Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Fili della memoria in un incerto presente: Berlino dopo l’89

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Ostalgie

Certo, talvolta si tratta di fantasmi ilari, giocosi e sottilmente ironici, non chiedono davvero il ritorno di ciò che è stato, segnalano soltanto una distanza da quanto di arrogante e di posticcio vi è nel nuovo. Good Bye Lenin! (2006) afferma con ironia la legittimità della memoria privata della vita nella Ddr, una memoria di donne e uomini che non possono lasciare seppellire la loro identità sotto le macerie del muro.

La miseria vergognosa di una dittatura che alimentava ipocrisia, sospetto, delazione, un generale degrado dei rapporti sociali non impedisce a Leander Haussmann, regista formatosi alle scuole di teatro della Ddr, di tradurre in film il romanzo di Robert Brüssig Am kürzerem Ende der Sonnenallee, rappresentando un 1973 vissuto a ridosso del muro, dalla sua parte est, con gli occhi di un diciassettenne innamorato e della sua compagnia di amici che si nutre dei prodotti culturali dell’ovest affermando la propria “resistenza culturale” all’asfittico controllo del regime. Nel delicato passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, le ferite del principio di realtà, che assume le sembianze viscide e al contempo impietose dei funzionari della Stasi, non mancano di lasciare un grumo di profonda amarezza, ma anche in questo film la memoria privata, quella dei propri amori e affetti, sembra superare quella pubblica della violenta dittatura, così come si prende gioco dell’arrogante sicumera della cultura dei vincitori.

Un popolo di prigionieri

Diversi sono i fili della memoria intessuti dai film che si confrontano con la dimensione pubblica del passato tedesco, rievocando l’epopea delle fughe da Berlino est, a cominciare dalla grande produzione del 2001 Der Tunnel, di Roland Suso Richter, che ricostruisce con grande suspence un episodio del 1962, quando una trentina di persone riuscì a fuggire con un piano a prima vista improbabile: scavando un tunnel sotterraneo di 135 metri che dalla cantina di un edificio abbandonato di Berlino est conduceva al di là del muro. Nel film sono rievocati altri episodi, fortunati e tragici, che hanno inaugurato una storia trentennale di tentativi di fuga nei quali hanno trovato la morte 187 persone, come la toccante vicenda del muratore diciottenne Peter Fechter, colpito dagli spari delle guardie di confine nella “striscia della morte” mentre cercava di arrampicarsi sull’ultima barriera che lo separava dall’occidente, lasciato lì a morire dissanguato sotto gli occhi impassibili delle guardie di confine della Ddr e gli attoniti e impotenti passanti che avevano assistito alla scena dalla parte occidentale.

Ma i conti contro l’Ostalgie (da Ost-Nostalgie, la nostalgia dell'Est), quella moda cinematografica, e non solo, accusata di restituire un racconto edulcorato della vita nella Ddr, li ha certamente fatti il pluripremiato La vita degli altri (2006). Sebbene convenzionale nello stile, e poco credibile nel plot, il film ha restituito, con un profondo impatto emotivo, le implicazioni umane e psicologiche di un sistema di potere che si nutriva di sospetto e di paura, retto da personaggi meschini e corrotti che potevano perseguire i propri squallidi scopi all’ombra di una sinistra ideologia. Solo un personaggio sembra elevarsi moralmente al di sopra degli altri per lo zelo, l’abnegazione e la convinzione ideologica con le quali esegue il suo lavoro di spia. Nei suoi  occhi di ghiaccio si riflette il vuoto di una macchina di dominio che ha perso qualsiasi contatto con uno scopo comprensibile e smarrito definitivamente ogni rispetto e misura nei confronti degli esseri umani. Nella favola di Florian Henckel von Donnersmarck, la “vita degli altri” irrompe come detonatore nell’equilibrio interiore del solerte funzionario del regime totalitario generando un affetto spontaneo verso le sue vittime che sovverte le aride geometrie del potere ritrovando una genuina libertà.

Separazioni e attraversamenti

Oltre alla nuova generazione di registi dell’est e dell’ovest, anche due campioni del cinema tedesco degli anni Settanta si sono misurati con la memoria della Germania divisa. In Das Versprechen (1994), Margarethe von Trotta mette in scena un melodramma che accompagna i 28 anni di esistenza del muro separando destini e amori con un intreccio di passioni private e scansioni della grande storia che appare alla fine un po’ troppo costruito e caricaturale. Völker Schlöndorff, invece, fa un film su coloro, pochi, che quel confine lo potevano attraversare (Die Stille nach dem Schuss, 2000): un gruppo di terroristi che dalla Germania occidentale trovano rifugio a Berlino est grazie alla Stasi passando dalla stazione di Friedrichstrasse. La vita di Rita, personaggio ispirato alla biografia di Inge Viett, inverte lo schema di relazione est-ovest: una occidentale trova rifugio ad est grazie all’aiuto della Stasi che le ricostruisce una nuova vita in una Ddr nella quale i suoi afflati ideologici appaiono davvero fuori posto rispetto al comune sentire delle persone con cui entra in relazione. Qui, la caduta del muro non è liberazione, ma catastrofe perché fa perdere la copertura a Rita che sceglie la morte piuttosto che il carcere nella nuova Germania. L’inversione paradossale dello spazio simbolico di questa vicenda, illumina di una luce meno stereotipa alcune pieghe del passato tedesco, aprendo qualche interrogativo in più rispetto alla più blasonata saga cinematografica della banda Baader Meinhof (Baader Meinhof Complex, 2008).

Good bye West-Berlin

Più rari sono i film che rievocano Berlino ovest prima della caduta del muro, eppure anche in essi un velo di nostalgia sembra accompagnare la perdita di una condizione unica e irripetibile. Herr Lehmann (2003) di Leander Haussmann rievoca le indolenti esistenze di Kreuzberg 36 all’ombra del muro: un quartiere proteso verso Berlino est, popolato di punk, turchi, artisti, junkies, disoccupati e alternativi di ogni sorta per i quali il muro rappresentava una protezione dall’efficientismo e dalla competizione che imperavano in Germania ovest, o, anche, semplicemente, dalla vita adulta. Una vita che scivola via tra una Kneipe e l’altra, intervallata dal perseguimento di improbabili vocazioni artistiche, sullo sfondo di un abbandono ludico e regressivo che non riesce a dissimulare del tutto la nevrosi quotidiana. Il film si chiude nella notte della caduta del muro con la consapevolezza che con l’irruzione della grande storia, per il mondo senza tempo di Kreuzberg 36 nulla sarebbe stato più come prima.

Vivere nella nuova Berlino

Berlino diviene ora crocevia di percorsi che collegano l’Europa orientale all’occidente che il cinema intercetta con freddo realismo in Ostkreuz (1991) di Michael Klier, racconto essenziale e tristissimo della sopravvivenza metropolitana di due donne dell’ex Germania est arrivate a Berlino dopo la Wende.
Difficoltà di adattamento alla nuova Berlino venate di malinconia sono quelle del protagonista di Berlin is in Germany (2001), di Hannes Stöhr, che sconta una condanna in un carcere di Berlino est al momento della riunificazione e al suo rilascio si trova di fronte un mondo estraneo e spietato; dallo stesso regista sarebbe venuto anni dopo il più suggestivo ritratto, estremo e intossicato, delle notti della club culture berlinese e dei loro spericolati adepti (Berlin Calling, 2008). Il disagio dei quartieri e la violenza giovanile sono oggetto di specifiche esplorazioni critiche destinate al circuito off, come Kroko (2003) di Sylke Enders, ambientato a Wedding, o sviluppate in maturi action movie per il mercato di massa come Knallhart (2006) di Detlev Buck, ambientato a Neukölln.
Il cantiere che Berlino è diventata negli anni Novanta diventa una metafora per le vite sempre in bilico che la attraversano (Wolfgang Becker, Das Leben ist eine Baustelle, 1997), personaggi mai del tutto calati nella parte, sempre un po’ incerti ed eccentrici in balia di un mutevole labirinto metropolitano che riserva amare e tragicomiche sorprese, ma anche squarci di inattesa umanità (Andreas Dresen, Nachtgestalten, 1999; Vanessa Jopp, Komm näher, 2006); lo spiazzamento situazionista e l’induzione di insicurezza diventa anche principio di non violenta guerriglia sociale (Hans Weingarten, Die fetten Jahre sind vorbei, 2004).
Ed è proprio un film che si interroga sul caso, la volontà e la fragile costituzione del destino,  Lola corre (1998) Link a Lola_corre.jpg di Tom Tykwer, il prodotto cinematografico che ha maggiormente restituito la ricerca formale che la vivace industria dei nuovi media berlinese ha sviluppato nel corso degli anni Novanta: montaggio da videoclip, inserti di animazione, battente musica elettronica. Qui, Berlino appare in una serie di frammenti montati per costruire uno spazio virtuale nel quale si dispiega la corsa selvaggia di Lola nella sua disperata lotta con il destino. Fatalità e volontà si scontrano in un videogame urbano che stempera definitivamente la densità storica dei luoghi creando uno spazio neutro che ospita le traiettorie di diversi e ingovernabili mondi possibili.