Storicamente. Laboratorio di storia

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Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero (eds.), Gli operaisti

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La raccolta di interviste curate da G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero permette di mettere a confronto letture diverse di una stagione del pensiero politico e dell’analisi sociale che ha rappresentato un punto alto nel dibattito teorico dell’Italia del dopoguerra. Nell’introduzione viene individuato un punto di rottura nella storia dell’operaismo italiano del Novecento da una prima stagione di matrice produttivista, legata all’insegnamento di Sorel e del Gramsci di «Ordine Nuovo», che ritorna nell’esperienza intellettuale di Panzieri e Tronti, al tendenziale rifiuto del lavoro massificato di fabbrica che si riverbera nelle analisi e nelle posizioni politiche maturate alla fine degli anni Sessanta nell’esperienza di Potere Operaio.

Il clima intellettuale nel quale matura l’esperienza dell’operaismo italiano è fortemente improntato da due forti, e ben diverse, influenti figure, Raniero Panzieri e Mario Tronti, ma si avvale di apporti importanti, maturati all’esterno di quella corrente intellettuale e che pur hanno avuto un ruolo decisivo nel configurare il profilo intellettuale di molti dei suoi protagonisti: l’insegnamento di filosofia a Milano con Enzo Paci e a Roma con Galvano della Volpe, l’antropologia di de Martino, l’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia (un apporto questo particolarmente controverso perché su Dolci i giudizi si dividono radicalmente tra chi lo considera un fondamentale passaggio di formazione, come Gobbini, e chi invece lo considerava in qualche modo un avversario, data l’intonazione populista che tendeva ad assumere la sua opera, cfr. Di Leo), la ricerca etnografica e militante di Danilo Montaldi che promuove la conricerca, vale a dire una modalità della ricerca sociale che mira al superamento della separazione tra ricercatore ed operaio tra i quali si instaura un relazione dialogica finalizzata alla costruzione di un nuovo profilo politico-intellettuale; un metodo che era insieme di analisi e di intervento e che si distingueva dalla sociologia accademica, ma anche dall’inchiesta sociale di ispirazione panzieriana. Testo di riferimento fondamentale per gli operaisti erano i Grundrisse, dai quali Panzieri estrasse il fondamentale Frammento sulle macchine che delineava il divenire forza produttiva del sapere sociale. La classe operaia assumeva centralità euristica nell’analisi del capitalismo: erano le lotte operaie infatti a dettare le condizioni del meccanismo politico messo in essere dal capitale.

Le testimonianze raccolte disegnano anche una chiara geografia del primo operaismo, quella del gruppo torinese di giovani sociologi che si raccoglie attorno a Raniero Panzieri (di cui qui testimoniano Rieser e Beccalli), il gruppo romano più sensibile all’elaborazione teorica (Tronti, Asor Rosa, Di Leo, Gobbini), un gruppo lombardo che stava sviluppando percorsi di conricerca (Alquati, Gobbi, Soave), e il gruppo veneto che avrebbe poi dato vita a potere operaio (Negri, Zagato).

La cronaca dell’operaismo italiano è abbastanza nota. Il primo numero dei «Quaderni rossi» testimonia di un rapporto molto stretto con alcuni settori del sindacato, reso evidente dai contributi di Foa, Pugno e Garavini, ma il contatto si sarebbe presto interrotto a causa della difficoltà a mediare istituzionalmente la scoperta della soggettività operaia che stava maturando all’interno del gruppo. In particolare la conricerca sull’operaio massa immigrato metteva in luce un nuovo soggetto sociale che di lì a poco, con i fatti di Piazza Statuto, avrebbe mostrato apertamente il suo valore politico. A questo punto si andò profilando una frattura tra il gruppo di Panzieri, che dietro l’esplosione di quelle lotte vedeva uno sfondo anarchico spontaneista, e tutti gli altri che, pur con motivazioni differenti, ritenevano cruciale portare avanti quelle lotte. Da questa frattura nasce la rivista «Classe operaia» (mentre «Quaderni rossi» continua altri tre numeri per conto proprio), guidata da Tronti. Nell’intendimento di Tronti, «Classe operaia» doveva avere una funzione a termine perché l’obiettivo era quello di formare una classe dirigente nuova per riportarla dentro al PCI e modificarne la posizione, per gli altri invece la frattura con il PCI non era più ricomponibile e da questa posizione si arrivò alla creazione di Potere Operaio.

Le testimonianze raccolte contengono una pluralità di prospettive su queste vicende che restituiscono un quadro complesso e una narrazione talvolta anche molto godibile per gli aneddoti che assumono un significato rivelatore della passione politica e delle contraddizioni anche esistenziali che attraversano quella temperie. Impossibile perciò riassumere un’immagine unitaria delle tante storie che affollano questo ricco volume, ma c’è forse un aspetto sul quale, pur con accenti e giudizi politici diversi, sembra esservi un largo consenso: il limite di quell’esperienza si è manifestato nella difficoltà a comprendere i mutamenti della soggettività che segnavano il tramonto della centralità politica della classe operaia e nell’incapacità di individuare forme e linguaggi della politica adeguati all’esplosione della soggettività sociale.

R. Alquati manifesta un interesse per la pluralità della quotidianità operaia, per i sogni e i desideri che gli fa concludere: «Io sono solito dire che il padrone ha vinto a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta più coi rotocalchi che con le nuove tecnologie!» (p. 53). B. Beccalli individua nella coincidenza storica, prettamente italiana, della rivolta del Sessantotto con un forte radicalismo operaio il contesto che ha consentito la persistenza di un’analisi marxista delle tensioni sociali, più propensa ad uno sbocco organizzativo di tipo leninista delle lotte che sensibile alle innovazioni del linguaggio portate dai nuovi soggetti sociali. Bifo lamenta che all’esplosione del movimento negli anni ’70 non si sia riusciti a dare uno sbocco basato sull’autorganizzazione di strumenti di contropotere sociale che operassero sul corpo del tessuto culturale per sovvertirlo. Se con il Settantasette si fosse seguita quella strada non si avrebbero avuto forse i grigi anni Ottanta, ma fenomeni di sperimentazione sociale e culturale come quelli che hanno ad esempio caratterizzato la Germania degli anni ’80. Per Daghini la fine di Potere Operaio si registra nel conflitto tra chi intende assecondare le esplosioni delle molteplici istanze di autonomia della società e chi invece pensa a un indurimento militare dei gruppi. Tronti difende la continuità dell’evoluzione del suo pensiero negli anni ’70, con la tesi dell’autonomia del politico perché alla base di questa tesi vi era la stessa esigenza che lo aveva portato prima a fondare e poi a chiudere «Classe operaia», e cioè che la classe operaia dovesse dotarsi di una teoria e di una soggettività politica forti e che non fosse sufficiente l’autonomia del sociale. Tutto ciò aveva reso immune Tronti da qualsiasi propensione alla proliferazione dei gruppi e mantenuto molto stretto il suo rapporto con il PCI, decide di chiudere «Classe operaia» quando si accorge che la maggioranza dei suoi membri non era più interessata ad un rapporto con il PCI, ma lavorava proprio su un altro progetto, quello di promuovere soggettività politiche esterne al partito. A distanza di anni Tronti rivendica la serietà della sua posizione teorico politica, mentre individua gli errori di fondo di quella esperienza nell’analisi della società e cioè che la tesi di “Lenin in Inghilterra”, della più alta propensione rivoluzionaria laddove si raggiunge il massimo sviluppo del capitalismo era fondamentalmente sbagliata e che quella stagione di protagonismo operaio segnava il tramonto di un’epoca e non l’ingresso in un tempo nuovo.

Molte altre storie, intrecci, prospettive si possono trovare in questo ricco volume del quale preme rimarcare un omissione che incuriosisce il lettore. Manca il racconto della conduzione della ricerca, come sono stati scelti i testimoni, è stato facile sollecitare la loro riflessione su quella stagione biograficamente ormai lontana? Che resistenze si sono manifestate? Alcune assenze saltano agli occhi, ma non si capisce se derivino dalla mancata disponibilità degli interlocutori o da una scelta editoriale e intellettuale dei curatori. Certamente un criterio di fondo sta nell’aver cercato persone che abbiano mantenuto un rapporto quantomeno affettivo con quell’esperienza, impostazione che risponde agli intenti, non solo documentari, chiaramente delineati nell’introduzione e cioè fare emergere quanto vi è ancora di vivo in quella stagione intellettuale e politica.