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Dibattiti

I cattolici, il Risorgimento e l'Unità d'Italia: fra lungo conflitto ed evento provvidenziale

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Celebrare e soprattutto comprendere

Entro la nostra gravissima crisi i 150 anni dell’Unità nazionale hanno assunto una funzione decisiva di riflessione su di sé del paese. È importante che la Chiesa abbia deciso di esserci, di celebrarne il senso, riconoscendo il valore delle tante adesioni di cattolici al processo unitario. Non è una novità: già anni fa Paolo VI definiva la caduta del potere temporale «un fatto provvidenziale».

Ma per celebrarlo degnamente, come cittadini e come cristiani, dobbiamo chiederci quale errore fu alla base del lungo conflitto che ha diviso questo paese, e, in parte, lo divide ancora: la rimozione di questa domanda rivela un residuo di ambiguità, l’insufficiente lettura delle lezioni della storia: celebrare l’anniversario comporta interrogarsi su cosa mancò ieri e potrebbe mancare ancora oggi.

Molti cattolici avvertirono allora la sfida che si poneva per la coscienza religiosa, cioè più che la questione dell’indipendenza e della libertà italiana, il rapporto fra Chiesa e modernità, di fatto il futuro della Chiesa. È in questo spirito che affronterò il tema.

La rivoluzione moderna, partita dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, ha avuto assi ideali insieme convergenti e che hanno rilevato nel tempo la loro contraddizione: il primo è il grande tema dei diritti, della eguaglianza e libertà, in particolare della libertà di coscienza e delle responsabilità dirette del cittadino nella guida della cosa pubblica; il secondo è la scoperta della politica, come strumento per cambiare radicalmente il mondo e l’uomo, insieme come rivoluzione e come senso della vita, ideale supremo, nuova religione terrena, dovere collettivo. Si rischia però così di non avvertire il limite che deve segnare la politica, il suo dipendere necessariamente più da ciò che è vivo e si muove nella società — dando più forza alle tensioni positive — che dall’ideologia astratta. Scoppola ha simboleggiato questi due aspetti del moderno in Tocqueville e Rousseau [Scoppola 2011, 107-109].

Oggi sappiamo che dal secondo sono nati anche gli ideologismi, i totalitarismi, i centralismi dello Stato etico, l’assolutezza della politica che rischia di insidiare i valori propri del primo.

La Chiesa (a differenza di molti credenti) condannandoli formalmente a lungo entrambi come identici, non ha distinto nella sua polemica l’opposto rapporto di essi con il messaggio evangelico. La gerarchia cattolica, con l’eccezione del Concilio Vaticano II, si è mobilitata, sia contro le libertà, a partire da quella di coscienza — assimilata all’indifferentismo ieri, al relativismo oggi, ma in realtà forma della fraternità e dignità dei figli di Dio — sia contro l’illusione di onnipotenza della nuova politica. Ma la stessa Chiesa aveva già consolidato in sé l’illusione del ruolo determinante e decisivo dell’esercizio del potere, che ha ritenuto di confermare come strumento adatto a respingere il nuovo. E si è trattato di un’illusione assai più pericolosa, per il suo messaggio e per la sua stessa identità profetica, del riconoscimento del primato della coscienza e comunque spesso contrario ad esso.

Fra la posizione ufficiale della Chiesa, intesa come istituzione religiosa e stato temporale e le coscienze singole di molti credenti ci fu così uno iato, una distanza, ora faticosamente attenuata da un sofferto bisogno spirituale di unità, ora anticipatore di abbandoni e crisi religiose, in pratica un di più non inevitabile di secolarizzazione del paese.

Cattolici identitari?

Per un’analisi compiuta delle posizioni dei cattolici, si devono distinguere più periodi: dalle repubbliche giacobine del 1796-1799 alla Restaurazione e alla incubazione dell’idea risorgimentale nei decenni seguenti; dall’esplosione neo guelfa e al suo fallimento intorno al 48-49, alla leadership piemontese degli anni cinquanta fino alla presa di Porta Pia; dopo il 1870 con la prevalenza dell’intransigenza intorno alla questione romana fino all’emergere esplicito di un movimento cattolico democratico.

Qui c’è un problema ancora oggi di massima attualità: è davvero la politica in senso stretto il luogo di verifica dell’identità cattolica, sia se unitaria sia se divisa?

Per i primi decenni, è difficile parlare di cattolici in termini identitari, distinguere chi è cattolico da chi non lo è o non lo sarà più. L’Italia era un paese generalmente cattolico e ci si considerava tali anche dalla prospettiva del razionalismo illuminista o di una spiritualità di frontiera (penso al filone giansenista). IL triennio giacobino, l’avventura napoleonica con i suoi effetti e le sue delusioni, una restaurazione miope e meschina, videro un alternarsi delle posizioni individuali, in cui l’auto-definizione identitaria è ancora di pochissimi.

Già però nel triennio giacobino ci sono testi, raccolti col titolo significativo La religione amica della democrazia [Giuntella V. E. 1990] che parlano della fratellanza e dell’uguaglianza, come ritorno evangelico alle origini, di una maggiore distinzione fra Stato e Chiesa: scritti, anche diversamente motivati, di laici, di singoli sacerdoti, e fin di cardinali, come il Chiaromonti che sarà poi Pio VII (e come tale cacciato da Roma da Napoleone) che pure aveva scritto nel 1797: «la forma democratica adottata fra noi, non è in opposizione, nè ripugna al Vangelo… Esige le virtù che s’imparano alla scuola di Gesù»

L’esperienza napoleonica mise in parte fine a quelle illusioni, sia per le tentazioni tiranniche dei governi francesi sia per il conflitto con Pio VII, che impressionò molti cattolici: e ci furono anche i primi segnali della violenta reazione intransigente contro la gloriosa e anticipatrice Repubblica Partenopea. Ma resterà di quel periodo il retaggio delle esperienze, sia amministrative che militari, di molti giovani, che maturarono in quel quadro un’idea nuova della patria e dello Stato che si identificava con l’Italia (qualcuno scrisse allora «avevo un paese, ora ho una patria»). Furono questi giovani i primi a opporsi con i moti del 1821 all’oscurantismo della restaurazione, in cui ci sono presenze cattoliche e no, senza che si possa distinguerne le motivazioni, sacerdoti e laici vittime che segneranno il futuro dell’Italia.

Vorrei ricordarne uno fra i tanti, Roberto D’Azeglio (fratello di Massimo e del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio) già funzionario napoleonico, sospettato per i moti del 1821, esiliato a lungo in Francia, e poi ritornato in Italia dove impegnerà vita e patrimonio suoi e di sua moglie per l’istruzione di ragazzi e ragazze e si batterà per l’emancipazione di ebrei e valdesi (che significava di fatto anche l’introduzione del matrimonio civile).

Sono difficilmente individuabili i credenti convinti che abbiano partecipato alle società segrete, alla Carboneria e poi alla Giovane Italia di Mazzini: ma questo anche perché il cattolicesimo liberale italiano, come hanno scritto in più occasioni Passerin e Scoppola, a differenza di quello francese, nasce come movimento più culturale e religioso che politico. I luoghi di elaborazione noti vedono presenze che anticipano orientamenti diversi, Balbo e Santarosa nell’Accademia dei Concordi a Torino, altri come Pellico nel Conciliatore a Milano, o Lambruschini, Tommaseo, Ricasoli nella cerchia fiorentina intorno a Viesseux e alla Nuova Antologia. L’intellettualità italiana del tempo si è risvegliata insieme, sia quando è ancora segnata dall’esperienza illuminista e dall’eredità di Muratori, sia quando il nuovo clima romantico le fornisce stimoli nuovi.

È stato scritto «La restaurazione fu epoca di grande mobilità ideale e i trapassi avvennero in tutte le direzioni e furono il lievito più profondo della sua cultura» [Traniello F. 1994] I drammi vissuti, mettono in evidenza non solo la crisi irreversibile del secolare sistema del rapporto Chiesa-Stati, ma i mutamenti di quello fra società e religione. Accanto alla secolarizzazione esplicita guidata dalle nuove borghesie, c’è sia la fortuna del Genie du Christianisme di Chateaubriand e del movimento di Saint Simon — per una società insieme tecnologica, egualitaria e fortemente religiosa — sia l’enfasi religiosa di Mazzini, ma anche un bisogno di reagire dei cattolici che segnerà diversamente l’intero secolo, fra una maturazione spirituale consapevole in positivo dei mutamenti necessari e una riaffermazione dell’intransigenza.

De Maistre nel Du Pape del 1819, riscopre, contro il giurisdizionalismo degli Stati, il ruolo determinante del Papa quale guida e legittimazione dei governi, unica forza spirituale e temporale che può riportare al rispetto dell’autorità e della legittimità dei sovrani. Ma una riflessione contrapposta è espressa già dal Manzoni nelle Osservazioni sulla morale cattolica scritto nello stesso anno: «la morale cattolica è indifferente ai sistemi politici perché chiede all’uomo di essere giusto sotto qualsiasi sistema… Solo attraverso la mediazione della coscienza degli uomini che la vogliono ascoltare la religione cristiana cangerà le istituzioni quando siano dannose» [in Traniello F. 1994, 21].

Nella nuova spiritualità c’è anche la spinta ad un pragmatismo — che non fugge il mondo, ma è orientata al mondo come luogo della propria testimonianza — e il ritorno sui temi della riforma della Chiesa da parte di tutta una serie di intellettuali e protagonisti cattolici: Niccolò Tommaseo ma anche Ricasoli, Lambruschini, Capponi — ispirati da Saint-Simon — e talora con una visione della politica come strumento della riforma della Chiesa. Ma la riforma è comunque sentimento diffuso nei credenti consapevoli delle difficoltà ad affrontare il nuovo.

In questo senso i maestri principali sono sicuramente Manzoni e Rosmini, i quali stimolano con efficacia la percezione di un mutamento del ruolo della religione nella rinascita di una società ordinata, attraverso una tensione spirituale di fatto riformistica, che si intreccia con un maggiore senso della responsabilità personale — e sarà anche all’origine di nuove congregazioni educative[1], pensiamo in particolare sia a quelle femminili[2] sia a quella di Don Bosco.

Uniti da una lunga, profonda amicizia, Manzoni e Rosmini hanno entrambi nettissimo il senso delle novità del secolo e la necessità di affrontarlo attraverso la costruzione di una sorta di repubblica delle lettere, basata su grandi amicizie e relazioni intense, che segneranno la loro vita. Per entrambi il cristianesimo è la sorgente della vera libertà, ma per questo la religione deve tenersi lontana dagli interessi del potere e dall’uso della forza, non deve ridursi a religione nazionale, deve proteggere i deboli e gli oppressi. L’uno e l’altro, a me pare, riescono a mantenere la costruzione dell’Italia e la riforma della Chiesa come problemi separati e autonomi, pur essendo consapevoli del loro intreccio.

La parola di Antonio Rosmini Serbati, un grande filosofo, sarà interna all’esperienza religiosa di cui avverte la necessità del rinnovamento culturale e pedagogico, con una spiritualità fondata sulla carità, sulla ricerca intellettuale, sul dovere della competenza: fonderà l’Istituto della Carità, ma proporrà anche riforme costituzionali centrate sulla persona, non si riconoscerà nell’ideologia del tempo della piena perfettibilità del mondo attraverso la politica. Scriverà con coraggio già dal 1831 — poi pubblicandolo nel 1848 — Le cinque piaghe della Chiesa, in cui sottolinea l’esigenza di una riforma della Chiesa da sé stessa e per sé stessa, non come strumento o effetto di una politica: in esso affronta il dato di una liturgia non partecipata, l’insufficiente formazione del clero, le divisioni fra i vescovi e la loro nomina politica, il rapporto non esemplare con i beni e le ricchezze della Chiesa.

La funzione formativa di Manzoni è più rivolta alla società nel suo insieme, in un epoca di trapasso culturale: dalle Osservazioni sulla morale cattolica, agli Inni Sacri e poi col clamoroso successo de I Promessi sposi, sarà uno dei costruttori più popolari di un’idea dell’Italia, ancorata alla forza di una lingua e di una grande letteratura comune, in cui riesce a trasmettere l’idea della compatibilità fra le novità del mondo e una spiritualità esigente; aderisce alla causa nazionale caratterizzandola con le sue poesie, respinge il confederalismo, vota con entusiasmo, come senatore, la nascita del Regno d’Italia del 1861, accetterà, dopo il 1870 la cittadinanza onoraria di Roma, convinto che la perdita del potere temporale è provvidenziale per la Chiesa.

Dalla Mirari Vos al protagonismo cattolico neoguelfo

Il momento in cui la sfida proposta ai cattolici diviene evidente, e insieme costituisce problema, verrà dalla Francia, dai fatti: l’affermazione della monarchia di luglio sulla base di un nuovo costituzionalismo, nel 1831, la nascita del Belgio con la scissione dai Paesi Bassi in nome della libertà religiosa dei cattolici entro la libertà tout court, i relativi moti italiani negli Stati Pontifici, di segno antitemporalistico e separatistico, stroncati dall’Austria.

Lamennais, un sacerdote francese, si era mosso inizialmente sulla linea tradizionalista e ultramontana di De Maistre e De Bonald. Il nuovo orizzonte politico, legato anche al crescere del pauperismo, muta radicalmente la sua posizione. Sul suo giornale, «L’Avenir» sostiene che cristianesimo deve allearsi con le libertà di coscienza, di stampa, di associazione, favorire l’estensione del suffragio alle masse, il ristabilimento delle associazioni operaie, la separazione della Chiesa dallo Stato, liberando la nomina dei vescovi. La sua ipotesi vedeva soprattutto la Chiesa, sciolta dai legami con lo Stato, come protagonista di questo cambiamento del mondo, della costruzione di questo Regno di Dio in terra, e sarà giustamente definita da autori non sospetti una sorta di «teocrazia democratica» [Verucci 1973]. Molti italiani ne restarono colpiti (da Tommaseo a Lambruschini). Rosmini lo commentava così: «Il Lamennais vide il capo del filo, ma temo che non sappia sgomitolarlo, ma avvolgerlo e intricarlo di più» [De Giorgi 2003, 459]. Scriverà proprio allora Le cinque piaghe della Chiesa.

Lamennais non solo non ebbe l’appoggio del Papa, su cui contava. La risposta fu, nell’agosto del 1832, durissima, con l’enciclica Mirari Vos, in cui il papa Gregorio XVI condannava tutti i principi del liberalismo religioso e politico, quel «delirio» che era la libertà di coscienza, la «detestabile» libertà di stampa. Respingeva inoltre la tesi di spezzare la concordia fra la Chiesa e lo Stato, fra l’Impero e il sacerdozio, vantaggiosa al governo temporale e spirituale.

Ma, correggendo le forzature di Lamennais, restò forte su molti italiani l’influenza liberale di Lacordaire, Montalambert, Dupanloup.

Si profila allora in modo più netto ed evidente la doppia posizione dei cattolici di fronte alla novità del mondo, il peso ideologico della questione religiosa in sé e come questione romana, si intreccia coi temi del primato dell’indipendenza o della libertà, della confederazione o dell’unità statale italiana.

Aveva già gettato un seme, rinnovando la storica divisione italiana fra guelfi e ghibellini, la querelle fra gli storici sul ruolo svolto in Italia dal Papato: aveva impedito la costruzione di un’unità politica statuale, o difeso l’identità nazionale con i comuni, contro l’invasione dell’Impero tedesco?

Non condivido lo schema guelfi e ghibellini. Da una parte sono ideologizzazioni della storia italiana che non sempre ricostruiscono criticamente, nel bene e nel male, il ruolo determinante del papato; dall’altra l’opposto compiacimento politico identitario non favorirà la formazione di una comune identità nazionale. Lo sottolineò lucidamente De Gasperi nell’ultima lettera scritta a Fanfani prima di morire, invitandolo al superamento dello steccato fra guelfi e ghibellini.

Oltre tutto fra i sostenitori della linea neoguelfa ci furono anche molti non cattolici o cattolici tiepidissimi ma favorevoli ad un processo politicamente moderato. La divisione politica in realtà era fra chi proponeva un passaggio radicale, tendenzialmente repubblicano, e in qualche modo inevitabilmente talora anche rivoluzionario e violento, e chi puntava ad una crescita di volontà collettive, ma sapeva che era necessario sia un consenso internazionale sia un compromesso confederale, sopratutto con lo Stato della Chiesa per uscire dalle strettoie. Il neoguelfismo, entro una vicenda europea che sembrava volgere verso una evoluzione liberaleggiante pacifica, rappresentava, con le sue molte varianti interne, la linea di un accordo con la Chiesa, di fatto con lo Stato della Chiesa, e col potere temporale sul terreno dell’indipendenza, di una confederazione contrattata e di un costituzionalismo moderno.

L’Italia finì come vedremo col costruirsi attraverso una mediazione fra le due spinte, con un drammatico fallimento nel 1848 e una per certi versi imprevedibile convergenza nel 1860.

Preparato in una chiave politicamente assai più laicamente motivata da Cesare Balbo, il neoguelfismo diventò bandiera politica popolare con la pubblicazione del Il primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti nel 1843 che lega strettamente l’identità nazionale italiana alla storica presenza della Chiesa in Italia.

Il primato uscì nel 1843, in un’Italia che viveva non solo i costi della irrilevanza politica, ma anche quelli concreti di un ammodernamento impossibile per le troppe frontiere, le dogane e lo scartamento delle ferrovie, per l’istruzione pubblica, per il rapporto fra le Università e perfino per lo sviluppo della scienza e per la circolazione delle scoperte scientifiche, come vide con lucidità Massimo D’Azeglio. Il testo di Gioberti apparve comunque come una ipotesi risolutrice, pacificatrice che trovava il favore dell’opinione pubblica e di molti protagonisti attivi.

Era un’illusione, perché la tesi della confederazione presieduta dal Papa e l’eliminazione del condizionamento austriaco presentavano troppi problemi. L’elezione di Papa Mastai Ferretti, Pio IX, che da cardinale nel 1845 aveva espresso dure critiche sull’amministrazione politica degli Stati della Chiesa, sembrò a un paese in tensione aprire uno spiraglio. Fra l’amnistia ai condannati politici e il «Benedite gran Dio l’Italia», Pio IX si trovò a fare da spinta a una volontà collettiva, a una speranza, alla determinazione di molti, comune sia ai cattolici, fieri di questa imprevista leadership papale, sia ai laici e laicisti diffidenti di essa, ma che la vedevano come un utilissimo strumento provvisorio. Va ricordato non solo che lo scoppio mondiale del '48, partì da Palermo, nella forma di una rivoluzione autonomista, ma soprattutto che ivi ad essa parteciparono in prima fila gli allievi di un gesuita, in qualche modo singolare: Padre Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello di Massimo e di Roberto, fermissimo nella difesa della Chiesa e che sarà poi fra i fondatori di «Civiltà Cattolica» e ispiratore del movimento intransigente. Egli aveva tentato una mediazione col suo libro Saggio teoretico sul diritto naturale e in qualche modo sostenne la legittimità di quella ribellione, pagandone il prezzo.

Anche nello scoppio e nel primo sviluppo del '48, da Brescia a Bergamo a Milano a Venezia, in Toscana e nelle Legazioni e con l’accorrere di tanti giovani in Piemonte per arruolarsi nell’esercito piemontese, come poi nell’avventura dei Mille, sarebbe improprio rispolverare la distinzione guelfi-ghibellini. La canzone più popolare l’Addio mia bella addio (il cui inizio riecheggia nel Bella Ciao della Resistenza) è come segnato, in due versi, da questa presenza: «ma se in battaglia io moro, in ciel ti rivedrò».

C’erano certamente ipotesi diverse in campo, più estreme e ostili anche alla stessa monarchia piemontese, come in Cattaneo e Mazzini, e più moderate e conservatrici, come in Balbo e D’Azeglio, ma si giocavano su temi più politici, quali Monarchia o Repubblica.

Come noto, fu determinante la decisione di Pio IX per il ritiro delle truppe romane al comando del generale Durando. Partirà da lì la rottura fra il movimento unitario e la posizione ecclesiale. A pensarci bene fu una singolare contraddizione. Con quel ritiro, motivato dall’universalità della Chiesa che non gli consentiva di partecipare a un conflitto, il Papa confessava, senza avvertirla, proprio l’impossibilità di un potere temporale dello Stato della Chiesa in una fase in cui gli Stati per definizione armavano eserciti e battevano moneta. Sottolineando l’universalismo cancellava l’idea giobertiana di un’identità italiana tutta giocata sulla presenza della Chiesa, quasi come una religione nazionale.

La Repubblica romana, con le sue luci e le sue ombre, fu l’esito di quella contraddizione. A mio avviso, tuttavia, il vero segnale dell’incapacità della Chiesa di comprendere quella fase, di assumere il ruolo che toccava a lei in quel processo dagli esiti politicamente difficili e imprevedibili, sta nella condanna delle Cinque Piaghe di Rosmini, avvenuta a Gaeta nel 1849, durante la Repubblica Romana, e non solo per timori di natura ecclesiale, ma anche per l’opposizione dell’ambasciatore Austria, col pretesto di difendere il diritto dei loro sovrani di nominare i vescovi[3]. Fu lì, a mio avviso, che si determinarono la distanza della Chiesa ufficiale rispetto al nuovo che avanzava, la divisione delle sensibilità cattoliche più avvertite — spesso in quanto tali socialmente privilegiate in un epoca di diffusa miseria e analfabetismo — e la difficoltà a coinvolgere gli strati popolari: il tirarsi fuori della Chiesa da quel processo che si è giustamente chiamato Risorgimento non fu rappresentato solo dalla querelle politica sulla questione romana e su singoli passaggi legislativi; fu ancor prima e con effetti assai più gravi per la cultura del paese e dei ceti popolari, la mancata riforma, vorrei dire il mancato “risorgimento” culturale interno alla Chiesa come tale, se volete la forma comune dei cattolici di declinare il mutamento del mondo.

I cattolici entro l’Italia Unita

Nel decennio che preparò il risultato del Sessanta, in quello che portò al 20 settembre, e poi lungo la storia del Regno, restò una forte presenza attiva di cattolici liberali convintamente tali e anche dei protagonisti attenti al fatto religioso ma sempre più delusi del modo di essere Chiesa e, anche quando critici della legislazione Siccardi del Piemonte, spinti a una progressiva laicizzazione spirituale. Nella memoria autobiografica di uno dei migliori uomini della Destra storica, Marco Minghetti, è così ricostruito un decisivo colloquio che ebbe con Pio IX nel 1857, su una linea che coinvolge attivamente molti personaggi, spesso cattolici, delle Legazioni pontificie — Bologna, Ravenna, Forlì Ferrara — per convincerlo ad accettare negli Stati della Chiesa le proposte istituzionali coerenti col delinearsi della prima strategia cavouriana.

Ricordo l’impressione fortissima che me ne rimase, quando uscito dall’udienza, era già notte, scendevo lentamente quel colle sotto un cielo stellato e nel silenzio che favoriva la meditazione. Le sorti erano gettate: ogni speranza era tornata vana. [Era] l’ultima occasione che si offriva al Governo Pontificio [e] perduta questa Il Piemonte sarebbe stato unico erede delle speranze italiane. Mi ritornavano alla mente le speranze concepite anche dai più circospetti, l’entusiasmo universale, la fiducia di amicare la religione con la libertà.

Indi, necessità quasi fatale, prendevo con più risolutezza il cammino che guidava all’abolizione del potere temporale dei pontefici[4].

Poi ci furono gli alti e bassi della Seconda guerra d’indipendenza, la determinazione toscana e delle Legazioni, con un ruolo decisivo di molti ancora cattolici, a non accettare il compromesso franco-austriaco, il successo clamoroso della spedizione dei Mille (anche in questo caso, quanti di questi giovani erano cattolici?), l’occupazione piemontese di ampi territori dello Stato della Chiesa.

Infine ci fu la proclamazione del Regno d’Italia con la scelta formale di dichiarare Roma capitale e i discorsi di Cavour alle Camere, che, riletti oggi, danno anche il senso della lucidità delle previsioni. Aldilà del noto motto «libera Chiesa in libero Stato», ove l’errore fu semmai nella preposizione «in», Cavour dice esplicitamente, che il potere temporale poteva essere una garanzia per la Chiesa in un mondo di monarchie assolute, non lo era più nel mondo delle costituzioni e della libertà, dove la vera garanzia era la libertà stessa.

La lezione che ci lascia il processo di costruzione dell’unità e che la difficile mediazione fra le spinte più radicali e la prudenza dei moderati, fra Cavour, Rattazzi e Garibaldi, si realizzò sostanzialmente come inevitabile risposta alla resistenza della Chiesa ad adeguare la sua istituzione alle nuove esigenze del mondo e della società italiana: sta qui lo specifico del rapporto Stato-Chiesa in Italia, che divise il Paese in due ma non ne fermò la nascita. Sta qui, forse, anche il segno provvidenziale imprevedibile degli errori della Chiesa che porterà alla costruzione di un’unità statale piena al posto di una improbabile confederazione segnata da un generico costituzionalismo.

E la Chiesa rinunciava ormai a controllare la forma che avevano preso gli eventi. Il segnale dell’inadeguatezza fu il Sillabo con la serie delle 80 proposizioni condannate, ora principi magistrali ora rilievi banali e approssimativi, e soprattutto con l’ultima che dichiara falso che «il Romano Pontefice debba riconciliarsi con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna». Presto si sarebbe sanzionato, sia pure senza chiarire la natura del vincolo, il cosiddetto «Non expedit»: né eletti, né elettori.

Di fatto la pastorale tutta difensiva della Chiesa avrebbe finito col ricorrere alle suggestioni di una devozionalità sentimentale ripetitiva, centrata sui Sacri Cuori e sull’enfasi pratica, oltre la stessa definizione del Concilio sull’infallibilità papale.

Durante il Regno, e anche dopo il 1870, i cattolici liberali, sia pure con meno richiami a temi di principio, rilanciano il tema della conciliazione fra Stato e Chiesa, per cui si parla di conciliaristi; questo si ripete con varianti nel tempo, sembra peggiorare con la sinistra storica, ritornare, ma per poco, con Leone XIII. Nel 1862 un gesuita della «Civiltà Cattolica», il Padre Passaglia lanciava in questo senso un Indirizzo del clero italiano a Pio IX firmato da seimila sacerdoti. Un vescovo, Mucedola, nel 1861, ammonì, di fronte al Papa e alla congregazioni romane a «non convertire in guerra religiosa una contesa politica». E nel tempo non mancheranno scritti autorevoli di vescovi, come Scalabrini e, in primo luogo, Bonomelli, contrario al «non expedit», che vide condannato all’indice un suo scritto, in cui proponeva quel che poi avvenne: uno Stato autonomo della Chiesa con un territorio dall’estensione simbolica[5]. Ci saranno riviste, come «La Rivista Universale» che ebbe come motto «Cattolici con il Papa, liberali con lo Statuto» più tardi «La Rassegna nazionale» di Da Passano, in cui, Stoppani, Gallarati Scotti e una donna, Sabina Parracino Revel, sostennero la causa "dell’americanismo"[6], cioè della distinzione fra Stato e chiese praticata negli Usa; e ancora scrittori, intellettuali, politici più o meno noti, fra cui Tosti, Bonghi e Fogazzaro[7]. Ma il clima, favorito dall’affermarsi spesso ideologico del positivismo, si arroventava sensibilmente, in particolare dopo la caduta della destra storica.

Il limite del cattolicesimo liberale, di fatto aristocratico ed elitario, fu, certo involontariamente, quello di finire con l’identificarsi con la conservazione sociale, senza riuscire tuttavia a costruire un vero partito conservatore, nemmeno di fronte alla nuova pressione socialista. I numerosi esponenti di tale linea (fra gli altri Campello, Cenni, Da Passano, Capecelatro, Toscanelli, Cantù) mantennero prevalentemente una linea fra neutra e contraria all’occupazione forzata di Roma; e d’altra parte ritennero che la responsabilità del fallimento del loro disegno fu l’astensione legata al «non expedit».

Di fatto Il cattolico identitario è ora soprattutto un intransigente, che pratica il «né eletti, né elettori».

Ciò che più conterà però è che fra questi cattolici alcuni non si accontenteranno di una protesta impotente. Nacquero le associazioni laicali, prima soprattutto quella dei giovani — Acquaderni e Sassoli — poi con l’appoggio dei più adulti l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, una organizzazione di laici, pur con importanti presenze del clero più autorevole. Spero che nessuno si scandalizzi se dico che questa, di un protagonismo diretto di laici cattolici sugli affari del mondo, comunque motivato, fu una delle più importanti novità interne della Chiesa. In tutta Europa, e con molta ricerca cattolica, da Ozanam ai convegni di Malines, si poneva il problema della condizione operaia e del crescente pauperismo e l’insufficienza della tradizionale assistenza caritativa, con al centro tre questioni aperte: l’associazionismo operaio, l’intervento statale, la determinazione del giusto salario. Nemmeno l’Opera dei Congressi italiana poteva restare bloccata entro le difficoltà della questione romana. Espresse la propria voglia di contare impegnandosi anche su questo terreno, che fu assunto esplicitamente dal nuovo Papa Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum. L’enciclica fu, aldilà della sua prudenza formale, uno straordinario fattore di mobilitazione sia di laici che di sacerdoti, di ricerca teorica e di fondazione di società di mutuo soccorso, di casse rurali, di leghe di cooperative, di sindacati operai, di attenzione al mondo contadino, pur segnata dal timore della presenza socialista. E fu una mobilitazione che coinvolse soprattutto le giovani generazioni, che presto maturarono una nuova cultura, una nuova spiritualità attenta al mondo e ai segni dei tempi, la coscienza di una responsabilità politica propria, nell’esercizio della cittadinanza, oltre le proteste per la questione romana, battendosi per una democrazia che potesse essere compatibile col cristianesimo.

Qui saranno riscoperte e rivivranno via via di fatto, fra Toniolo, Meda, Maori, Murri, Valente, Migliori, Grandi, le verità del cattolicesimo liberale risorgimentale, la scoperta della politica come dovere dell’uomo, il valore positivo della conquista di tutte le libertà, anche quelle di coscienza: con essi anche le prime femministe cristiane Adelaide Coari, Luisa Anzoletti, Nelina Sturzo scoprivano il valore e il senso della battaglia per il voto alle donne[8].

Fra tanti nomi possiamo mettere anche il giovane De Gasperi, con le sue cooperative trentine e, fra il numeroso clero, alto e basso, anche il giovane segretario del Vescovo di Bergamo, don Angelo Roncalli.

È stato scritto giustamente, in occasione delle celebrazioni, che il rapporto dei cattolici con il paese si misura anche su questo terreno sociale e locale, con il volontariato popolare che cominciò a esprimersi allora sistematicamente e su progetti condivisi. Ma il risultato più importante di tutto questo fu appunto la saldatura ideale che si ricostruì di fatto fra le capacità di ascolto del nuovo da parte del cattolicesimo liberale e l’intransigenza della testimonianza religiosa. Questo intreccio si vedrà ancora, in pieno Novecento, intorno alla vicenda modernista, da Buonaiuti a Gallarati Scotti, a Antonietta Giacomelli.

Darà il segno di una sintesi avvenuta, nel 1905, Luigi Sturzo, nel famoso discorso di Caltagirone che segna un passaggio fondamentale:

I cattolici, distaccandosi dalle forme di una concezione pura clericale, che del passato storico formava un’insegna di vita e nel presente una posizione antagonista, si mettano a pari degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale

Ed escludendo che «si potesse fare una bandiera del contenuto religioso della nostra vita civile e sociale» aggiungeva «noi ameremmo che il titolo di cattolici, caro alle convinzioni religiose degli italiani, non fregiasse il nostro partito e i nostri istituti»[9]. Ribadì questa linea nella nascita del PPI.

Sturzo avrebbe contribuito, entro una lettura laicamente datata dell’esperienza del Regno, a maturare quelli che saranno gli assi portanti di un punto di vista “cattolico”, nel senso di originato come tale ma accettabile da altre sponde. Essi si caratterizzano per essere basati sul limite della politica, e come tale dello stesso Stato, anticipando da una parte la fine della sovranità nazionale assoluta, per una coerente sopranazionalità europea e universale e, dall’altra, il valore delle autonomie locali e sociali, che lo Stato deve rispettare in nome dei valori della «persona come singolo e nelle formazioni sociali in cui si sviluppa» come dirà la Costituzione grazie anche al contributo di cattolici. Una visione della società assai più articolata del classismo di sinistra, la quale contemporaneamente tiene conto in realtà, con il tanto criticato interclassismo, di una pluralità di soggetti in conflitto e della ricerca del governo pacifico del conflitto sociale.

La storia dovrà pur registrare che, assumendo una spiritualità attiva nel mondo, cattolici liberali e intransigenti democratici si sono resi, pur diversamente, protagonisti della costruzione di una Italia unita e della fine provvidenziale del potere temporale della Chiesa. E con il loro protagonismo laicale, spesso legato al movimento liturgico, all’interesse ecumenico, alla pratica della lettura della Parola, teologicamente aggiornata, hanno imposto di fatto una pur parziale e solo iniziale riforma della Chiesa grazie all’autonomia fra il cittadino credente e l’autorità religiosa, anticipando il Concilio Vaticano II. In realtà molti laici cattolici hanno in due secoli deciso da soli quando e come intervenire in politica, senza bisogno di sollecitazioni da parte della Chiesa, e continueranno a farlo. È la riforma della Chiesa, il suo articolarsi istituzionale, cioè l’idea e la forma del suo potere, al centro e nelle comunità locali, del suo rapporto con il denaro, del suo rapporto con il potere politico, che è rimasta da fare, per la Chiesa e perché serva anche all’Italia, come sappiamo tutti bene; ed ora è necessario soprattutto per questo che prenda la parola il popolo di Dio.

Bibliografia

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Note

[1] Circa l’influenza saintsimoniana, in particolare sui gruppi toscani, cfr. Pitocco 1972.

[2] Per il tema del nuovo protagonismo femminile cattolico nello stesso periodo rimando a Gaiotti 2006.

[3] cfr. De Giorgi 2003, 459.

[4] Tutta la vicenda di quei giorni è narrata in dettaglio, con testi autografi dello stesso Rosmini in Lucienne Portier 1998, nel capitolo Anni cruciali; anche Clemente Riva [1970], si ferma sul ruolo decisivo dell’Ambasciatore d’Austria.

[5] Cit. in Tomassini S. 2011, 152. L’intero testo di Bonomelli, pubblicato in Rassegna Nazionale nel 1889, si trova in Scoppola 1967.

[6] L’intero testo di Bonomelli, pubblicato in Rassegna Nazionale nel 1889 è nella raccolta di Scoppola 1967.

[7] Sulla Rassegna Nazionale cfr. Gentiloni Silveri 2004.

[8] Per il femminismo cristiano, cfr. Gaiotti 2003.

[9] Il discorso di Caltagirone di Sturzo è stato riportato come discorso chiave da Gabriele De Rosa [Sturzo 1958]. Il brano qui ripreso è stato citato anche da Aldo Moro, nella sua commemorazione dopo la morte di Sturzo nel 1961.