Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Il genocidio in Rwanda. Da guerra civile a guerra regionale

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Abstract
Since the time of independence Rwanda has had a number of so-called ethnic violence episodes. In most of the cases an instrumental use of violence from the central government to keep power through perpetuation of social divisions. Although historically ethnic violence was always kept inside the state, these episodes of violence pushed over the decades a large number of refugees out of Rwanda. The systematic genocide in 1994 caused a war that was spread into the Great Lakes Region due to the flow of refugees, particularly in former Zaire, starting a regional war that has not ended yet.

Dalla guerra civile al genocidio

Il Rwanda fin dai tempi dell’indipendenza nel 1962 ha avuto una serie di episodi di violenza, cosiddetta etnica. Si trattava per lo più di strumentalizzazioni del governo centrale, solito utilizzare le divisioni sociali per mantenere il potere, spingendo alla contrapposizione i diversi segmenti della popolazione, bahutu, batutsi, batwa, delle regioni settentrionali o meridionali. La situazione politica, economica e sociale parve normalizzarsi, durante la seconda repubblica, iniziata nel 1973 e dominata dal presidente Juvenal Habyarimana, facendo conoscere un periodo di relativa tranquillità al piccolo stato africano. Il nuovo regime a partito unico era autoritario ma apparentemente bonario, sollevando la popolazione dal gravoso compito della gestione pubblica[2]. Tutti i cittadini rwandesi facevano parte del partito governativo, il MRND (Mouvement Révolutionnaire National pour le Développement), che controllava ogni aspetto della vita rwandese garantendo quella tranquillità necessaria per permettere anche un certo sviluppo economico, anche se la sua economia rimaneva essenzialmente agricola, facendo soprattutto affidamento su beni d’esportazione come il caffè e il the e sugli aiuti internazionali. Il paese rimaneva sempre tra i più poveri al mondo, ma gli fu garantito un certo grado di sviluppo economico che determinò anche un miglioramento di servizi pubblici quali l’istruzione e il sistema sanitario.

Carta geografica del Ruanda. 9-16.
Carta geografica del Ruanda. 9-16.

Dalla metà degli anni Ottanta però una serie di fattori contribuirono all’aumento dell’insicurezza interna. La carenza di terra fertile disponibile e l’aumento della popolazione e delle sue esigenze alimentari, sommati alla crisi mineraria, successiva alla chiusura nel 1985 di un’importante miniera di stagno, al crollo dei prezzi del caffè sul mercato internazionale, alle difficoltà del settore agricolo, soprattutto nella coltivazione dei due prodotti principali, la cassava e le patate dolci, non trovarono una risposta valida da parte dello stato, sul quale pesavano anche le accuse di corruzione e mal gestione della cosa pubblica, dovuta anche ad un’eccessiva spesa militare. A queste difficoltà la comunità internazionale rispose aumentando i fondi per gli aiuti allo sviluppo al piccolo stato africano, fino all’accordo nel 1990 per il piano di aggiustamento strutturale con Banca Mondiale e Fondo Monefbtario Internazionale.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, quindi, la crisi economica e la deriva autoritaria del governo causarono sempre forti tensioni sociali che il regime stentava a controllare, soprattutto in considerazione del sempre maggior peso assunto dalla sua fazione estremista. Dal 1990, quindi, la situazione in Rwanda si complicò, aggravata anche dalla tensione tra i vari gruppi sociali, dando vita a nuovi episodi di violenza. Il governo di Kigali si trovò quindi a essere minacciato dalla crisi economica e politica e, contemporaneamente, a dover rispondere alle pressioni esercitate da un nuovo nemico: il FPR – Fronte Patriottico Rwandese. I profughi rwandesi, soprattutto quelli in Uganda, iniziarono infatti a premere per rientrare in patria. Il governo naturalmente non permise il loro rientro, per certi versi esasperando gli animi dei rifugiati che si organizzarono in diverse organizzazioni, la più famosa delle quali è appunto il FPR.

La prima grande offensiva militare del FPR contro il regime di Habyarimana, per tornare in Rwanda, iniziò nell’ottobre 1990, ma dopo meno di un mese di combattimenti i miliziani del Fronte furono sconfitti, ritirandosi in Uganda. Le cause della sconfitta sono molteplici, la sottovalutazione da parte dei guerriglieri dell'esercito rwandese, addestrato da belgi e francesi; la convinzione, errata, che un attacco del FPR avrebbe causato la ribellione contro il governo di Kigali; e, infine, gli aiuti della comunità internazionale al presidente del Rwanda per fronteggiare la crisi[3]. Le conseguenze dell'incursione, invece, furono essenzialmente tre: una nuova ondata di violenze sulla popolazione tutsi presente in Rwanda, l'accusa all'Uganda di aiutare i ribelli e il cambio di strategia del Fronte stesso. Il FPR venne quindi riorganizzato e il comando fu affidato a Paul Kagame che già aveva combattuto al fianco del presidente ugandese Museveni. Il nuovo comandante cambiò tattica e iniziò una lunga guerriglia di logoramento per conquistare una porzione di territorio da poter usare come base per i successivi assalti militari. Per conquistare il Rwanda venne deciso di affiancare all'aspetto militare anche quello propagandistico, in modo da indebolire la struttura politica all'interno del paese, e cercare di guadagnare simpatie all'esterno. Fu così che dopo appena un anno venne condotta un'azione con lo scopo di prendere le città di Ruhengeri e Byumba, futuro quartiere generale del movimento. Il primo obiettivo, quello di ottenere una porzione di territorio, venne, quindi, raggiunto in meno di due anni[4].

Nonostante gli aiuti esterni avuti dal governo rwandese, la situazione del paese non migliorò, né economicamente né politicamente. All’aumento delle violenze, conseguenza anche del tentativo di invasione del FPR, la comunità internazionale non rispose tagliando i fondi ma chiedendo che venissero concesse delle aperture democratiche, come il sostegno al sistema giudiziario e alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e la liberalizzazione della stampa. La svolta si ebbe soprattutto nel giugno 1990 con il summit Franco-Africano a La Baule, dove il presidente Mitterrand annunciò che la Francia avrebbe accordato aiuti solo agli stati africani che avessero avviato un reale processo di democratizzazione.

Le pressioni interne ed esterne per un’apertura democratica del regime di Habyarimana portarono, nel 1990, alla dichiarazione da parte de Presidente che annunciava l’abolizione del sistema a partito unico, ufficializzata poi dall’adozione della nuova costituzione nella primavera del 1991. Nonostante questi passi, i rapporti politici all’interno del paese rimasero tesi, soprattutto tra il partito di governo e i neonati partiti d’opposizione, facendo capire al Presidente che non sarebbe stato semplice formare una coalizione politica d’impronta hutu per combattere in modo effettivo il FPR. La conseguenza dell’inasprirsi dei rapporti all’interno della scena politica fu l’acutizzarsi di metodi violenti da parte del governo contro chiunque gli si opponesse.

Nei primi anni Novanta il governo rwandese doveva quindi fronteggiare diversi problemi: l’opposizione interna, il tentativo del FPR di conquistare il paese, la crisi economica, e la questione degli sfollati e dei rifugiati, il cui numero era in costante crescita. Tutti questi fattori determinarono l’atteggiamento ostile del Presidente nei confronti dei numerosi tentativi di mediazione internazionale, soprattutto per paura che il suo partito perdesse potere a favore delle nuove forze. Nonostante il suo tentativo di resistere, dovette accettare di negoziare con i suoi nemici, primo fra tutti il FPR, con cui vennero firmati diversi cessate il fuoco, il primo dei quali nell’ottobre del 1990. Il vero processo di pace iniziò, però, solo nell’agosto 1992, con l’inaugurazione delle negoziazioni di Arusha, Tanzania, che terminarono con il Protocollo omonimo che venne emanato un anno dopo[5]. L’accettazione dei protocolli di Arusha da parte del Presidente, e la loro mancata applicazione, anziché aiutare il processo di pace fornirono indirettamente un’arma ai gruppi estremisti presenti all’interno del governo. Questi ultimi, infatti, per paura che le aperture decise ad Arusha determinassero la loro perdita del potere iniziarono ad organizzare una controffensiva. Le divisioni all’interno del governo (ma anche dell’opposizione) si fecero sempre più evidenti, fino alla creazione di due correnti trasversali ai diversi partiti politici, una più estremista a favore di una soluzione definitiva del problema che garantisse il mantenimento del potere nelle mani dell’elite hutu, e una seconda composta da forze moderate e pronta al dialogo con i diversi gruppi per la costituzione di un governo di coalizione che avrebbe dovuto guidare il Rwanda alle prime elezioni democratiche.

La presunta apertura democratica e i negoziati di Arusha quindi non furono vissuti come un miglioramento delle condizioni del paese. Il malcontento era diffuso, anche perché il Presidente aveva accettato il FPR come interlocutore, in qualche modo legittimandolo come parte attiva nella vita rwandese. Questo fatto venne visto da molti come un tradimento da parte sua, tanto che Habyarimana perdette parte degli appoggi che gli avevano permesso di mantenere il potere, e venne vissuto inoltre come il primo passo per la tanto temuta invasione tutsi che venne utilizzata dalle frange più estremiste del governo di Kigali per dare il via alla preparazione per la soluzione definitiva del problema. Dal 1990 erano in atto dei piani per permettere al Rwanda di difendersi dall’invasione del FPR, vista da molti come il tentativo tutsi di riconquistare il paese. Venne messa a punto una vera e propria strategia di autodifesa della popolazione che, nella mente degli organizzatori, doveva essere coinvolta il più possibile[6] per difendere il Rwanda nel momento in cui i batutsi avessero deciso di portare avanti l’attacco finale[7]. Bisognava quindi identificare il nemico, compilando delle liste di nomi, e organizzare le milizie per la difesa, addestrando parte della popolazione e distribuendo nuove armi.

La situazione precipitò nella primavera del 1994. La sera del 6 aprile l’aereo su cui viaggiavano il presidente Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, presidente del Burundi, più altre personalità rwandesi e burundesi, venne abbattuto sul cielo di Kigali, dando il via ai massacri[8]. Tre mesi dopo quella notte si contavano circa 800.000 morti e diversi milioni di rwandesi risultavano rifugiati o sfollati. Militarmente, il genocidio terminò con la vittoria del FPR che, anche grazie all’intervento internazionale, ancora oggi gestisce il potere in Rwanda.

La reazione della comunità internazionale: le Nazioni Unite e le grandi potenze

Durante le prime settimane, il genocidio in corso in Rwanda venne per lo più ignorato dalla comunità internazionale. Anche le Nazioni Unite non intervennero in modo deciso e, anzi, si trovarono a dover affrontare il ritiro delle truppe belghe, in seguito all’uccisione di 10 soldati assegnati alla protezione del Primo Ministro Agathe Uwilingiymana, e alla richiesta da parte di molti stati membri di proteggere prima di tutto le vite dei peacekeepers[9]. Il 21 aprile, con la risoluzione 912 del Consiglio di Sicurezza, il contingente ONU venne quindi ridotto a 270 elementi con il compito di agire come intermediari tra le parti, nel tentativo di raggiungere un accordo per un cessate-il-fuoco, assistere nelle operazioni umanitarie, e monitorare gli sviluppi della situazione compresa la sicurezza dei civili sotto la loro protezione[10].

Le Nazioni Unite continuarono la loro attività diplomatica e il 17 maggio 1994, con la risoluzione 918 del Consiglio di Sicurezza, venne deciso di rivedere, ampliandolo, il mandato dell'UNAMIR – Missione di Assistenza delle Nazioni Unite per il Rwanda, in modo da consentire la protezione di rifugiati e civili, la creazione di aree umanitarie, la protezione delle operazioni di sostegno, l'aumento del contingente, e l’imposizione di un embargo sulla vendita d'armi. L’UNAMIR II però venne autorizzata con notevole ritardo e il suo pieno dispiegamento non era previsto prima di luglio. Per questo motivo il Consiglio di Sicurezza si disse disponibile ad accettare l’offerta francese di organizzare una missione militare internazionale per proteggere i civili e gli sfollati dal conflitto in corso.

Il Consiglio di Sicurezza dette l’autorizzazione agli Stati membri di condurre le operazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi stabiliti il 22 giugno con la risoluzione 929. La Francia chiese quindi aiuto all’Unione Europea Occidentale e poi si rivolse ai singoli stati, ricevendo però una serie di rifiuti all’intervento armato, decidendo quindi l’intervento da sola. L'operazione Turquoise, iniziata il 23 giugno e terminata il 21 agosto[11], servì per la creazione di una zona umanitaria sicura nel triangolo costituito tra le città di Cyangugu-Kibuye-Gikongoro, nel Rwanda sud-occidentale, da un'idea della Santa Sede del 2 giugno, che per questo si rivolse alle Nazioni Unite in modo da costituire un’area protetta per i superstiti. Il successo sul campo della missione francese fu però parzialmente oscurato dalle motivazioni ambigue che spinsero il paese europeo ad intervenire. Il governo di Parigi era, infatti, uno dei maggiori alleati del Rwanda di Habyarimana, e da molti considerato un complice indiretto dei genocidiari[12]. Se da un lato, è stata indubbia l’utilità della missione francese per mettere in salvo molti superstiti, dall’altro lato la zona di sicurezza è stata pure utilizzata da molti esponenti del governo di Kigali come corridoio per poter lasciare indisturbati il paese, nel tentativo di sfuggire alle possibili rappresaglie del Fronte o alle accuse di genocidio.

Al di là delle motivazioni c’è da riconoscere, però, che la Francia fu l’unico paese che intervenne militarmente in Rwanda. Gli altri interventi, infatti, quando ci furono, si limitarono a misure di soccorso, soprattutto nel tentativo di alleviare la condizione delle centinaia di migliaia di rifugiati nell’ex Zaire e in Tanzania. Una delle operazioni più note è la statunitense Support Hope che, dal 24 luglio al 31 agosto 1994, fornì parte del materiale necessario per potabilizzare l’acqua per i campi di rifugiati, facilitò i ponti aerei per l’invio di aiuti umanitari e fornì la logistica per le operazioni di soccorso. Il grande limite di tale operazione, come di molte altre, fu di non tenere conto di una delle esigenze fondamentali di molti campi per i rifugiati e di molti degli assistenti umanitari presenti in Rwanda in quei mesi, ossia la necessità di operare in stato di sicurezza. Nessuna grande potenza, infatti, inviò sul campo gli uomini necessari per mettere in sicurezza il paese[13].

In campo africano lo stato che fu maggiormente coinvolto nel genocidio fu l’ex Zaire, attuale Repubblica Democratica del Congo. Il paese, governato dal 1965 da Mobutu Sese Seko, dopo diversi anni di fedele alleanza con il blocco occidentale, con la fine della guerra fredda si trovò diplomaticamente abbastanza isolato, a causa della politica autoritaria del suo Presidente. Tale condizione mutò con l’acuirsi della crisi rwandese e, soprattutto, con la sua conclusione che vedeva coinvolto uno dei suoi massimi alleati, la Francia. Mobutu, infatti, non si fece trovare impreparato dalla crisi e la sfruttò per poter dimostrare la sua fedeltà all’alleato europeo, offrendo le sue truppe nella regione del Kivu, al confine tra Zaire e Rwanda, nel tentativo di aiutare la missione francese. Gli obiettivi del Presidente erano diversi: Mobutu mirava soprattutto a riprendere il controllo della regione orientale, da sempre teatro di periodiche crisi e richieste di autonomia o indipendenza. Ma il fattore che più di tutti portò lo Zaire ad essere coinvolto nella crisi fu il pericolo costituito dall’afflusso all’interno del proprio territorio di centinaia di migliaia di rifugiati che, nonostante i ripetuti tentativi dell’esercito di Mobutu di rimpatriarli, restarono nei campi dell’ex Zaire.

La crisi dei rifugiati e la diffusione del conflitto nella regione

A causa delle periodiche crisi e attacchi contro la minoranza tutsi, il Rwanda ha avuto, già da prima dell’indipendenza, parte della propria popolazione all’estero, con lo status più o meno ufficiale di rifugiato. Tale problema però assunse proporzioni inimmaginabili nel 1994, quando a causa della guerra civile e del genocidio, circa due milioni di persone lasciarono il paese per rifugiarsi nei paesi vicini[14], molti dei quali nella zona di Goma, in Zaire. I rifugiati del 1994 si possono dividere in due gruppi: quelli che lasciarono il Rwanda all'inizio dei combattimenti e quelli che lasciarono il paese d'estate, alla fine della guerra vera e propria. Il primo gruppo era, infatti, composto sostanzialmente da batutsi e oppositori al regime che scapparono per sfuggire al genocidio; mentre del secondo facevano parte civili bahutu, che scapparono per paura dei soldati del Fronte Patriottico, e coloro che avevano partecipato attivamente al genocidio, quindi soldati e anche alti ufficiali e politici. Contemporaneamente alla fuga dei bahutu ci fu il rientro di circa 700.000 rifugiati tutsi, che andarono ad occupare le case lasciate dai bahutu o si rifugiarono nei campi profughi allestiti in diverse zone del paese. Un altro problema derivante dagli scontri e dalla distruzione di moltissime case, fu quello degli sfollati. In base ai dati raccolti dall'Alto Commissariato dell'ONU per i Rifugiati (UNHCR) i rwandesi costretti a lasciare le loro case, ma che rimasero in Rwanda, furono circa 500.000 anche se il numero potrebbe essere molto più elevato considerato che prima che il FPR avanzasse, gli sfollati erano circa 1,2-1,5 milioni, molti dei quali si rifugiarono all'estero.

Il problema dei rifugiati non era però l’unico che il Rwanda con l’aiuto della comunità internazionale si trovò a dover risolvere. C’era da ricostruire il paese, politicamente, fisicamente ma anche socialmente. Considerato il numero delle vittime, degli sfollati, dei rifugiati e di coloro che materialmente compierono i massacri, gran parte della popolazione risultava essere coinvolta direttamente nel genocidio, come vittima o carnefice. Uno dei primi passi fu quindi quello di garantire che la giustizia potesse fare il suo corso. Il sistema giudiziario nazionale era completamente da ricostruire, le condizioni delle carceri erano disastrose ed era essenziale cercare di garantire un clima di sicurezza e giustizia nel paese. All’inizio del 1995 divenne operativa la Human Rights Field Operation in Rwanda – HRFOR, con il compito tra gli altri di investigare sul genocidio e le violazioni dei diritti umani e dare vita ad una serie di programmi per la ricostruzione del paese, compreso il sistema giudiziario[15]. Proprio il bisogno di indagare i fatti e punire i colpevoli spinsero alla creazione di due differenti corti di giustizia, da affiancare al sistema giuridico nazionale, il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda[16] e le gacaca[17], le cosiddette corti tradizionali popolari.

Per la sua natura internazionale, data dalla necessità di superare un confine tra stati, il problema dei rifugiati assunse ben presto un carattere regionale, determinando una gravissima crisi della Regione dei Grandi Laghi. Gli stati maggiormente coinvolti furono lo Zaire, la Tanzania, l’Uganda e il Burundi. Il primo soprattutto vide la propria storia fortemente influenzata dalla crisi. Nel 1994, all’arrivo della maggioranza dei rwandesi, il paese non era pronto ad accogliere un tale numero di rifugiati. L’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati, con l’aiuto di diverse organizzazioni internazionali, creò diversi campi nello Zaire orientale dove pare fossero ospitati più di un milione di rwandesi[18]. Si trattava di civili che scappavano da massacri, ma anche di militari e esponenti del mondo politico che lasciavano il paese a causa della sconfitta sul campo. In base alle stime riportate dalle Nazioni Unite, alla fine del genocidio pare che fossero presenti in Zaire 230 leader politici rwandesi, 50.000 membri dello staff dell’ex governo e più di 10.000 miliziani armati. Furono proprio questi ultimi che in poco tempo riuscirono ad ‘impadronirsi’ dei campi, usandoli per riorganizzarsi e dare vita ad un movimento ribelle contro il nuovo governo di Kigali, quello del FPR.

La caduta di Mobutu e la nascita della Repubblica Democratica del Congo

La presenza nello Zaire orientale delle truppe di Mobutu e dei rwandesi destabilizzarono definitivamente il paese, in crisi da diversi anni e fortemente indebolito dalla politica neo-patrimoniale del suo presidente. In trent’anni di governo, Mobutu aveva ampiamente sfruttato le reti clientelari per mantenersi al potere e le varie tensioni locali per impedire la formazione di un’opposizione unita. Questi fattori interni, uniti alla sua politica neo-patrimoniale, crearono le condizioni ottimali affinché la destabilizzazione della regione orientale dello Zaire, determinata dalla crisi rwandese, diventasse in poco tempo un vero e proprio conflitto che aiuterà la caduta dello stesso regime di Mobutu.

Tra i rwandesi che si rifugiarono in Zaire c’erano anche i leader politici organizzatori del genocidio, un vero e proprio governo rwandese in esilio che controllava una parte del territorio zairese, e iniziarono ad attaccare i batutsi presenti in Zaire e a combattere per destabilizzare il nuovo governo e riprendere il potere in Rwanda. Gli attacchi contro i batutsi inizialmente si concentrarono nel Nord Kivu, dove le milizie rwandesi, aiutate dall’esercito dello Zaire, riuscirono ad avere la meglio, costringendo la maggior parte dei batutsi a fuggire, molti dei quali in Rwanda. Dal Nord poi si spostarono nel Sud Kivu, dove però le cose andarono diversamente, perché i batutsi riuscirono a trovare alleati e, quindi, resistere. I batutsi del Sud Kivu, che si identificano come Banyamulenge, trovarono sostegno direttamente dal governo di Kigali e dai ribelli zairiani di Laurent-Desiré Kabila, che da anni combatteva contro Mobutu. Il governo del FPR era, infatti, stanco dei continui attacchi che partivano dai campi di rifugiati dello Zaire, e decise quindi di aiutare la resistenza tutsi, ma soprattutto di attaccare i campi nel tentativo di mettere in sicurezza il confine.

Nell’ottobre 1996 l’esercito rwandese entrò nel Kivu con l’intento di neutralizzare i ribelli, facendo leva sulla loro partecipazione al genocidio, in modo da non suscitare grandi reazioni internazionali. Per la loro azione si avvalsero del sostegno dell’Uganda, storico alleato del FPR, di alcuni combattenti angolani, presenti nella regione dai tempi della guerra in Katanga, e dell’AFDL (Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Congo/Zaire), un’organizzazione ribelle nata dall’associazione di quattro diversi movimenti, tra cui quello di Kabila, dando il via alla prima Guerra del Congo. L’azione militare fu da subito efficace, causando però il rientro obbligato e precipitoso in Rwanda di molti rifugiati superstiti o la loro fuga verso le regioni più interne dello Zaire[19]; ottenne però anche che il governo in esilio si ritirasse dalla regione, ma, soprattutto, in pochi mesi gli alleati furono in grado di rovesciare il regime di Mobutu, entrando a Kinshasa nel maggio 1997. La guerra, quindi, raggiunse il doppio scopo di spingere lontano dal confine i ribelli rwandesi e di liberare lo Zaire dal suo padrone. Il paese fu ribattezzato Repubblica Democratica del Congo (RDC) e Kabila nominato presidente della repubblica.

Le “guerre mondiali” africane e il collasso del Congo

Poco dopo aver spodestato Mobutu, Kabila dimostrò di non voler dividere il potere, eliminando possibili concorrenti. Si trovò, quindi, esposto a violente critiche da parte dell’opposizione che iniziò ad attaccarlo per l’aiuto ricevuto dai Banyamulenge e dalle forze straniere e, soprattutto, per gli incarichi da loro rivestiti all’interno dell’entourage del Presidente. Kabila decise, quindi, di affrancarsi dai batutsi, prima iniziando una campagna contro di loro e poi allontanandoli da tutte le cariche, arrivando alla richiesta di lasciare immediatamente il paese. Il ‘tradimento’ di Kabila, sommato alla continua minaccia dei ribelli hutu al confine, portò il Rwanda a decidere di avviare una nuova campagna contro il Congo. Nell’agosto 1998 truppe rwandesi, aiutate dal solito alleato ugandese, attaccarono il vicino che, invece, si rivolse allo Zimbabwe, alla Namibia e all’Angola, dando vita alla Seconda Guerra del Congo[20].

La tattica adottata da Rwandesi e Ugandesi era sempre la stessa, aiutare i ribelli del Congo orientale, nel tentativo di rovesciare il regime a Kinshasa. Anche le motivazioni erano sempre le stesse, cercare di mettere in sicurezza il confine col Congo in modo da eliminare il pericolo di incursioni ribelli in territorio rwandese e ugandese. Le ragioni di Zimbabwe e Namibia erano, invece, legate alla comune appartenenza al SADC (Southern African Development Community), e alla volontà di difendere uno dei suoi membri, ma soprattutto alla volontà di Mugabe di rivestire un ruolo di leader regionale, offuscato da Mandela e dai due “uomini nuovi” dei Grandi Laghi, Museveni e Kagame[21]; mentre l’Angola era preoccupata che un nuovo governo a Kinshasa avrebbe permesso nuovi attacchi di ribelli angolani. Inoltre, contro i Rwandesi erano ancora attivi sul campo di battaglia le milizie Interahamwe, responsabili di molti dei crimini commessi durante il genocidio. Aldilà delle motivazioni iniziali, comunque, nel giro di poco tempo fu chiaro che tutti avevano una ragione comune: riuscire a sfruttare parte delle immense ricchezze del Congo.

L’anno successivo, però, il fronte rwandese si spaccò. Prima il gruppo dei ribelli banyamulenge del RCD (Rassemblement Congolais Pour la Démocratie) si divise in due tronconi: il RCD – Mouvement de Libération, appoggiato dall’Uganda, e il RCD – Goma, sostenuto dal Rwanda. Successivamente i due vecchi alleati arrivarono addirittura a scontrarsi militarmente a Kisangani, per diverse ragioni tra cui interessi contrastanti nello sfruttamento delle risorse congolesi e differenti visioni nelle strategie militari da attuare nella guerra. Inoltre, un terzo gruppo nacque, grazie all’aiuto ugandese, il MLC (Mouvement de Libération du Congo).

Il processo di pace regionale: successi e ambiguità

Gli sforzi diplomatici per far terminare le ostilità risultarono negli Accordi di Lusaka del luglio 1999, firmati dai sei stati africani coinvolti e successivamente dai 3 movimenti ribelli, il MLC e i due RCD[22]. I punti principali degli Accordi erano il cessate-il-fuoco e il dispiegamento di una missione delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto garantire il buon fine del processo di pace. Nonostante le firme, quasi nessuno voleva effettivamente la fine della guerra, nemmeno il presidente Kabila, ancora legato ad una gestione non democratica del potere. Il cessate-il-fuoco venne rispettato solo nella linea del fronte ufficiale della guerra, ma nel Congo orientale le diverse parti in gioco continuarono a confrontarsi. Intanto, nel febbraio 2000, le Nazioni Unite, con la Risoluzione 1291, autorizzarono l’invio di 5.500 uomini, tra le altre cose per monitorare il cessate-il-fuoco e facilitare le operazioni umanitarie, con mandato d’agire sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.

All’inizio del 2001, però, ci fu un nuovo cambio di equilibri, in gennaio il presidente Laurent venne ucciso e il suo posto venne occupato da uno dei suoi figli, Joseph, appena trentenne. Il nuovo presidente sembrò da subito più interessato del padre alla pace[23], cercando di raggiungere degli accordi con tutte le parti in gioco. Nel 2002 verranno, infatti, firmati diversi accordi di pace, uno a luglio con il Rwanda, uno a settembre con l’Uganda e uno a dicembre con i gruppi ribelli, con la promessa di creare un governo allargato. Ma quello stesso anno nasce il FDLR (Forces Démocratique du Libération du Rwanda), gruppo di ribelli hutu estremisti, determinando un nuovo motivo di preoccupazione per il Rwanda e la sicurezza del suo confine.

Nel 2003 iniziò la transizione, con l’approvazione di una nuova costituzione e la nomina di un nuovo governo, in carica fino alle elezioni, previste per il 2005. Anche i ribelli prestano giuramento e la maggior parte si arruola nell’esercito regolare, altri invece rifiutano, come per esempio il generale Laurent Nkundaz. La calma è solo apparente e in pochi mesi gli scontri con i ribelli riprendono, probabilmente aiutati dal Rwanda che però nega ogni suo coinvolgimento. Intanto nasce un nuovo gruppo ribelle per difendere i tutsi congolesi, il CNDP (Congrès national pour la défense du peuple), guidato proprio dal generale Nkunda.

Gli anni seguenti le vicende del Congo continuano seguendo essenzialmente due binari: quello della ricostruzione dell’apparato statuale e quello degli sviluppi altalenanti del conflitto. Dal punto di vista della ricostruzione dello stato, Kabila continuò sulla strada della redazione di una nuova costituzione, che verrà promulgata nel febbraio 2006, pochi mesi prima delle prime libere elezioni del Congo. Le elezioni, che si tennero in luglio con ballottaggio a novembre, furono motivo di molte tensioni, arrivando, in alcuni casi, allo scontro armato tra le fazioni dei due contendenti, Kabila e Bemba. Alla fine, il vincitore, non a sorpresa, fu Joseph Kabila, garantendo un minimo di continuità nella politica di rifondazione dello stato.

Sul fronte bellico, invece, le sorti del paese sono state più incerte. Se da un lato, infatti, continuarono gli scontri con i ribelli, dall’altro lato, però, iniziarono a essere riconosciute le responsabilità di alcuni stati, come per esempio l’Uganda, riconosciuta colpevole, e condannata alla compensazione, dal Tribunale Penale Internazionale di violazione dei diritti e saccheggio delle risorse della Repubblica Democratica del Congo dal 1998 al 2003. Nello stesso periodo, tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, sono inoltre state presentate le prime accuse ufficiali per l’utilizzo di bambini soldato. Ma gli scontri, purtroppo, non si arrestarono, causando nuovi profughi e nuove tensioni con gli stati vicini, soprattutto con l’Uganda che accusava il vicino di dare asilo ai ribelli del Lord’s Resistance Army.

Ma fu soprattutto il nuovo gruppo ribelle a creare tensioni, soprattutto con i soldati della MONUC, in dicembre 2006, infatti, in nord Kivu si scontrano le forze UN con quelle del rinnegato generale Nkunda, costringendo alla fuga 50.000 persone. La situazione in Congo orientale continuò a deteriorarsi, causando una sempre maggiore instabilità della regione, peggiorata anche da una nuova epidemia di ebola e dal sempre più grande numero di rifugiati. Gli scontri con i ribelli del CNDP si fecero sempre più frequenti, fino all’apice raggiunto, forse, tra l’estate e l’autunno del 2008, quando l’azione di Nkunda si fece sempre più efficace, tanto che la DRC accusò il Rwanda di aiutare il generale ribelle, fatto però sempre negato dal piccolo vicino, che, in un gesto dimostrativo, consegnò il generale alla giustizia, forse decidendo, in una sorta di gesto di realpolitik, di sacrificare un combattente irregolare per salvare i rapporti regionali e il ruolo di possibile ago della bilancia[24].

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Note

[1] Univ. Cagliari, Dipartimento Storico Politico Internazionale dell'Età Moderna e Contemporanea, V.le Sant'Ignazio 78, Cagliari, I-09127, Italy, i.soi@unica.it

[2] G. Prunier, The Rwanda Crisis: History of a Genocide, London, Hurst & Company, 1997, 78.

[3] La Francia e lo Zaire mandarono rispettivamente 350 e 500 uomini in Rwanda. I primi si trattennero fino al dicembre 1993, mentre i secondi lasceranno il paese sotto richiesta di Habyarimana a causa delle violenze e dei saccheggi che li videro protagonisti; Umwantisi, La Guerra Civile in Rwanda, Milano, Franco Angeli, 1997, 55.

[4] Rapport d’Information par la Mission d’Information de la Commission de la Défense Nationale et des Forces Armées et de la Commission des Affaires Étrangères, sur les opérations militaires menées par la France, d’autres pays et l’ONU au Rwanda entre 1990 et 1994, 15 dicembre 1998, www.assemblee-nationale.fr/11/
dossiers/rwanda/r1271

[5] L’Accordo finale di pace fu firmato il 4 agosto 1993, Rapport d’Information par la Mission d’Information de la Commission de la Défense Nationale et des Forces Armées et de la Commission des Affaires Étrangères, sur les opérations militaires menées par la France, d’autres pays et l’ONU au Rwanda entre 1990 et 1994, cit., 189.

[6] W. A. Schabas, «Hate Speech in Rwanda: The Road to Genocide», McGill Law Journal 46, 2000, 141-171.

[7] L. Melvern, A People Betrayed: the Role of the West in Rwanda's Genocide, London, Zed Books, 2000, pag. 63.

[8] I responsabili dell’attentato non sono mai stati trovati, ma la tesi più accreditata indica gli stessi ex-alleati governativi di Habyarimana come mandanti del gesto, per avere mano libera e risovlere il problema, dando il via allo sterminio; C. P. Scherrer, Genocide and crisis in Central Africa : conflict roots, mass violence, and regional war, London, Praeger, 2002, 67.

[9] J. Pottier, Re-Imagining Rwanda. Conflict, Survival and Disinformation in the Late Twentieth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, 39.

[10] UNAMIR, sezione Effect of UNAMIR, 9; http://www.un.org/en/
peacekeeping/
missions/past/unamir.htm

[11] Rapport d’Information par la Mission d’Information de la Commission de la Défense Nationale et des Forces Armées et de la Commission des Affaires Étrangères, sur les opérations militaires menées par la France, d’autres pays et l’ONU au Rwanda entre 1990 et 1994, cit., pag. 311.

[12] C. P. Scherrer, cit., 79.

[13] T. B. Seybolt, Humanitarian Military Intervention – The Conditions for Success and Failure, Oxford, Oxford University Press, 2007, pag. 122.

[14] UNAMIR, sezione Security in the camps, 19; http://www.un.org/en/
peacekeeping/
missions/past/unamir.htm.

[15] UNAMIR, sezione HRFOR, 28; http://www.un.org/en/
peacekeeping/missions
/past/unamir.htm.

[16] Il Tribunale, con sede ad Arusha in Tanzania, è stato istituito dalle Nazioni Unite con la risoluzione 955/1994, con lo scopo di perseguire i responsabili del genocidio e altre gravi violazioni dei diritti umani commessi in Rwanda e negli stati vicini dal 1 gennaio al 31 dicembre del 1994. Al 17 novembre 2009 erano stati giudicati 81 casi; www.ictr.org

[17] Con il termine gacaca, letteralmente 'prato' in kinyarwanda, si intendono le corti stabilite con la legge 40/2000 del 26 gennaio 2001 con giurisdizione sugli accusati di aver commesso atti di genocidio e crimini contro l'umanità nel periodo compreso tra il 1 ottobre 1990 e il 31 dicembre 1994. Venne stabilito che ogni cellula (il Rwanda è diviso in cellule, settori, distretti e province) avrebbe avuto il suo gacaca, dove gli accusati sarebbero stati giudicati da un collegio composta da giudici nominati o eletti tra i membri della popolazione considerati più adatti per formazione o più saggi. I principi dei gacaca, che li rendono profondamente distinti dalle normali corti giudiziarie, sono essenzialmente due: la partecipazione obbligatoria della comunità e la testimonianza e l'eventuale confessione come unici strumenti per indagare la verità. La letteratura sul funzionamento e sull'efficacia dei gacaca è numerosa, e riflette il dibattito tra chi vede tale strumento come utile per la riconciliazione nazionale e chi invece lo considera addirittura dannoso perché aiuterebbe a fomentare le divisioni sociali. Si veda ad esempio B. Ingelaere, «'Does the truth pass across the fire without burning?' Locating the short circuit in Rwanda's Gacaca courts», Journal of Modern African Studies, 47/4, 2009, 507-528; Amnesty International, Rwanda. Gacaca: A question of justice, AI AFR 47/007/2002.

[18] G. Prunier, The Rwanda Crisis: History of a Genocide, cit., 312.

[19] Secondo alcune fonti furono almeno 500.000 i rifugiati che tornarono in Rwanda nell’autunno 1996, altri 200.000 circa in inverno, e almeno 300.000 quelli che lasciarono il Kivu per rifugiarsi nelle regioni più interne dello Zaire; G. Prunier, The Rwanda Crisis: History of a Genocide, cit., 384-5; Amnesty International Report, Rwanda – Protecting their rights: Rwandese refugees in the Great Lakes region, 15 dicembre 2004, AFR 47/016/2004, http://www.amnesty.
org/en/region/rwanda?page=2

[20] Alcuni autori parlano di Seconda Guerra del Congo o di Prima Guerra Mondiale Africana, considerate le forze in gioco e il numero delle vittime, riprendendo una definizione di Susan Rice, Segretario di Stato Aggiunto per gli Affari Africani presso il Dipartimento di Stato degli USA.

[21] V. Parqué & F. Reyntjens, Central Africa: Shifting Alliances, Extraterritorial Conflicts and Conflict Management, «Searching for Peace in Africa», 1999;

http://www.conflict-prevention.net/page.php
?id=45&formid=72&action=
show&articleid=115

[22] Non firmarono, invece, le milizie hutu coinvolte nel genocidio e alcuni ribelli congolesi, i Mai-Mai.

[23] Laurent Kabila sembrava infatti più interessato ad un governo autoritario basato su reti clientelari e alla destabilizzazione della regione che ad una soluzione politica della crisi. Le pressioni internazionali e i rovesciamenti militari obbligarono però il Presidente ad accettare gli accordi di pace; P. Scherrer, Genocide and crisis in Central Africa, cit., 251-284.