo sciopero che lasciò a terra cinque vittime.

La memoria della tragedia è fissata nel testo e nella musica di una canzone diventata monumento, luogo della memoria, attorno a cui radunarsi per ricordare nomi, persone, eventi della storia partigiana. Per i morti di Reggio Emilia, infatti, costruisce un legame fortissimo con il passato e con la memoria resistenziale: «vengono idealmente congiunte le lotte degli scioperanti con quelle dei partigiani» [Pivato 2005, 208] e le vittime di quel luglio ’60 diventano anche tutte le vittime partigiane cadute nella guerra contro il fascismo: «Son morti come vecchi partigiani». Basta l’attacco che chiama a raccolta a fare di chi ascolta, una comunità: «Compagno, cittadino, fratello partigiano / teniamoci per mano in questi giorni tristi» e le parole si fanno carico di condensare il ricordo di fatti e sentimenti, diventano nucleo simbolico per una cerchia di persone che li vivono e rivivono: «Sangue del nostro sangue / Nervi dei nostri nervi» recita il testo. Nostro, appunto. In questa appropriazione c’è tutto il senso della condivisione e della comune appartenenza (di una data comunità) che fa del canto un veicolo per rinnovare nel presente il passato. Non a caso la canzone richiama consapevolmente le parole di altre canzoni popolari partigiane, e ha la funzione di riannodare un filo: c’è Fischia il vento: «Uguale la canzone che abbiamo da cantare: scarpe rotte eppur bisogna andare», mentre nel finale si cita Bandiera Rossa. Questa operazione, certamente va detto, non ha la pretesa di affermare dei valori assoluti o universalmente condivisi; la memoria, infatti,

è semplicemente individuale, inesorabilmente particolare, soggettiva, intima, e non può essere scambiata con quella di altri. Essa è un angolo visuale ed emotivo irriducibilmente personale, soggetta proprio per ciò a fenomeni di logoramento fisiologico, di rimozione, di alterazione [...]. Ma non solo: la memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si fonda. [Barberis 2004, 51]

È la memoria, appunto, di una comunità, alla quale i Cantacronache sentono di appartenere. Ma Per i morti di Reggio Emilia è anche la colonna sonora di una nuova generazione di giovani, nati dopo la guerra, che per la prima volta entravano in scena come soggetto politico: i giovani con le magliette a strisce.

Non era un’uniforme – dice Vittorio Foa – i ragazzi portavano quelle magliette e secondo il costume giovanile si vestivano tutti uguali. La loro scatenata allegria, la loro gioia di muoversi insieme, quella protesta così alta che sembrava toccare il cielo, aveva un significato: basta con la politica incomprensibile, ci siamo anche noi, vogliamo capire e dire anche la nostra. [Foa 1996, 274]

Perché così giovani è il titolo di un articolo dell’Espresso[34] che si chiedeva come mai la gioventù fosse pronta a scendere in piazza, mentre alcuni interventi di Carlo Levi[35] descrivevano questi ventenni come uomini nuovi scesi per le strade a difesa dei valori della resistenza e per una libertà quasi ancora da riconquistare. Tra di loro c’erano anche i giovani Cantacronache che, con l’arma della canzone, esprimevano la loro protesta.

Di nuovo, nel 1977, la canzone verrà diffusa dagli altoparlanti durante una manifestazione operaia davanti alla fabbrica di Arese[36]. La sua forza è proprio quella di saper radunare persone che si ritrovano in ideali e principi condivisi pur vivendo in contesti e momenti storici differenti. Così ascoltare o intonarne le parole è davvero come partecipare a un rito.

Suoni, fotografie, una canzone, un video, articoli: sono diversi i materiali attraverso cui i fatti di Reggio Emilia del 7 luglio 1960 si rivelarono, si mostrarono a un pubblico in veste comunicativa. Questa varietà e ricchezza rende chiaro da subito come esso fu molto sentito e rappresentato già all’epoca: «Fu uno dei primi eventi ad essere utilizzato a livello mediatico, per la campagna delle elezioni amministrative che si tenne a fine anno» spiega Mirco Carrattieri. «Togliatti impostò dal centro la campagna elettorale delle amministrative in tutta Italia sui fatti di giugno-luglio»[37]. Era una novità: comunicare a un pubblico un fatto, in questo caso tragico, attraverso ogni possibile mezzo narrativo significava già incidere sulla realtà politica del Paese.

La Resistenza, in compagnia di Italo Calvino

«Centrale è, nell’esperienza del gruppo torinese, il recupero della memoria della Resistenza [...] contro i tentativi di restaurazione e di oblio che la cultura conservatrice degli anni Cinquanta opera nei confronti dell’esperienza partigiana» [Pivato 2005, 208 e Pivato 2002, 145]. Ma anche per la «necessità di far fronte alla deriva della politica italiana» [Peroni 2005, 47], negli anni del ritorno di un governo filofascista.

Al tema Cantacronache dedicò diverse canzoni alcune delle quali, in maniera innovativa, mettevano in primo piano proprio l’aspetto della memoria, nella volontà di ricordare e riaffermare quell’esperienza di lotta. Fu una forte presa di coscienza: «Bisogna dire» scriveva infatti Straniero «che in quei tardi anni Cinquanta parlare di Resistenza era [...] quasi un delitto» [Jona e Straniero 1995, 67].

Giusto per entrare nel contesto di quegli anni si può rilevare come, per esempio, solo dopo la caduta del governo Tambroni (luglio 1960) una circolare del nuovo ministro della Pubblica istruzione, Giacinto Bosco, disponeva che l’insegnamento della storia alle superiori non si fermasse alla Prima Guerra Mondiale ma che giungesse fino alla Costituzione. Mentre per quanto riguarda lo strumento più diretto della comunicazione di massa, la televisione, sempre solo dopo la fine del governo Tambroni la Rai propose le prime trasmissioni sulla Resistenza [Crainz 1996, 37-65]. Tra il 1961 e il 1965, invece, anno del ventesimo anniversario della Liberazione, attraverso i programmi televisivi, avvenne il passaggio dalla rimozione a un’ufficializzazione della Resistenza che ne banalizzava, però, i contenuti: «Si passa cioè dall’oblio alla costruzione di una “memoria pubblica” astrattamente apologetica, che si sovrappone alle molteplici e differenti – talora opposte – memorie private senza riuscire a risolverle in sé, senza aiutarle a riconoscersi come parte di un processo. L’insistenza unilaterale e retorica sui temi del riscatto nazionale e del sacrificio tendeva a tradursi in sermoni pedagogici e di scarsa efficacia». Infatti questa impostazione del racconto storico lasciava ai margini problemi cruciali come «l’identità nazionale: o meglio i differenti modelli di identità nazionale che allora si vennero a scontrare» [Crainz 2005, 179].

In questo contesto offrono un valido commento le riflessioni di Jona sull’approccio utilizzato da Cantacronache per raccontare la Resistenza: «cominciava a essere guardata con un occhio diverso da quello che era stata. Non serviva una celebrazione mitologica, ma concreta: i partigiani erano i nostri fratelli maggiori»[38].

[[soundcloud]]https://soundcloud.com/storicamente/partigiani-fratelli-maggiori[[/soundcloud]] Partigiani Fratelli Maggiori è, infatti, una delle canzoni che esplicita il tema della memoria: «Se cerchiamo sui libri di storia / se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d’aria / non troviamo la vostra memoria»[39]. La stessa Per i morti di Reggio Emilia, nella narrazione di un fatto avvenuto nel luglio ’60, offriva lo spunto per tornare a rievocare la storia resistenziale. [[soundcloud]]https://soundcloud.com/storicamente/partigiano-sconosciuto[[/soundcloud]]

Ma tra le più suggestive non si può non ricordare Partigiano sconosciuto[40], l’autore del cui testo viene indicato come Anonimo. Sergio Liberovici, infatti, musicò una poesia senza firma, appuntata manoscritta il 25 aprile 1945 nel luogo in cui, a Modena, era stato fucilato un partigiano. Successivamente il nome dell’autore, anzi dell’autrice del testo, divenne noto: era la partigiana modenese Claudina Vaccari[41].

L’interesse per la tematica resistenziale portò Cantacronache a occuparsi anche dei canti politici e sociali dei paesi in lotta come l’Algeria, che dal 1954 al 1962 stava combattendo la sua rivoluzione per l’indipendenza contro la Francia.

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Il disco I canti della rivoluzione algerina si può ritenere la prima documentazione sonora in Europa della canzone algerina di guerra[42]. Nell’ambito di quel viaggio una delegazione di Cantacronache venne ricevuta dall’allora capo provvisorio del governo algerino in esilio a Tunisi, emanazione del Fronte Nazionale di Liberazione, e lì ebbe modo di raccogliere un vasto materiale: «Frequentando i campi di raccolta dei rivoluzionari algerini, attraverso incontri fraterni con i dirigenti del movimento di liberazione, in una serie di esperienze che, per essere fatte a pochi chilometri di distanza dai campi delle più sanguinose battaglie, non potevano che portare seco l’eco di quelle lotte, la voce di quella gente valorosa»[43]. Lo stesso Straniero, tra i curatori del disco e autore della Canzone del popolo algerino[44] scriverà:

Per la mia generazione, la guerra d’Algeria ha avuto il valore che ebbe per i nostri padri la guerra di Spagna, e per i più giovani quella del Vietnam: ci fece scoprire l’oppressione e la tortura, ci diede la certezza morale e l’entusiasmo di essere dalla parte giusta, ci aiutò a capire la dinamica della storia, fu quella che si dice una “presa di coscienza” che ci aiutò a diventare adulti. [Straniero, Rovello 2008, 20]

Sul tema resistenziale Cantacronache trovò la piena collaborazione di Italo Calvino, che già nel suo libro d’esordio aveva narrato la propria esperienza di guerra[45] [Calvino 1947]. La partecipazione dello scrittore alle attività del gruppo torinese avvenne in conseguenza dell’amicizia con Sergio Liberovici che come Calvino lavorava alla redazione de «L’Unità». Calvino si lasciò convincere e anzi «venne preso da autentico entusiasmo» [Jona e Straniero 1995, 64] tanto da partecipare perfino al canto in coro con voce baritonale. Ma Calvino sarà anche testimone dell’interesse e della popolarità che Cantacronache suscitava in America: «ricordo della sue cartoline – dice Jona – di quando era nei campus in America e lì sapevano di Cantacronache, ci scriveva di fargli avere dischi di Cantacronache, qui tutti vogliono dischi di Cantacronache, scriveva»[46].

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Nella canzone Oltre il Ponte[47] da lui scritta, la storia partigiana diventa un bagaglio di valori e ideali da tramandare alla nuove generazioni, i giovani ventenni. Il tema è reso con toni delicati, lievità e semplicità d’immagini: un ponte è il simbolo che divide la guerra dalla pace, la vita della morte e la speranza che l’amore vinca su ogni altro tentativo di distruzione.

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È sempre Calvino a scrivere nel 1958 Dove vola l’avvoltoio?[48] canzone anticipatrice in Italia del pensiero pacifista che sarebbe esploso qualche anno dopo. Innovativa e precorritrice di una certa sensibilità:

Il pacifismo allora non era un verbo diffuso. Certamente non eravamo i soli, ma era nuovo pensare a un mondo di pace, anzi era relativamente insolito. L’elemento del pacifismo militante c’era già durante la guerra del ’15-’18 era già iscritto nella cultura operaia e politica. Ma per quanto riguarda la canzone colta, invece, indubbiamente Dove vola l’avvoltoio? è il primo caso in cui si è sviluppato un tema fortemente pacifista legato, però, al passato non al presente: non c’è nella canzone questo aspetto della guerra come distruzione dell’umanità[49].

Come annientamento del futuro e visione ideale di pace e libertà. Tema che comparirà qualche anno dopo per esempio nella canzone di Fabrizio De André, La guerra di Piero (1964) e nell’inno pacifista Blowing in the wind (1963) di Bob Dylan.

Una Storia “altra”: la voce popolare e della protesta

L’anno più felice della mia vita è un libro di Alan Lomax [2008], studioso americano di musica popolare. Tra il 1954 e il 1955 attraversò l’Italia raccogliendo e registrando canti, ballate, un vasto materiale sonoro da conservare e mantenere in vita, perché rappresentava una eccezionale fonte storica, un patrimonio culturale che rischiava di scomparire di fronte al fenomeno dell’abbandono delle campagne e dell’urbanizzazione, di fronte all’imminente nascita di una nuova Italia che puntava al progresso e a costruirsi una nuova storia e una diversa identità: quella di Paese industrializzato e moderno. Insieme a Diego Carpitella fu lui a mettere insieme un’ampia testimonianza della vitalità del patrimonio culturale italiano di allora, mai studiato fino a quel momento [Carpitella 1978]. Ed è sempre questo ricercatore a diffondere anche in Italia un certo interesse verso la cultura popolare, operazione che precedentemente aveva realizzato in America, con Woody Guthrie, con il quale aveva registrato gran parte del repertorio folk americano. Attraverso Lomax si venne a creare un rapporto tra il movimento americano e le ricerche sulla canzone popolare in Italia. Proprio in quegli anni, infatti, nel 1954, veniva pubblicata in Italia una piccola antologia di Canzoni di protesta del popolo americano da Roberto Leydi e Tullio Kezich, grazie a contatti che questi avevano con il gruppo di People’s Songs, un’organizzazione fondata a New York da Lomax, Pete Seeger, allo scopo di promuovere canzoni popolari americane, canzoni di lavoro e di lotta. Il libretto era intitolato Ascolta, Mister Bilbo![50] e le edizioni Avanti! che lo pubblicarono furono al centro di una riscoperta della musica popolare in Italia, già attivata in precedenza dai primi studi etnologici di Ernesto de Martino, e poi proseguita nel lavoro di Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano, da i Dischi del Sole e dallo stesso Istituto de Martino [Bermani 1993].

A un certo punto abbiamo riscoperto, in contemporanea con altri che lo stavano facendo, gli uni all’insaputa degli altri, tutto il repertorio del canto sociale italiano. Attorno a esso si è avviata una nuova ricerca di questa cultura orale che in rapporto al campo folklorico, ha avuto di base il lavoro di Lomax e Carpitella sui canti popolari italiani, che fu uno shock anche per noi, perché nessuno sapeva che in Italia ci fosse una tale meravigliosa cultura sotterranea[51].

E il dialetto, in un Italia attraversata da una forte emigrazione dal Sud al Nord, era certamente un modo per affermare (o per non dimenticare) la propria identità e le radici di un popolo [Straniero e Barletta, 2003].

Ecco che la riscoperta del canto sociale contribuì ad accrescere l’interesse di Cantacronache verso i movimenti di protesta in Italia, non solo quelli attuali, ma anche le rivolte del passato, avvenute negli anni di formazione di una cultura anarchica, socialista, comunista, repubblicana. Manifestazioni che rappresentavano l’azione collettiva popolare nell’atto di emanciparsi socialmente e culturalmente, era il popolo che denunciava e cantava le ingiustizie sociali e l’esigenza di libertà [Jona e Straniero 1995, 30].

I Cantacronache ne faranno tre dischi dal titolo Canti di protesta del popolo italiano[52], risultato di una particolare forma di scambio che avveniva tra gli autori e il loro pubblico anziano:

C’è stato una specie di baratto tra noi Cantacronache e il pubblico anziano delle Case del popolo, delle Cooperative, delle Società di mutuo soccorso dove andavamo a cantare le nostre canzoni, che erano canzoni di cronaca, di storia e di situazioni concrete. Questi anziani già lo facevano diverso tempo prima: noi cantavamo la morte di Matteotti – ci dissero – il crack delle banche di Roma del 1897, l’uccisione di Sante Caserio, lo sciopero di Parma. Per cui a un certo punto, grazie a loro, abbiamo riscoperto tutto il repertorio del canto sociale italiano, attorno a cui poi si è avviata una nuova ricerca sul campo[53].

Lo studio del repertorio popolare italiano risvegliò l’interesse verso il mondo sommerso della canzone storica di protesta di fine Ottocento e del Novecento, e contribuì a mostrare un Paese che si raccontava attraverso la voce dal basso:

Abbiamo cominciato a raccogliere canti popolari, come i canti contro la guerra del ’15-’18, canti di lavoro, di lotta, canti repubblicani, socialisti, comunisti, anarchici. Abbiamo cominciato a portare fuori dal dimenticatoio questo materiale molto interessante da studiare soprattutto per il linguaggio: musicalmente e letterariamente mutuava modelli culturali della cultura alta ma attraverso tecniche e modifiche interne molto interessanti[54].

E venne fuori che in Italia esisteva una ricca tradizione di canti sociali, politici e di protesta, «esplicita espressione di comunicazione rivendicativa e contestativa di massa» [Bermani 2003, 1; 1997]. Si trattava di canti d’uso, ovvero formatisi «attraverso la trasformazione di altri precedenti canti, cioè per una modificazione del testo preesistente o per un adattamento di nuove parole a melodie già note e per lo più notissime, sì da agevolare al massimo la diffusione orale del nuovo messaggio» [Bermani 2003, 3]. Per questo mescolavano materiali, testi e musiche provenienti da diversi contesti: arie da romanze insieme a canzonette di consumo, melodrammi con ritmi di marce e inni militari. Purché fossero cantabili, purché costituissero un repertorio, una trama comprensibile a tutti e a cui tutti potessero partecipare. Il racconto di quei fatti, così, si tramandava, e con esso la storia. Tra i più suggestivi, riproposto da Fausto Amodei, si può menzionare Il crack delle banche[55], che racconta dello scandalo della Banca Romana del 1897 [Vettori 1974].

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Gli intellettuali e la dittatura: cultura a processo

Un’immagine del processo di Torino a Einaudi, Liberovici, Straniero e Margot (1962).
Un’immagine del processo di Torino a Einaudi, Liberovici, Straniero e Margot (1962).

Un altro evento che mostra le inquietudini di quei primi anni ’60 è la pubblicazione del libro Canti della Nuova Resistenza spagnola edito nel ’62 da Giulio Einaudi, che riportava la traduzione e lo studio critico dei canti della Nuova Resistenza spagnola che Liberovici, Straniero e Margot avevano registrato sul posto, recandosi in Spagna durante la dittatura franchista. Gli autori e l’editore vennero accusati di vilipendio di Capo di Stato estero (si menzionava la figura di Franco, definito come cabron) e per oscenità. Per questo andò incontro a censura, provocando una lunga serie di dibattiti, ma soprattutto di scontri anche violenti che avvennero durante i giorni del processo che si tenne a Torino.

«Fu un viaggio clandestino» dice Margot «eravamo dei clandestini noi lì. Avevamo una scatola di fiammiferi con lamette da barba, dentro a ognuno c’era l’indirizzo di una persona che poteva dirci qualcosa sulla Nuova Resistenza spagnola. Questa scatola era pronta a essere incendiata e gettata fuori dal finestrino della macchina se fosse successo qualcosa»[56].

«Avevamo pubblicato una coplas» spiega Jona «una forma popolare di canto spagnolo di due distici, e uno recitava: “Al santo Cristo de Limpia dicono che gli crescono i capelli, e che gli cresce il cazzo per metterlo nel culo ai preti”. Era una metafora: Cristo vendicatore che caccia i mercanti dal tempio»[57]. Era una protesta contro il clero corrotto che il sentimento popolaresco attribuiva all’immagine del Cristo giustiziere, potenza punitrice dei ministri non degni della divinità[58]. «Invece» prosegue Jona «il capo d’imputazione diceva: “per aver attribuito alla sacra figura di Cristo atti di sodomia”». Jona in quell’occasione, in quanto avvocato, si occupò della difesa:

Io ho cercato di spiegare che l’uso della parola “cazzo” era corretta e usata in gran parte della letteratura italiana – dice – e mi sono divertito a citarla almeno trenta volte nella mia arringa mostrando come fosse presente in qualunque testo da Bandello a Boccaccio... Poi spiegai il significato della metafora. Nonostante ciò Liberovici, Straniero, Einaudi e Margot furono inizialmente condannati a quattro mesi di reclusione e il libro fu sequestrato in tutta Italia. Poi, dopo l’assoluzione in Cassazione, quando fu chiaro che si trattava di una metafora, il libro fu ritradotto in Francia e Inghilterra – dice Jona –. Allora un fascista qualunque poteva fare una denuncia di questo genere che poteva produrre un processo arrivato fino in Cassazione. Dovetti dimostrare come nel canto popolare l’oscenità era presente, e se uno studioso ne pubblica alcuni e li studia non compie alcun atto osceno. Si tratta, invece, di un lavoro intellettuale[59].

Lo stesso concetto venne ribadito dal prof. Giuliano Vassalli, dell’Università di Roma, che in quell’occasione testimoniò al processo in difesa degli imputati, mettendo in luce «il carattere sicuramente scientifico dell’opera che si è proposta il compito di raccogliere documenti che potrebbero andare perduti per lo storico di domani, cercando di fissare quel particolare momento della reazione popolare contro un regime oppressivo»[60]. Per questo il libro dei canti della Resistenza spagnola «resterà per lo storico di domani un capo d’accusa contro un regime che con la sua tirannia obbliga un popolo generoso a una protesta segreta così sofferta ed esasperata»[61].

Alcuni commenti di Margot, invece, chiariscono il clima conservatore che in particolare condannava la figura della donna: «Mi chiese il giudice» dice Margot «ma lei come donna non si sente a disagio a dire le parolacce che dice in quel libro? Io ho detto: scusi ma lei che differenza fa tra uomo e donna?»[62], creando con la sua domanda un gran disordine in tribunale.

Si può leggere tra le trame di questo processo il quadro della situazione italiana, e non solo, caratterizzata da un forte scontro di tipo ideologico e politico che approfittava di qualsiasi manifestazione artistica o culturale per accentuarsi. Per diverso tempo, per esempio, Straniero, Einaudi, Liberovici e Margot furono banditi dalla Spagna e nei giorni del processo la sede della casa editrice torinese subì alcuni attacchi e lanci di bombe carta.

La vicenda mostra quanto fosse difficile per un artista, o intellettuale, esprimere pubblicamente un pensiero, soprattutto nel caso potesse disturbare la corrente politica dominante, o certi personaggi che ne erano fautori come Franco. E la Chiesa, soprattutto. La censura era un’operazione molto praticata e la libertà di pensiero veniva schiacciata da esigenze di potere, come mostra anche questo scritto:

Quando cominciammo a comporre le prime canzoni neorealiste l’atmosfera psicologica italiana, attraversava momenti di insolita tensione. Le elezioni erano alle porte, ai comizi si replicava con i comizi. Come sempre avviene in simili circostanze le parole, le opinioni, anche le più svagate, finivano sempre per acquistare un loro ben preciso significato, un’intenzione che magari non c’era […]. Si viaggiava su di un terreno minato. A ogni sillaba, a ogni nota, si rischiava di toccare questo o quell’altro tabù nazionale e di ricevere di conseguenza i controstrali degli interessati. [Jona e Straniero 1995, 26-28]

Sempre per restare nell’ambito della giustizia, solo nel 1956 entrerà in funzione la Corte costituzionale, che avvierà la cancellazione di norme e articoli introdotti dal fascismo. Ma per cogliere a pieno l’arretratezza culturale del sistema giudiziario (Magistratura e Corte) e una certa discriminazione verso le donne, è sufficiente ricordare che ancora nel 1961 la Corte ribadiva che l’adulterio era reato punibile se compiuto dalla donna, che recava offesa più grave dell’infedeltà del marito.

Cantacronache: da sinistra Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Michele L. Straniero, Margot (fonte: Straniero e Rovello 2008).
Cantacronache: da sinistra Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Michele L. Straniero, Margot (fonte: Straniero e Rovello 2008).

La sinistra comunista, in questo contesto, appariva agli autori italiani come una possibilità di libera espressione, anche solo per il fatto che un editore come Einaudi avesse deciso di sostenere la pubblicazione di un libro che riguardava la protesta di un popolo contro una dittatura fascista.

C’era un conformismo terribile nella radio e nella televisione – dice Jona – vigeva un codice di comportamento rigidissimo: certe parole non si potevano dire perché venivano censurate. Per poco che si facesse, a livello di critica, si veniva subito cacciati. Infatti, sotto questo profilo la sinistra comunista, che non era certamente liberale, ha fatto un’opera liberale: ha difeso la libertà di stampa, di opinione, di cultura in un periodo in cui c’era questa balena dormiente che faceva addormentare un po’ tutti, e tutto diventava sfilacciato in un conformismo diffuso, costante[63].

Il riferimento è alla politica conservatrice della DC, definita da Jona vecchia balena [Jona e Straniero 1995, 26] che imponeva un sistema centrista che impediva l’alternanza politica in Italia e lasciava spazi marginali alle opposizioni, tra l’altro ancora irrigidite dalla presenza del modello del comunismo sovietico. Questo concetto di una sinistra comunista non liberale, ma comunque sostenitrice di certe libertà, chiarisce la contraddizione esistente nello schieramento.

Conclusioni

L’esperienza di Cantacronache mostra come in un particolare momento della storia d’Italia le canzoni abbiano saputo riconquistarsi un ruolo, quello di collettore sociale e luogo di condivisione di ideali. La stessa funzione che Stefano Pivato ben rammenta: uno strumento che «cadenza lo svolgersi della politica, ne sottolinea gli eventi principali, ne accompagna l’evoluzione. È, in definitiva, uno dei segnali più significativi della partecipazione della gente comune [...] alla politica» [Pivato 2005, X]. I Cantacronache scrivevano, cantavano e cercavano di radicare il gusto per un nuovo tipo di canzoni, che affrontavano i temi della quotidianità e quelli sociali e politici con parole intense e poetiche, melodie lineari molto adatte a sostenere il tono spesso narrativo dei testi e a contrappuntare denunce pungenti mai gridate[64], ma mostrate in tutta la loro evidenza. Perché si ricominciasse a guardare alla realtà e ai suoi problemi, a rivendicare diritti calpestati, a protestare nelle piazze.

Utilizzate come fonti per la storia[65] queste canzoni diventano fotografie, rappresentano un veicolo tra i più suggestivi per la restituzione di fatti realmente accaduti e del clima culturale e politico che li ha generati. E se la storia della cultura e del costume di un Paese passano anche attraverso le sue canzoni, con Cantacronache si arriva al cuore, alle origini della creazione d’autore, espressione di uno sguardo personale, e per nulla scontato, sulla realtà. Così, prende forma un ritratto alternativo della società italiana. Non è certo l’Italia del benessere quella che si profila, ma l’Italia vista dalla parte di chi le trasformazioni le subiva: l’Italia della protesta, di chi stava dalla parte delle minoranze e guardava al presente con occhio critico cercando di svelarne le ingiustizie.

Un’Italia “altra”, che Cantacronache ha osservato e fissato. Alternativa, perché ne è stata il negativo, l’immagine in ombra che ha scavato nelle differenze e nelle contraddizioni, invece di fermarsi alla superficie.

Le immagini più vive che ci sono rimaste esprimono tensioni e conflitti ancora attuali e salienti come il rifiuto verso il conformismo intellettuale e la volontà di opporsi al sistema della produzione musicale leggera che trovava vasto consenso, e che Cantacronache ha combattuto proponendo canzoni “educative”: «Eravamo sinceramente stufi e delusi della pessima qualità delle canzonette presentate al Festival di San Remo, della ripetitività dei loro testi (le rime amore / cuore) e della banalità delle loro musiche» scriveva Straniero [Jona e Straniero 1995, 63]. Contestazione verso i prodotti culturali di puro consumo e intrattenimento, capaci di creare un pubblico passivo e acritico nei confronti della realtà, contestazione che ben si è espressa nello slogan “evadere dall’evasione”. La lettura critica del boom economico con l’idea che celasse con la sua fascinazione i reali problemi del paese, avviato a una fase di forte cambiamento in tutti i settori, con «l’intreccio (sofferente) di passato e di presente, di tradizione (come memoria di usanza e di sentimenti) e di nuove necessità, il rapporto fra continuità e cambiamento [...], la diversa fatica e le diverse attese» [Foa 1996, 261]. La questione del lavoro e dei diritti dei lavoratori da difendere. Problemi che toccavano sia il Sud (i morti nelle zolfare siciliane) che il Nord (la fabbrica con i turni di lavoro che condizionavano pesantemente gli stili di vita). La contestazione di tipo politico, la battaglia contro le dittature e a sostegno delle mobilitazioni di massa e, allargando il discorso, alle forme di resistenza al colonialismo, all’imperialismo con uno sguardo alla storia di altri paesi, mentre il tema della memoria resistenziale e della lotta partigiana diventava un patrimonio da preservare e trasferire alle generazioni successive.

Cantacronache a tutt’oggi resta un’esperienza innovativa e unica, un punto di svolta nella storia della canzone italiana, non solo per aver contribuito alla nascita della canzone d’autore e del cantautorato[66], scrivendo, musicando e cantando le proprie canzoni, non avendo trovato cantanti professionisti disposti a farlo, e in questo preservando una certa libertà creativa[67]. C’era alla base l’idea di dare vita a un nuovo sistema di produzione e fruizione dell’arte che comprendesse, nella sua opera di trasformazione, il pubblico, non inteso come massa informe, ma come insieme di individualità, uomini con cui dialogare e interessare alle cose della realtà. Nel suo valore educativo ed etico, la canzone richiedeva anche una rinnovata modalità di esecuzione da parte dell’interprete: una vocalità semplice e naturale, come l’orchestrazione, priva di grandi arrangiamenti. La canzone diventava letteratura e la letteratura canzone, unita alla pittura, alla grafica, come mostrano i disegni che ritroviamo tra i loro scritti teorici, o le copertine dei loro dischi, o le scenografie dei loro spettacoli. Opera d’arte totale, si potrebbe dire.

In questo progetto rigeneratore i Cantacronache furono tra i primi a intravedere un’alternativa al sistema della produzione e distribuzione propri del mercato discografico e culturale di massa deciso dalle major, praticando l’autoproduzione e mantenendo un approccio artigianale alla creazione artistica che, nell’esclusione dalle dinamiche commerciali, ha implicato la ricerca di luoghi e modalità comunicative al di fuori dei circuiti convenzionali, dei palcoscenici televisivi, delle grandi case discografiche, delle radio. Una scelta, o l’unica soluzione possibile e in questo senso rivoluzionaria, dettata dall’urgenza di esprimere idee e contenuti, spesso controcorrente, in libertà. Un sistema che, probabilmente, avrebbe aperto la strada alle successive etichette discografiche indipendenti[68] [De Angelis et. al. 2007].

Bibligrafia

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Fonti

Interviste

Tratte da Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica, a cura di Bentini M., Cassanelli S., Davì L., Dondi E., Fabbri R., Ferrari C., Macori S., Tonini A., DVD, Master in Comunicazione Storica dell’Università di Bologna, in collaborazione con l’Istituto Storico Parri Emilia Romagna, 2011):

Amodei Fausto, Reggio Emilia, 7 luglio 2010.

Carrattieri Mirco, Reggio Emilia, 7 luglio 2010.

Jona Emilio, Torino, 21 ottobre 2010.

Liberovici Andrea, Bologna, 1 luglio 2010.

Margot [Margherita Garante Garrone], Venezia, 3 gennaio 2011.

Marini Giovanna, Bologna, Libreria Feltrinelli, 28 maggio 2010.

Straniero Giovanni, Bologna, Istituto Parri, 27 novembre 2010.

Articoli

8 morti e 64 feriti per un’esplosione di grisou, «La Sicilia», 18 febbraio 1958.

Il Comune di Chieti contribuisce, «L’Espresso», agosto 1958.

Svastiche e torture: sono ricomparse le svastiche a Roma e in altre città, «Il Giorno», 3 gennaio 1960.

Roma. I cittadini del quartiere ebraico scendono in piazza contro una provocazione fascista, «L’Unità», 5 gennaio 1960.

Intervista a Fausto Amodei, «L’Unità», 1 maggio 2002.

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Condannati a Torino gli autori del libro contro il franchismo, ritaglio senza riferimenti.

Gli editori europei solidali con Einaudi. Franco teme lo stornello, «L’Espresso», 20 gennaio 1963.

I “canti della nuova resistenza spagnola”. La Marsigliese degli ubriachi, «Lo Specchio», 20 gennaio 1963.

La canzone scenderà in terra, «L’Espresso», 23 marzo 1958.

Piovene G., Canzoni, ma vere, «Epoca», 16 agosto 1959.

Processati Einaudi e i canti spagnoli, ritaglio senza riferimenti.

Tafferugli e proteste contro l’editore Einaudi denunciato per oscenità e vilipendio alla religione, ritaglio senza riferimenti.

Violenta nota del governo spagnolo contro l’editore torinese Giulio Einaudi, ritaglio senza riferimenti.

Archivio personale di Giovanni Straniero

I libri più letti della settimana, «Vie Nuove», 24 gennaio 1963.

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Ecco gli uomini che abbatteranno Franco, «Le Ore», 21 febbraio 1963.

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Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica, a cura di Bentini M., Cassanelli S., Davì L., Dondi E., Fabbri R., Ferrari C., Macori S., Tonini A., DVD, Master in Comunicazione Storica dell’Università di Bologna, in collaborazione con l’Istituto Storico Parri Emilia Romagna, 2011.

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Pontecorvo G. 1966, La battaglia di Algeri, Roma: Igor Film.

Trasmissioni televisive

Buonasera con... Italo Calvino, 1979, Teche Rai.

Festival di Sanremo, 1954-1962, Teche Rai.

Riprese originali

Celebrazione del Cinquantesimo dei morti di Reggio Emilia, Reggio Emilia 7 luglio 2010, archivio privato.

Fonti audio

Da Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, CD, Torino: Edizioni Elytra, DDT& SCRIPTORIUM associati, 1995:

La canzone dei fiori e del silenzio, testo di E. Jona, musica di S. Liberovici.

La zolfara, testo di M.L. Straniero, musica di F. Amodei.

Canzone triste, testo di I. Calvino, musica di S. Liberovici.

Per i morti di Reggio Emilia, testo e musica di F. Amodei.

Oltre il ponte, testo di I. Calvino, musica di S. Liberovici.

Dove vola l’avvoltoio?, testo di I. Calvino, musica di S. Liberovici.

Il ratto della chitarra, testo e musica di F. Amodei.

Canzone del popolo algerino, testo di M.L. Straniero, musica di F. Amodei.

Partigiano sconosciuto, testo di Anonimo, musica di S. Liberovici.

Da Cantacronache 3:

Partigiani Fratelli Maggiori, testo di M.L. Straniero, musica di F. Amodei.

Il tributo, testo di E. Jona.

Canti di protesta del popolo italiano, di E. Jona e S. Liberovici, Vinile, Roma: Italia Canta, 1960-61.

Da Canzoni di protesta del popolo italiano e canzoni della Resistenza, CD, Udine: Nota, 2008.

Amore ribelle, testo di P. Gori, interpretata da F. Amodei.

Il crack delle banche, testo di U. Barbieri, 1896.

Inno individualista, (Anonimo), interpretata da F. Amodei.

Reggio Emilia, 7 luglio 1960, «Vie Nuove», Vinile, Roma: Editori Riuniti.

Note

[1] Marini G., intervista rilasciata a Bologna, Libreria Feltrinelli, 28 maggio 2010, in Bentini et al. 2011.

[2] «Già ai tempi del liceo classico – ricorda il nipote Giovanni Straniero – faceva del giornalismo con Vattimo, Einaudi, Eco. Era un funambolo della parola». Straniero G., intervista rilasciata a Bologna, Istituto Parri, 27 novembre 2010, in Bentini et al. 2011.

[3] «Noi eravamo degli intellettuali di sinistra genericamente, cattolici o comunisti o socialisti, ma di un’area di un cattolicesimo progressista». Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[4] «Liberovici era allievo di Mila, faceva la critica musicale su «L’Unità»; scriveva musica colta: aveva musicato dei Balletti, aveva già lavorato con Calvino, sul testo La Panchina, di qualche anno appena precedente l’inizio dell’esperienza con Cantacronache». Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[5] Amodei F., intervista rilasciata a Reggio Emilia il 7 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[6] Amodei F., intervista rilasciata Reggio Emilia, 7 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[7] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[8] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011. Jona fa riferimento a Eco, Frammenti in Diario Minimo del 1963.

[9] La musica gastronomica era un prodotto industriale che «non perseguiva nessuna intenzione d’arte ma il soddisfacimento delle richieste del mercato», tanto pervasiva da poter quasi orientare il mercato e determinarne le richieste, ed «era volta alla soddisfazione di esigenze [...] banali, epidermiche, immediate, transitorie e volgari» [Eco 1964, 5].

[10] Per un approfondimento sui giovani degli anni Sessanta cfr. Alfassio-Grimaldi e Bertoni 1964.

[11] «In chiave prepasoliniana – dice Amodei – contestavamo che il miracolo economico avrebbe ottuso parecchie volontà di cambiamento e parecchie istanze non rivoluzionarie, o per lo meno di grandi riforme. Alcuni ci dicevano: – che male c’è se dopo la guerra e la ricostruzione e aver stretto la cinghia si voleva consumare di più, non è che facesse tanto male –. Ma noi eravamo molto calvinisti in questo senso»: Amodei F., intervista rilasciata a Reggio Emilia, 7 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[12] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[13] Intervista a Fausto Amodei, in «L’Unità», 1 maggio 2002.

[14] Si rimanda a Liperi 2011, Jachia 1998, Pivato 2002, Bermani 1997, Berselli 1999, Bernieri 1978.

[15] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[16] Liberovici A., intervista rilasciata a Bologna il 1 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[17] Piovene G., Canzoni, ma vere, «Epoca», 16 agosto 1959.

[18] La canzone scenderà in terra, «L’Espresso», 23 marzo 1958.

[19] La zolfara, testo di Straniero M.L. e musica di Amodei F.: Jona e Straniero 1995, 192 (https://soundcloud.com/storicamente/la-zolfara).

[20] 8 morti e 64 feriti per un’esplosione di grisou, «La Sicilia», 1958.

[21] Nel periodo in cui scrive questa canzone, Michele L. Straniero stava maturando un cambiamento nel suo rapporto con la religione, come spiega il fratello Giorgio Straniero: «Aveva modificato la sua posizione religiosa, per accedere a una visione del cristianesimo non regolata dal principio di autorità, sia in sede pratica che in sede dottrinale [...]. La più efficace rappresentazione di questa forma di religiosità immanente, incarnata nella realtà profonda dell’umanità che soffre, è data dalle parole della canzone La zolfara in cui Gesù Cristo decide di intervenire a sanzionare l’episodio della miniera con un gesto significativo»: Straniero e Barletta 2003, 33.

[22] Canzone triste, testo di I. Calvino e musica di S. Liberovici: Jona e Straniero 1995, 131 (https://soundcloud.com/storicamente/canzone-triste).

[23] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[24] Il ratto della chitarra, testo e musica di Amodei F.: Jona e Straniero 1995, 122-123 (https://soundcloud.com/storicamente/il-ratto-della-chitarra).

[25] «Il Giorno», 24 febbraio 1958.

[26] La guerra era finita, testo di Parenti F.: Jona e Straniero 1995, 214-216.

[27] Il Tributo, testo di Jona E.: Jona e Straniero 1995, 168.

[28] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[29] Il Comune di Chieti contribuisce, «L’Espresso», agosto 1958.

[30] Per i morti di Reggio Emilia, testo e musica di Amodei F.: Jona e Straniero 1995, 116-117 (https://soundcloud.com/storicamente/per-i-morti-di-reggio-emilia).

[31] Vedi alcuni articoli di quotidiani: Svastiche e torture: sono ricomparse le svastiche a Roma e in altre città, «Il Giorno», 3 gennaio 1960; Roma. I cittadini del quartiere ebraico scendono in piazza contro una provocazione fascista, «L’Unità», 5 gennaio 1960.

[32] Carrattieri M., intervista rilasciata a Reggio Emilia il 7 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[33] Ibid.

[34] «L’Espresso», 10 luglio 1960.

[35] Gli articoli di Carlo Levi furono pubblicati settimanalmente su «Abc» e riproposti in La nuova Resistenza, suppl. al n. 7-8, 1960, «Rinascita».

[36] Cfr. Dorfles P. et al. 2007, Gli anni ’70. Antologia delle inchieste di “Cronaca”, DVD n. 2, Appunti sul lavoro in fabbrica: un’ora in fabbrica (Arese, 1977), Roma: Rai Trade.

[37] Carrattieri M., intervista rilasciata a Reggio Emilia il 7 luglio 2010, in Bentini et al. 2011.

[38] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 10 ottobre 2010, in Bentini et al. 2011.

[39] Partigiani Fratelli Maggiori, testo di Straniero M.L., Musica di Amodei F.: Jona e Straniero 1995, 185 (https://soundcloud.com/storicamente/partigiani-fratelli-maggiori).

[40] Partigiano sconosciuto, testo di Anonimo, musica di Liberovici S.: Jona e Straniero 1995 (https://soundcloud.com/storicamente/partigiano-sconosciuto).

[41] Note al testo sul libretto del CD allegato a Jona e Straniero 1995.

[42] «L’Unità» Milano, 26 ottobre 1960.

[43] Ibid.

[44] Canzone del popolo algerino, testo di Straniero M.L., musica di Amodei F.: Jona e Straniero 1995, 180-181. Nel documentario Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica, le parole della canzone sono accompagnate delle immagini del film La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, Igor Film, Roma, 1966) e alcune riprese degli scontri avvenuti ad Algeri tra esercito e rivoluzionari nel 1960 (L’epoca delle riforme. Il miracolo economico di Valerio Castronovo, in Storia del capitalismo italiano, DVD n. 8, Rai Trade, Roma, 2008) (https://soundcloud.com/storicamente/la-canzone-del-popolo-algerino).

[45] Su Calvino autore di canzoni cfr. Falcetto 1995.

[46] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 21 ottobre 2010. Cfr. anche Cevaso F., Italo Calvino cantautore Indie Pop, «Corriere della Sera», 2012 (http://lettura.corriere.it/italo-calvino-cantautore-indie-pop).

[47] Oltre il ponte, testo di Calvino I., Musica di Liberovici S.: Jona e Straniero 1995, 133 (https://soundcloud.com/storicamente/oltre-il-ponte).

[48] Dove vola l’avvoltoio?, testo di Calvino I., musica di Liberovici S.: Jona e Straniero 1995, 131-132 (https://soundcloud.com/storicamente/dove-vola-lavvoltoio).

[49] Jona E., intervista rilasciata a Torino il 10 ottobre 2010 in Bentini et al. 2011.

[50] Portelli 1975, 252. Ne dà conferma anche Fausto Amodei: «Di ricerche sulla canzone popolare – dice – se ne stava interessando Roberto Leydi che in un primo momento si era occupato dei canti di protesta americani. Infatti, il termine canto di protesta, utilizzato anche da Cantacronache, viene da un libricino scritto da Leydi Ascolta Mister Bilbo!. Poi arrivò Cersare Bermani e il gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano con i Dischi del Sole che lavorarono molto sulla ripresa e riproposta del canto sociale tradizionale»: Amodei F., intervista rilasciata a Reggio Emilia, 7 luglio 2010 in Bentini et al. 2011. Sullo stesso argomento anche Straniero è molto preciso: «Questa espressione “canti di protesta”, non era farina del nostro sacco, bensì l’adattamento alla situazione italiana di quel protest song statunitense del quale Tullio Kezich e Roberto Leydi davano documentazione in quegli anni con la pubblicazione del volumetto Ascolta Mister Bilbo!»: Jona e Straniero 1995, 68.