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La politica come esistenza autentica e la storia come narrazione: Hannah Arendt e l'esperienza totalitaria

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Nota in tutto il mondo come filosofa politica, sebbene abbia sempre preferito definirsi un «pensatore» politico, Hannah Arendt è senza dubbio una delle personalità intellettuali più complesse e significative del Novecento. Costantemente controversa e mai allineata, testimone consapevole della tragedia del proprio tempo, ella si è assunta il difficile compito di impegnarsi nella comprensione del male che ha segnato il XX secolo e che ha fatto di lei, come di milioni di altre persone, un’esule, un’apolide, una sradicata. Le origini del totalitarismo resta ancora oggi la testimonianza più sofferta e più lucida dello sforzo da lei compiuto di illuminare l’evento più tragico che l’umanità abbia mai conosciuto, di rendere conoscibile ciò che non sarebbe mai dovuto accadere e che si configura come un momento estremo di rottura nella storia occidentale: si può dire che l’opera del ’51 costituisca in un certo senso il momento fondamentale del suo complesso percorso esistenziale e intellettuale, l’esito maturo delle riflessioni elaborate in Francia e proseguite negli Stati Uniti, e nello stesso tempo il punto di partenza dal quale costruisce la sua teoria politica. Si può dire, in sostanza, che tutta la produzione della Arendt sia in qualche modo un’indagine continua, affrontata da una prospettiva in cui all’analisi degli elementi storici si innestano costantemente teorizzazioni di carattere filosofico e politico, del fenomeno totalitario.

Le origini del totalitarismo è un’opera che svela i suoi segreti un po’ alla volta e che richiede molte letture prima di essere compresa in profondità. Ciò avviene perché la sua complessa stratificazione risponde perfettamente a un approccio metodologico che non può essere definito propriamente “accademico”, e che spazia liberamente tra molteplici suggestioni di carattere storico, filosofico, politico, letterario che si connettono tra di loro secondo la modalità del racconto che è propria dello stile e del pensiero di Hannah Arendt, e che rispecchiano appieno la sua ricca formazione intellettuale. A tal proposito è necessario osservare come tale formazione, benché stimolata e arricchita dal confronto con la realtà statunitense, avvenga essenzialmente in Europa e si ispiri principalmente alla cultura europea: pur rimanendo legata al nuovo paese che la ospita e al quale guarda come un esempio di democrazia in cui la nazionalità dominante non si identifica con lo Stato, la Arendt privilegia senza dubbio le fonti europee a quelle americane in un percorso che fa proprie con assoluta naturalezza la filosofia politica dell’antica Grecia, la poesia tedesca, la letteratura dell’Europa orientale, la fenomenologia tedesca e francese, la tradizione ebraica dei pariah e quella rivoluzionaria della partecipazione diretta dei cittadini alla cosa pubblica.

L’eterogenea strutturazione di questo strano capolavoro, che si snoda attraverso l’intreccio di molteplici storie e singoli episodi che improvvisamente si addensano nell’evento totalitario, deriva quasi certamente dalla presa di distanza dell’autrice rispetto alle posizioni espresse dalla tradizione storicistica tedesca, intendendo con ciò non solo la dottrina, di ispirazione hegeliana, che concepisce la storia come svolgimento reale e necessario, o quella più propriamente fideistica sostenuta da Troeltsch e Meinecke; ma anche il dibattito degli ultimi decenni dell’800, che riceve un sostanziale contributo dal pensiero di Max Weber, in merito ai problemi del metodo e della spiegazione della realtà storica, della storia intesa come un sistema di connessioni causali concrete, del legame che unisce ricerca storica e scienze sociali. Sebbene il modello di spiegazione weberiano non possa essere quello di una “deduzione” degli avvenimenti da leggi generali, per Weber ogni scienza si avvale sempre della spiegazione causale, ed essa non può fare a meno non soltanto di concetti generali, ma anche di “regole empiriche”, di leggi [1]. L’obiezione principale che la Arendt muove alle scienze sociali presuppone il netto rifiuto dell’autrice di assumere la storia come insieme di eventi sottoposti a leggi o a “regolarità”: le scienze sociali, infatti, attraverso l’esercizio della predizione e della ripetizione, negano la novità dei fenomeni, come quello totalitario, riconducendoli al già noto e riconducendo sempre ad altro l’azione umana, a cause psicologiche, sociali, culturali, economiche [2]. Al contrario l’azione umana, col suo carattere spontaneo e imprevedibile, si inserisce in un contesto di relazioni già date e difficilmente consegue lo scopo perseguito, di conseguenza il fatto storico trascende sempre i fattori che lo hanno determinato. Scrive lei stessa in un articolo del 1954:

La causalità, comunque, è una categoria assolutamente estranea e ingannevole nelle scienze storiche. Non solo il significato effettivo di ogni evento in verità trascende qualsiasi serie di cause passate che possiamo attribuirgli […] ma questo stesso passato viene alla luce solo con l’evento stesso. Solo quando qualcosa di irrevocabile è avvenuto possiamo cercare di ricostruirne la storia: l’evento illumina il proprio passato, non può mai essere dedotto da esso [3].

In nota si legge:

Tra gli elementi del totalitarismo vanno incluse anche le sue origini, se per origini non intendiamo cause. Gli elementi in quanto tali non causano mai nulla. Essi diventano origini di eventi se e quando si cristallizzano improvvisamente in forme immutabili e definite. È la luce stessa dell’evento che ci consente di distinguere i suoi elementi reali da un numero infinito di possibilità astratte, ed è sempre questa stessa luce che deve guidarci all’indietro nel passato sempre oscuro e incerto di questi elementi stessi. In questo senso, è corretto parlare delle origini del totalitarismo, o di qualsiasi altro evento storico.

In tutta l’opera della Arendt è possibile scorgere una sorta di corrispondenza tra analisi degli avvenimenti concreti e riflessione concettuale, in una rete di rimandi e sollecitazioni imposte dall’urgenza di confrontarsi con il mondo reale e dalla necessità di fornire risposte nell’ambito della teorizzazione filosofico-politica. La storia come narrazione è dunque l’espediente che l’autrice utilizza per ricostruire gli avvenimenti, mettendo in risalto la loro singolarità e tracciando un quadro che privilegia le azioni umane piuttosto che le forze impersonali della storia: in questo senso il rifiuto della processualità configura l’evento come «crocevia di itinerari possibili» [4], e rappresenta il perno attorno al quale ruota la generale teoria politica dell’autrice. L’obiettivo di questo lavoro, pertanto, è quello di mettere in risalto la stretta connessione tra la teoria politica arendtiana e la struttura dell’opera.

La Arendt cominciò a scrivere Le origini del totalitarismo negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1946, ma già in Francia aveva in mente di intraprendere un lavoro sull’ antisemitismo e sull’imperialismo, una ricerca storica su quel fenomeno che allora chiamava «imperialismo razziale» [5], vale a dire l’oppressione delle minoranze nazionali da parte della nazione dominante di uno Stato sovrano. Il titolo provvisorio era Gli elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo e razzismo, e sarebbero passati sei anni prima di giungere al titolo definitivo e alla struttura tripartita che conosciamo. I tre elementi, spiega la Arendt, sono ciascuno espressione di un insieme di problemi politici reali alla base del fenomeno totalitario, sorti sullo sfondo della disintegrazione dello Stato-nazione ottocentesco e del collasso delle strutture politiche e sociali. Proprio all’interno di questa cornice si sviluppano gli elementi che costituiscono la trama dell’opera: la questione ebraica, la nuova organizzazione dei popoli, l’organizzazione di un mondo che diventa sempre più piccolo, la nuova concezione del genere umano.

La trattazione del problema degli apolidi in particolare, tema molto caro alla Arendt anche in relazione alla sua esperienza personale, è senza dubbio la più rappresentativa per ciò che concerne il nesso tra la concezione della storia e della politica dell’autrice e la peculiare struttura dell’opera. Le considerazioni di Hannah Arendt sulla figura dell’apolide muovono infatti dall’analisi del fenomeno da un punto di vista storico-politico per poi giungere a una riflessione critica sulla questione dei diritti umani e sul paradosso caratteristico della cittadinanza moderna, cioè la coincidenza fra quest’ultima e la nazionalità come principio fondante dello Stato-nazione: mentre le dichiarazioni dei diritti dell’uomo di stampo illuminista proclamavano l’ammissione di tutti gli individui al riconoscimento sociale e giuridico, il mondo assisteva sempre più all’aggravamento dei fenomeni di esclusione, da un lato, e allo slittamento del tentativo di inclusione nella pratica dell’assimilazione dall’altro. Per comprendere appieno la catastrofe che si abbatte su individui che hanno perso la tutela di un governo e la garanzia di protezione dei diritti umani, è quindi necessario estendere il discorso alla più generale rappresentazione della politica che fornisce Hannah Arendt: infatti, solo inserita all’interno della sua riflessione politica la condizione degli apolidi risalta in tutta la sua drammaticità, perché viene affrontato direttamente il problema tragico della perdita del mondo. Punto di partenza è la distinzione del rapporto dell’uomo con il mondo secondo tre modalità: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire, che insieme costituiscono la vita activa. La prima, l’attività lavorativa, corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano ed è legata al circolo prescritto dal processo biologico all’organismo vivente, nel quale tutto ciò che il lavoro produce viene immesso e consumato immediatamente per rigenerare il processo vitale e riprodurre nuova forza lavoro. Al lavoro corrisponde la figura dell’animal laborans, l’uomo schiavo della necessità e dei bisogni del suo corpo, estraniato ed espulso dal mondo appunto perché imprigionato nella privatezza del proprio corpo. L’operare invece è l’attività il cui frutto corrisponde al mondo “artificiale”, caratterizzato dalla durevolezza e nettamente distinto dal mondo naturale; è l’attività dell’homo faber che letteralmente opera e fabbrica quell’infinita varietà di oggetti che saranno innanzitutto oggetti d’uso e solo secondariamente di consumo.

L’agire, sostiene la Arendt, è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini, e corrisponde alla condizione umana della pluralità, «al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo» [6]; la pluralità è la condizione preliminare di ogni vita politica ed è «il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà» [7]. Quindi possiamo dire che l’azione politica è l’attività specificamente umana, il luogo dell’esistenza autentica dove all’uomo è dato di realizzarsi come uomo e che scaturisce dalla libertà come potere di intraprendere qualcosa di nuovo. Strettamente connessa all’azione e categoria centrale del pensiero politico è pertanto la natalità, perché ogni nuova nascita dà inizio a qualcosa di nuovo. Spiega Enegrén:

Prima di tutto la nascita come venire al mondo è apparizione nel senso più forte: ogni nascita è l’inaugurazione di una linearità unica che rompe con l’eterno ritorno della natura poiché fa emergere nel mondo un essere che prima non esisteva. Similmente l’azione fa apparire l’inedito. Ma il concetto di natalità fornisce anche un punto d’appoggio ontologico all’agire, in quanto ogni azione si può intendere come l’eco dell’inizio di una vita essa stessa destinata a cominciare: la condizione umana di natalità, a questo titolo, si declina appunto al livello delle azioni particolari di cui costituisce l’archetipo metafisico. Se, infine, l’azione è appunto la risposta umana alla condizione di essere nato [8], ciò accade in quanto la nascita è, più originariamente, come matrice di tutte le azioni, la libertà prima che consente di rompere con il passato [9].

Solo nell’agire l’uomo è libero dalle necessità naturali e dagli imperativi della tecnica, e soprattutto dal rapporto strumentale mezzo-fine che introduce necessariamente un elemento di violenza. L’azione non è mai possibile nell’isolamento perché la sfera politica sorge direttamente dall’agire-insieme e dal confronto fra soggetti diversamente opinanti che si incontrano in uno spazio pubblico; questa pluralità è contraddistinta dal duplice aspetto dell’eguaglianza e della distinzione, dove all’eguaglianza di condizione politica, che si esplica nell’accesso di tutti allo spazio pubblico e nell’eguale partecipazione al potere, si affianca la distinzione intesa come possibilità di distinguersi dagli altri manifestando la propria peculiare identità. È proprio perché con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo che ci si può attendere l’inatteso dall’uomo: agire, ci fa notare la Arendt, ha proprio il significato di iniziare, come indica la parola greca archein, incominciare, condurre, governare [10]; e scaturisce dalla pluralità di essere unici, perché «se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, […] allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità» [11]. Per la Arendt, dunque, il discorso e l’azione sono le modalità essenziali attraverso le quali riveliamo questa unicità nella distinzione, come per Aristotele erano le uniche due attività stimate politiche e costitutive del bios politikos, da cui trae origine il dominio degli affari umani nel quale ogni considerazione sull’utile o sulla necessità era rigorosamente esclusa.

La concezione politica di Hannah Arendt si ancora saldamente alla riflessione sull’esempio storico della polis greca, dove l’azione veniva innalzata al rango supremo, perché essa «ha determinato in misura decisiva, sul piano linguistico e del contenuto, l’idea europea della reale natura e del senso della politica» [12]. Questo non significa che la Arendt vagheggi nostalgicamente un ritorno a quel tipo di esperienza; il suo scopo è quello di evidenziare come nell’esperienza greca si disveli uno spazio che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra i suoi pari, in contrasto con «l’espropriazione moderna della politica»[13] e l’irresistibile ascesa della macchina amministrativa contro la possibilità della politeia intesa come cittadinanza diretta. Va aggiunto che nel pensiero politico tradizionale Hannah Arendt vede il progressivo affermarsi di determinazioni non originarie dell’agire e del politico, come evidenzia Franco Volpi:

Esse non sono originarie nel senso che non poggiano su un coglimento genuino e appropriato dei caratteri specifici di tale campo fenomenico, ma lo comprendono invece nel quadro di un implicito privilegiamento della theoria, non messo in questione [14].

Il filo conduttore che attraversa le motivazioni originarie del progetto di Hannah Arendt è l’intento di una decostruzione del carattere teoretico del pensiero politico tradizionale, la quale, mutuando da Aristotele alcune strutture categoriali importanti, mira a spianare il terreno per una comprensione specifica dell’autenticità dell’agire come determinazione fondamentale del vivere umano.

Aristotele, ci dice la Arendt, distingueva diversi modi di vita che gli uomini potevano scegliere in libertà (la vita dei piaceri corporei, la vita dedicata alla polis e la vita del filosofo dedita alla contemplazione delle cose eterne), escludendo tutti quei modi di vita principalmente dediti alla conservazione della vita stessa, dunque l’attività lavorativa e l’operare. Infatti, poiché essi producevano ciò che era necessario, erano costretti dalle necessità umane e pertanto non potevano essere liberi, diversamente dalla vita politica che si svolgeva in una forma di organizzazione, la polis, liberamente scelta, e che presupponeva la costante presenza degli altri. Quindi, mentre la libertà risiedeva esclusivamente nella sfera politica, la necessità era soprattutto un fenomeno prepolitico caratteristico dell’organizzazione domestica privata, in cui il capo della casa reggeva la famiglia e i suoi schiavi. Poiché la polis rappresentava la forma più alta di convivenza umana, essere liberi e vivere in una polis erano in un certo senso la stessa cosa: tuttavia, per essere partecipe di questa esperienza, occorreva in primo luogo che l’uomo fosse già libero; non poteva essere né uno schiavo soggetto all’altrui coercizione né un lavoratore manuale soggetto al bisogno di guadagnarsi il pane quotidiano. Il mezzo decisivo per acquisire la libertà che avrebbe permesso la partecipazione alla vita politica e alla polis era la schiavitù, il potere di costringere altri ad assumersi l’onere del vivere quotidiano:

La polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’eguaglianza di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della più rigida disuguaglianza. Essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro, sia non essere in una situazione di comando. Significava non governare né essere governati. […] Essere liberi voleva dire essere liberi dalla disuguaglianza connessa a ogni tipo di dominio e muoversi in una sfera dove non si doveva né governare né essere governati [15].

Nella sfera domestica, quindi, non esisteva libertà, ma privazione dell’autenticità: in essa si realizzava l’emancipazione prepolitica per la libertà nella polis, e il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la propria casa per accedere alla sfera politica costituita dai suoi pari. Questa sfera, in cui si muovono uomini uguali, è caratterizzata dall’isonomia, dal pari diritto all’attività politica, che nella polis era prevalentemente un’attività dialogica. L’atto libero del discorso, nel mondo greco, è un surrogato del fare, o meglio, non vi è distinzione tra parlare e agire: in Omero infatti «chi compie grandi gesta deve sempre proferire anche grandi parole, e non solo perché le grandi parole devono accompagnare a mo’ di spiegazione le grandi gesta, che altrimenti, mute, cadrebbero nell’oblio, ma perché lo stesso parlare era considerato a priori un modo di agire” [16].

La capacità di dialogare, di comunicare con i molti e di esperire quella pluralità complessiva che è il mondo era l’effettivo contenuto del politico, perché soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare nella sua obiettività visibile: per questo la vita privata ai greci appariva «idiota”, perché le era negata quella pluralità di discorrere e con essa l’esperienza della realtà del mondo. Discorso ed azione venivano considerati equivalenti, e ciò significava che l’azione più politica si realizzava nel discorso, perché trovare le parole opportune al momento opportuno era l’unica risposta ai colpi inferti dagli dei. Essere politici, vivere nella polis, significava che tutto si decideva con le parole: per questo alla famosa definizione aristotelica dell’uomo come zoon politikon si affianca l’altra, altrettanto famosa, dell’uomo come zoon logon ekhon, un essere vivente capace di discorso. In base a questa determinazione, lo schiavo, il barbaro, chiunque si trovasse al di fuori della polis era considerato aneu logou, «privo, naturalmente, non della facoltà di parlare, ma di un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti i cittadini era di parlare tra loro» [17]. A garantire che la realtà fosse discussa e affermata da tutti e che tutti i pari avessero la possibilità di sperimentare effettivamente le condizioni di eguaglianza e libertà era lo spazio pubblico, l’elemento comune in cui tutti si raccolgono e in cui tutti gli oggetti possono risaltare nella loro poliedricità. La facoltà argomentativa, sostiene la Arendt, consisteva nella facoltà di vedere realmente le cose da diversi lati, cioè di assumere sul piano politico le tante possibili posizioni presenti nel mondo reale da cui la stessa cosa può essere osservata; lo spazio pubblico è il luogo nel quale una cosa può essere vista e udita da tutti, e vivere insieme significa essenzialmente «che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune […]; il mondo, come ogni in-fra (in-between), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo»[18]. La realtà della sfera pubblica si fonda sulla presenza simultanea di innumerevoli prospettive; ciascuno può essere visto e udito perché ciascuno vede e ode da una diversa posizione, e questo multiprospettivismo è l’unica garanzia della realtà del mondo, perché «solo dove le cose possono essere viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, […] la realtà del mondo può apparire certa e sicura» [19]. Parzialità e pluralità di prospettive sono due concetti essenziali che la Arendt condivide del resto con Merleau-Ponty, il quale ci suggerisce un’esperienza del mondo nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile e in cui gli oggetti sono reali perché penetrati da tutti i lati da un’infinità di sguardi: la pluralità di prospettive, che assicura la realtà e l’identità del mondo, «se è il mezzo che gli oggetti hanno per dissimularsi, è anche il mezzo che essi hanno per svelarsi. […] In altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli rivolgono» [20]. La facoltà di osservare la stessa cosa dai punti di vista più disparati fa sì che alla propria posizione determinata l’uomo sostituisca quella degli altri con i quali condivide il mondo:

Il cogito altrui – continua Merleau-Ponty – destituisce di ogni valore il mio proprio cogito e mi fa perdere la sicurezza, che avevo nella solitudine, di accedere all’unico essere per me concepibile, all’essere così come viene intenzionato e costituito da me. […] In realtà, l’altro non è chiuso nella mia prospettiva sul mondo poiché questa prospettiva stessa non ha limiti definiti e scivola spontaneamente in quella altrui, poiché sono entrambe raccolte in un unico mondo al quale noi tutti partecipiamo come soggetti anonimi della percezione [21].

Per questo motivo il senso comune è definito il senso politico per eccellenza, che a sua volta assume a modello il giudizio estetico kantiano espresso nella Critica del giudizio, il quale riguarda un oggetto assolutamente particolare (giudizio riflettente). Esso si radica «in una specie di sensus communis» come facoltà di giudicare che tiene conto, nella sua riflessione, del modo di rappresentare di tutti gli altri uomini, per mantenere il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso e per evitare l’illusione di ritenere oggettive delle condizioni particolari e soggettive. Il senso comune occupa un posto così rilevante nella gerarchia delle qualità politiche perché tramite esso i nostri cinque sensi riescono ad aderire alla realtà complessiva delle cose. Così il giudizio estetico-politico di Kant ci porta inevitabilmente agli altri (la Arendt parla di otherdirectedness, l’eterodirezione fondamentale del giudizio) grazie al senso comune tramite il quale gli uomini comunicano; infatti, sebbene il giudizio sia segnato da interessi soggettivi,

[…] il dibattito decanta e moltiplica questa soggettività che, invece di relativizzarsi, si conferma incessantemente nello scambio e acquista un’oggettività di nuovo genere, poiché il mondo che si offre nella discussione è interamente presente negli aspetti infinitamente diversi che presenta. […] Giudicare è scoprire un senso nel mondo, allo scopo di orientarsi in esso per un’azione il cui ambiente naturale è la contingenza nella quale essa deve sempre aprirsi un cammino, imprevedibilmente [22].

La parola, sostiene pertanto la Arendt, è rivelatrice, ed è anche manifestazione di colui che parla, il quale si scopre e si espone agli altri: egli è l’attore esposto agli occhi di tutti e che ha come testimoni coloro insieme ai quali agisce, che non è nulla senza l’eco che gli rimandano i suoi pari; in lui, essere-al-mondo e per-il-mondo, si intrecciano desiderio di vedere e desiderio di essere visto insieme all’incessante premura di distinguersi. Il singolo, nel suo isolamento, non è mai libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea soltanto dove si radunano molte persone e che può sussistere soltanto finché esse rimangono insieme; così, nel mondo greco, essa era limitata spazialmente dalle mura della città, coincideva con la polis al di fuori della quale non era possibile essere uomini politici. «L’infra – suggerisce la Arendt – è ciò che è autenticamente storico-politico […]: non è l’uomo a essere uno zoon politikon, o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito che sta tra di loro» [23]. Attraverso il recupero dell’etimo originario della parola “agire”, la Arendt vuole mostrare anzitutto la stretta connessione tra azione e inizio, e quindi, tra azione e novità, nel senso che solo agendo si può imprimere una svolta alla storia: per questo tutta la sua concezione politica si determina negativamente in rapporto alla natura, luogo della ineluttabilità in cui la spontaneità non riesce mai a collocare un elemento d’incertezza:

Solo nella sfera politica – commenta Paolo Flores d’Arcais – l’uomo attinge la propria «natura», si sottrae e contrappone cioè alla natura. Solo politicamente vive fino in fondo il tratto peculiare che, entro il mondo della natura, lo qualifica come uomo, lo individua rispetto alla spora e all’unicorno. Privato della politica, l’uomo è privato di ciò che appartiene solo a lui e che perciò gli è proprio, gli appartiene in modo eminente: la differenza [24].

La natura è sinonimo di un incessante trascorrere, di un ordine necessario in cui la spontaneità assoluta, «il segno della possibilità essenziale dell’essere liberi» [25], non trova espressione. Perciò l’azione è essenzialmente contro natura, nel senso che si sottrae alla in-differenza.

Dal carattere innovativo e libero che la Arendt imputa all’azione derivano i suoi esiti problematici e irrazionali, vale a dire la sua imprevedibilità e la sua irrevocabilità. Poiché imprevedibile, l’azione entra in modo del tutto inatteso in collisione con altre iniziative comportando ripercussioni non dominabili; essa possiede una straordinaria capacità di propagazione e innesta catene di conseguenze che sfuggono totalmente alle intenzioni degli attori. Poiché irrevocabile, ogni azione determina conseguenze incancellabili nelle quali impegnamo la nostra responsabilità, sebbene nessuno di noi sia in grado di valutare il senso oggettivo della propria azione, non perché non ne siamo del tutto gli autori, ma perché «essa è sempre interazione che suscita effetti di composizione perfettamente inattesi» [26]. L’intuizione fondamentale della Arendt consiste nel pensare che l’azione non dev’essere rappresentata secondo il rapporto strumentale mezzo-fine che governa la fabbricazione: per questo l’azione è essenzialmente energeia, “attualità”, nel senso di essere in atto, termine che Aristotele impiegava per designare tutte le attività che non perseguono un fine, ma esauriscono il loro significato nell’esecuzione stessa. L’azione è dunque fine a se stessa, perché il suo fine si trova nella stessa attività e perché esiste solo in pura attualità. Poiché non mira ad alcun bene tangibile, essa, come direbbe Lévinas, «richiede a coloro che la esercitano una posta a fondo perduto»[27]: in altre parole, «il mezzo per conseguire il fine sarebbe già il fine; e questo fine, d’altro canto, non può esser considerato come un mezzo anche a diverso titolo, perché non c’è nulla di più elevato da raggiungere che questa stessa attualità» [28].

La «triplice frustrazione» connessa all’agire – imprevedibilità dell’esito, irreversibilità del processo e anonimità degli autori – è il prezzo che l’uomo paga per poter esperire la realtà, e deriva in prima istanza dalla condizione umana della pluralità, il requisito preliminare di quello spazio dell’apparenza che è la sfera pubblica, lo spazio di visibilità in cui gli uni appaiono agli altri e si riconoscono a vicenda, che in sostanza costituisce la condizione di possibilità dell’essere-insieme. Poiché ognuno detiene una propria posizione delimitata nel mondo, la caratteristica dello spazio pubblico è quella di unire e separare allo stesso tempo, cioè di «articolare la pluralità attraverso relazioni che non siano né verticali né gerarchiche né di tipo fusionale» [29]. Colpisce subito come la Arendt definisca il suo concetto di politica a partire da una concezione puramente orizzontale del potere, prodotto dell’interazione discorsiva e pratica di individui liberi ed eguali, che esclude ogni tipo di professionalizzazione della politica ed ogni tentativo di sottrazione della sfera pubblica. Ciò che mantiene in vita la sfera pubblica è il potere che si genera dal vivere insieme delle persone, dal condividere parole e azioni; esso corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità e per questa ragione può essere diviso senza che diminuisca: «Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito» [30]. Il potere, quindi, consiste nella coesione dello spazio politico che si crea tra uomini che condividono parole e azioni, e pertanto non presuppone affatto la possibilità di sottomettere la volontà altrui. Anziché caratterizzare il politico secondo le categorie dominio/obbedienza, per Hannah Arendt non esiste politica dove c’è dominio: come per i greci la relazione tra governare ed essere governati era considerata identica a quella tra padrone e schiavo e di conseguenza precludeva ogni possibilità di azione, così la Arendt intende qualsiasi forma di assoggettamento come il sintomo di una perdita di potere dei cittadini riuniti che assume connotazioni fondamentalmente antipolitiche. La violenza è un principio opposto e incompatibile con il potere, non sarà mai potere, ma solo dispotismo e prevaricazione (sebbene la Arendt ammetta il ricorso alla violenza qualora l’uomo venga offeso nei fondamenti più elementari della sua dignità).

Per questo motivo propone un modello della politica che si ispira alla democrazia consiliare, individuando le molteplici occasioni in cui i cittadini hanno tentato spontaneamente di dar vita a forme di partecipazione diretta alla vita pubblica: le sezioni parigine della Rivoluzione francese, la Comune del 1871, i soviet del 1905 e del 1917, i Räte della Germania del primo dopoguerra, e infine i consigli della Rivoluzione ungherese del 1956. Il modello della democrazia dei consigli si delinea come un tentativo di frammentazione del potere, che si configura così come un potere con-diviso, «il che non vuol dire semplicemente distribuito fra tutti, ma fra tutti partecipato a partire da divisione, punti di vista parziali (di parte!), opinioni che per definizione non aspirano affatto a oggettività» [31]. L’estensione del potere deve avvenire attraverso una condivisione che prevenga la sua degenerazione in una forza monopolizzabile, proprio perché il potere è pluralità; in questo senso i consigli (e qui ancora una volta avvertiamo l’influenza di Rosa Luxemburg) sono stati la testimonianza di un movimento interamente politico che cercava di assicurare la partecipazione attiva delle masse popolari in una democrazia senza limiti. Come la Luxemburg, Hannah Arendt insiste sul fatto che la buona organizzazione non precede l’azione ma ne è il prodotto, e proprio per questo nei suoi scritti non troviamo altro che indicazioni sparse intorno all’idea di un’organizzazione orizzontale del potere, ma mai un programma preciso o uno schema stabilito che, come osserva Enegrén, «ipotecherebbe una creazione che non può che essere inattesa» [32].

Questo, a grandi linee, è lo sfondo che determina la riflessione della Arendt in merito al problema degli apolidi. È chiaro che, inserita in questo contesto, la condizione dei senza patria si carica di un senso tragico che deriva dall’essere considerati, una volta persi i diritti nazionali, nient’altro che nuda vita. Oltre ad aver perso la patria, vale a dire l’ambiente circostante, il tessuto sociale in cui si sono creati un posto nel mondo, e la protezione del governo con la conseguente perdita dello status giuridico in tutti i paesi, essi sono costretti a vivere al di fuori di ogni comunità. Per loro non esiste più nessuna legge: essi sono diventati perfettamente «superflui», perché «la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto» [33]. Su un numero crescente di persone si è abbattuta la sventura di aver perso una comunità disposta a garantire qualsiasi diritto: perdendo la comunità, essi sono considerati aneu logou, privi della capacità di instaurare ogni tipo di relazione umana e di intraprendere un’azione politica. In questo senso, si trovano condannati a vivere una condizione di superfluità che deriva dal fatto di non poter vedere né essere visti all’interno dello spazio pubblico, di essere privati della capacità di muoversi tra i propri pari e di riconoscersi come membri di una comunità composta di individui liberi ed uguali. Per i greci, un uomo che non poteva accedere alla sfera pubblica, che non poteva apparire, come lo schiavo o il barbaro, non era pienamente umano: questa è anche la condizione degli apolidi che, una volta costretti a vivere al di fuori di ogni comunità, sono confinati nella loro condizione naturale e ridotti a null’altro che rappresentanti della propria diversità assolutamente unica, l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo spogliata di ogni significato perché privata dell’azione in un mondo comune. La perdita della comunità politica pertanto equivale, nella concezione della Arendt, alla perdita dell’umanità: e «poiché soltanto i selvaggi non hanno più nulla da esibire all’infuori del minimo dell’origine umana, gli apolidi si aggrappano disperatamente alla loro nazionalità, che li distingue da quelli, pur non assicurandogli più né protezione né diritti» [34], perché rappresenta l’unico superstite legame con l’umanità. Dal momento che il concetto di politeia significa appartenenza attiva ad una comunità di uomini liberi, l’uomo può essere protetto solo da una comunità politica che permette di eguagliare le differenze e consente l’azione paritaria di individui e popoli diversi. La vita politica si fonda sul presupposto dell’instaurazione dell’eguaglianza attraverso l’organiz- zazione, poiché, sostiene la Arendt, non si nasce eguali, «ma si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti» [35]. Solo la politica, intesa come impegno contrario al ripiegamento nella sfera individuale, può ridare il mondo agli uomini: nella nuova congiuntura storica del primo dopoguerra, chi non possiede la nazionalità è come se non fosse nemmeno umano; l’espulsione dal mondo, la privazione di quello che la Arendt ha definito lo spazio dell’apparenza, sono come «un invito all’omicidio, in quanto che la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravviventi» [36].

La Arendt osserva che con la scomparsa dell’antica città-stato il termine vita activa perdette il suo significato originario e specificamente politico a favore di una concezione contemplativa della vita (bios theoretikos) che veniva elevata ad attività suprema dell’uomo e indicata come il solo modo di vita veramente libero. La superiorità della vita contemplativa ha origine nella filosofia politica di Platone, dove la riorganizzazione utopistica della vita della polis non ha altro scopo che rendere possibile il modo di vita del filosofo:

Platone, il padre della filosofia politica occidentale, ha tentato in vario modo di contrapporsi alla polis e alla sua idea di libertà. Lo ha fatto ricorrendo a una teoria politica in cui i criteri del politico sono desunti non dalla politica stessa ma dalla filosofia, a una dettagliata stesura di una costituzione le cui leggi corrispondono alla idee accessibili soltanto ai filosofi [37].

L’evento decisivo fu il conflitto tra il filosofo e la polis che data dalla morte di Socrate: con Platone si è affermato il primato del bios theoretikos e del modo di vita filosofico in opposizione alla futilità delle cose umane, poiché «nessuna opera prodotta dalle mani dell’uomo può eguagliare in bellezza e verità il kosmos fisico, che ruota nell’eternità immutabile senza alcuna interferenza o assistenza dall’esterno»[38]. La supremazia della contemplazione dell’eterno fa dell’apolitia una categoria privilegiata che riceverà la sua consacrazione dal cristianesimo. L’antipoliticità cristiana infatti, con il suo ripiegarsi sulla vita privata e sull’interiorità, si basava sull’assunto che il mondo non sarebbe durato, e fu in un certo senso la risposta destinata a tenere insieme una comunità di persone che avevano perduto il loro interesse nel mondo comune. Il cristianesimo, con la sua fede in una vita futura, invitava all’astensione dal mondo; poiché è questo, e non più l’uomo, ad essere mortale, è preferibile vivere calmi, occuparsi dei propri affari e rinviare qualsiasi forma di attività alle necessità della vita terrestre:

L’attività politica, che fino allora aveva derivato il suo più grande stimolo dall’aspirazione all’immortalità mondana, piombava ora al basso livello di un’attività soggetta alla necessità, destinata a riparare le conseguenze dello stato di peccato dell’uomo da una parte, e a provvedere ai legittimi bisogni e necessità della vita terrena, dall’altra [39].

L’insistenza cristiana sulla sacralità della vita tendeva oltretutto a livellare le antiche distinzioni all’interno della vita activa e a considerare il lavoro, l’opera e l’azione come tre modalità egualmente soggette alla necessità del presente.

In seguito, nell’età moderna, l’opera prese il posto della vita contemplativa al culmine della gerarchia dei modi d’essere, conseguenza della rivoluzione galileiana che faceva coincidere il fare e il sapere e garantiva il trionfo dell’homo faber, il cui modello artificialista si sarebbe imposto anche nel pensiero politico con l’introduzione del rapporto strumentale mezzo-fine. A questo proposito la Arendt parla di alienazione e di perdizione dell’individuo nel genere, dell’opinione politica nella regola tecnica, del luogo pubblico nell’universo della fabbricazione in cui vige, sopra tutti, il principio di utilità. Gli atteggiamenti tipici dell’homo faber, la sua strumentalizzazione del mondo, la sua fiducia negli strumenti e nella portata onnicomprensiva della categoria mezzo-fine, la sua convinzione che ogni motivazione umana possa essere ridotta al principio di utilità, hanno portato inevitabilmente ad una identificazione acritica della fabbricazione con l’azione. Infine, a partire dalla rivoluzione industriale, anche gli ideali dell’homo faber, il costruttore del mondo, sono stati sacrificati a favore di quelli dell’animal laborans che, con l’emancipazione del lavoro e l’avvento della società, è stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica: nella società moderna del consumo, infatti, rimaneva solo la forza del processo vitale, alla quale tutti gli uomini e tutte le attività umane erano egualmente sottomesse e il cui solo scopo era la sopravvivenza della specie dell’animale umano. L’apparizione e la visibilità del ciclo biologico del lavoro e del consumo in ultima analisi conducono al livellamento di tutte le possibilità di vita activa che viene ridotta alla pura soddisfazione delle necessità della vita. Nel ciclo produzione-consumo l’uomo non ottiene altro che un benessere istupidito:

L’ultimo stadio della società del lavoro, – afferma la Arendt – la società degli impiegati, richiede ai suoi membri un duplice funzionamento automatico, come se la vita individuale in effetti fosse stata sommersa dal processo vitale della specie e la sola decisione attiva ancora richiesta all’individuo fosse di lasciare andare, per così dire di abbandonare la sua individualità, la fatica e la pena di vivere sentiti ancora individualmente, e di adagiarsi in un attonito, tranquillizzato, tipo funzionale di comportamento [40].

La critica di Hannah Arendt verte principalmente sulla moderna scomparsa della sfera pubblica e della sua sostituzione con la sfera sociale: quest’ultima, che non è né privata né pubblica, è un fenomeno relativamente nuovo che ha coinciso con il sorgere dell’età moderna e ha trovato piena espressione politica nello Stato nazionale. Ciò che la Arendt intende quando parla di questo ibrido che è il sociale è l’estensione della comunità domestica (oikia), e delle attività economiche ad essa connesse, al dominio pubblico, e la gestione collettiva di faccende che precedentemente rientravano nella sfera familiare: «La collettività di famiglie economicamente organizzate come facsimile di una famiglia superumana è ciò che chiamiamo società, e la sua forma politica di organizzazione è la nazione»[41]. Fin dal principio la società è definita come una forma di comunità in cui l’economico, usurpando lo spazio prima riservato al politico, è trasportato nella visibilità del pubblico, e, come la sfera domestica, esclude la possibilità dell’azione che viene ora assorbita da un «potere amministrativo» sempre più esteso. Naturalmente questo avvento della società ha preteso da ciascuno dei suoi membri la conformazione a un certo genere di comportamento, arrogandosi il diritto di stabilire regole e norme per «normalizzare» la loro condotta e per designare come «anormale» chiunque sfugga alle tipologie stabilite: la società di massa è riuscita anche ad estinguere la sfera privata, controllando tutti i membri della comunità in maniera uniforme e con la stessa forza. L’eguaglianza moderna, riflette la Arendt, non è altro che il riconoscimento politico e giuridico del fatto che la società ha conquistato l’ambito pubblico, è cioè basata sul conformismo e sul fatto che «il comportamento ha sostituito l’azione come modalità primaria di relazione fra gli uomini» [42]. La critica alla società di massa condotta dalla Arendt si incentra sul problema della mancanza di responsabilità politica dei singoli e sui pericoli di una delega dell’azione politica a pochi esperti, tutti fattori che conducono ad una pericolosa chiusura degli uomini nella loro sfera lavorativa e alla perdita del mondo comune.

È proprio a partire da questo vasto quadro di riferimento che la peculiare struttura dell’opera, frutto di un complesso procedimento a ritroso teso a rintracciare i fattori che in qualche misura si sono cristallizzati nell’evento totalitario, appare motivata e in conformità con la visione politica della Arendt: infatti, l’assunzione e la descrizione della storia come insieme di eventi sottoposti a leggi – e la conseguente sottomissione alla coerenza che sottende il ragionamento logico e che è impossibile trovare nel reale –, significherebbe cancellare lo spazio per l’azione libera che sceglie, prodotta da individui che comunicano tra di loro. Non vi sarebbero più esistenze, ma solo le eterne leggi dell’essere nel suo processo causale: se vi è Storia, commenta allora Flores d’Arcais, non vi è futuro. Perché le filosofie della storia e la filosofia politica hanno in comune il fatto di non cogliere mai il nocciolo della politica: l’uomo che agisce come essere-con-gli-altri superando tutti i calcoli e le aspettative. Il pensiero politico di Hannah Arendt muove da premesse diverse: la vicenda umana è il luogo dell’inatteso, delle conseguenze impreviste e non pianificabili, e la contingenza degli eventi è il prezzo che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà, l’«abisso della libertà» dove il giudizio diventa la prassi della responsabilità.

Note

[1] Cfr. Pietro Rossi, Max Weber e la metodologia delle scienze storico-sociali, in Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, a c. di Marta Losito e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1988.

[2] Cfr. Mariuccia Salvati, Interpretazione storica e agire politico: Hannah Arendt in un recente libro di M. Cedronio, in «Rivista di storia contemporanea», estratto dal n. 4 / 1994-95.

[3] Hannah Arendt, Comprensione e politica, pubblicato originariamente in «Partisan Review», XX/4, 1954 (tr. it.in Archivio Arendt 2.1950-1954, a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 92).

[4] L’espressione è dello storico francese Paul Veyne. Cfr. al riguardo S. Forti, Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Franco Angeli, Milano 1996, p. 239.

[5] L’espressione è tratta da Franz Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Mondadori, Milano 1999, p. 209.

[6] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2001, p. 7.

[7] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 8.

[8] H. Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985, p. 222.

[9] André Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni Lavoro, Roma 1987, pp.43-44.

[10] A questo proposito la Arendt si richiama a una famosa frase del De Civitate Dei di Agostino, che non a caso chiude l’opera sul totalitarismo: Initium ergo ut esset , creatus est homo, ante quem nullus fuit («perché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno»).

[11] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 129.

[12] H. Arendt, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 28.

[13] Alessandro Dal Lago, La città perduta, in Vita activa, cit., p. XXI.

[14] Franco Volpi, Il pensiero politico di Hannah Arendt e la riabilitazione della filosofia pratica, in La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, a cura di Roberto Esposito, Edizioni QuattroVenti, Urbino 1987, p. 79.

[15] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 24.

[16] H. Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 37.

[17] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 21.

[18] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 39.

[19] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 43.

[20] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, pp.114-115.

[21] M Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 458.

[22] A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., pp. 136-137.

[23] Cfr. il Diario filosofico. Frammenti (1950-1964), riportato in Micromega. Almanacco di filosofia, n. 5/2003, novembre-dicembre, p. 32.

[24] Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Donzelli, Roma 1995, p. 3.

[25] S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, cit., p. 275.

[26] A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., p. 47.

[27] Questa definizione è tratta da A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., p. 56.

[28] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 152.

[29] S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, cit., p. 288.

[30] H. Arendt, Politica e menzogna, cit., p. 196.

[31] P. Flores d’Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, cit., p. 40.

[32] A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., p. 116.

[33] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 410.

[34] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 415.

[35] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 417.

[36] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 418.

[37] H. Arendt, Che cos’è la politica?, cit., p. 42.

[38] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 13.

[39] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 234.

[40] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 240.

[41] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 22.

[42] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 31.