Storicamente. Laboratorio di storia

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Senza futuro è difficile avere un passato. Intervista a cura di Alberto De Bernardi

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De Bernardi – Durante i due precedenti anniversari dell'unità d'Italia, quello del 1911 e del 1961, lo Stato e il Governo avevano ambizioni straordinarie. Ambizioni politiche nel '11: la religione della patria, il Risorgimento, insomma la terza Italia; nel 1961 il boom economico, lo sviluppo... Nell'11 vi furono grandi interventi su Roma e nel '61 su Torino. I due eventi avvenivano in due anni cruciali, nel '11 la fine di un decennio di sviluppo, nel '61 il boom economico. Questo terzo anniversario invece casca in un periodo in cui l'Italia è sicuramente in una fase non splendida della sua vita e al contempo non è chiaro al cittadino comune su cosa si impernia questa celebrazione: ha capito che sotterraneamente c'è una polemica tra chi la vuole e chi non la vuole, tra chi la esalta e chi no, però non gli sono chiare le finalità.

Amato – È vero che c'era un'identità italiana orgogliosa di sé, che si affermava attraverso la celebrazione dell'anniversario dell'unità d'Italia. È inutile che ripetiamo ora quale fosse l'orgoglio del 1911 e quale quello del 1961. Certo è che c'era orgoglio e c'era progettazione, perché nel '11 si crearono alcuni dei simboli di quella che sarebbe stata la città capitale, nella quale si era insediata la élite di provenienza torinese che portò a Roma molto del proprio stile anche architettonico - basti pensare al Vittoriano, al "Palazzaccio", alla Galleria d'Arte Moderna, oltre all'avvio della costruzione del quartiere Prati che sarà un quartiere storico per la borghesia romana: alcuni degli edifici che oggi rappresentano punti focali nella vita della capitale nacquero allora. C'era inoltre la celebrazione della dinastia.

Nel '61 questa - se si può dire un po' scherzosamente - caratterizzazione "sabauda" delle celebrazioni venne accentuata dal ruolo che in quella occasione giocò ancor più Torino e non Roma. Ciò accadde negli anni in cui l'Italia era disegnata dalla Fiat, tanto è vero che il paese venne accusato da una parte degli italiani di aver sovrapposto le autostrade alle ferrovie per consentire alle automobiline della Fiat di impadronirsi dei risparmi dei cittadini e degli spazi da loro abitati. Che sia vero oppure no, qualcosa del genere accadde.

Era insomma l'Italia del miracolo economico: sì c'era la vita agra, ma era comunque una vita che stava cambiando, con molte aspettative di futuro. Quelli che l'hanno vissuta sanno cosa ha significato. C'era la speculazione edilizia - perché vi erano anche aspetti trasgressivi in questa crescita - ma c'era il fatto che molte famiglie trovarono per la prima volta il gabinetto in casa, perché storicamente l'avevano avuto fuori dall'appartamento, nelle vecchie case di paese in cima ad una collina. Fu proprio negli anni '60 che cominciarono a nascere, a valle dei paesi, queste brutte case un po' più monotonamente squadrate, nelle quali però ciascuno trovava lo scaldabagno, trovava il water in casa e si abituava al benessere di un futuro di cui qualche anno dopo Giorgio Amendola, a mio avviso non sbagliando,  avrebbe detto: «Ci saranno tutte le storture che ci sono state, ma in questi anni gli italiani hanno mangiato molta più carne».

Nel 2011 a mio giudizio ci sono due elementi, probabilmente tra loro connessi, che segnano in modo profondamente diverso queste celebrazioni. C'è innanzitutto una grande incertezza sul futuro, manca quell'ottimismo che in qualche modo caratterizzò  entrambe le celebrazioni precedenti e, se è lecito dire che in quelle occasioni si era comunque certi della identità italiana che veniva celebrata, oggi non è più così: oggi c'è una incertezza d'identità. Se le celebrazioni servono a qualcosa, non è tanto a celebrare l'identità condivisa quanto a ritrovarla. E non è facile neanche ritrovarla, perché tra i celebranti ve ne sono alcuni che la cercano pensando di trovarla e altri che la cercano con la convinzione che trovarla non sia più possibile - anche quando questa non necessariamente è la loro speranza.

C'è quindi un clima più inquieto, che non è segnato soltanto dagli effetti della presenza nella maggioranza del Paese di un partito come la Lega Nord, non particolarmente sensibile alla celebrazione della nazione italiana, dei suoi simboli e dei suoi inni.  C’è anche il fatto che dopo tanti anni, dopo tanto disincanto, oggi ci si interroga in modo a volte deluso e critico, nonostante sia stato superato quel rifiuto della nazione che il nazionalismo aggressivo fascista aveva determinato nei primi decenni del dopoguerra in una larga parte dell'opinione pubblica. Non mi riferisco tanto a coloro che pensano che fu un male fare l'Italia - io sono rimasto impressionato nel leggere una sorta di ricerca/dibattito pubblicata sul sito di Limes alcuni mesi fa: forse erano solo decine, ma a me sembravano tanti gli italiani che mettevano in dubbio che avesse avuto senso fare l'Unità d'Italia.

Al di là di tali posizioni, intendo qui riferirmi soprattutto ad un atteggiamento di distacco dall'identità italiana. Alla fin fine oggi ci sono altre identità, che sono anche più significative: a volte sono quelle sub-nazionali, a volte sono quelle sovra-nazionali. D'altra parte la costruzione della nazione avvenne in un tempo lontano, usando mezzi così diversi e una retorica alla quale oggi siamo alieni. Si diffonde dunque una sorta di scietticismo, se non di ostilità - perché a volte c'è anche dell'ostilità.

Lo dico con sincerità, leggo con grande rammarico nelle predicazioni e nel libro di Alberto Banti qualcosa di questo genere. La lezione che ne traggono i giovani, che sono molto attratti dalle posizioni come quelle di Banti, è che la loro identità italiana conti meno del due di briscola: non è così. Quando, ormai spesso, mi capita di andare a parlare nelle scuole o a platee nelle quali si riuniscono studenti di più istituti, io dico a questi ragazzi: guardate che, ovunque andiate, voi sarete gli italiani. Non date retta a chi vi dice che è un'identità perduta: è l'identità che avete nel mondo. L'Europa non vive una stagione felicissima e non sarò io a negare che voi avete un'identità europea, semmai sarò tra quelli che cercheranno di rafforzarla. Ma, direbbe Ronchey, questo è il tempo delle multi-layer identities. L'identità europea non cancella la vostra identità italiana, anzi in Europa voi siete riconoscibili in quanto siete italiani. Andrete in Australia e voi sarete "gli italiani", andrete negli Stati Uniti e sarete "gli italiani". E allora il compito che avete davanti è capire di che cosa è stato riempito questo aggettivo da chi lo usa per definirvi, quali tratti si sono solidificati nella attuale immagine dell'italiano e quali tratti vorrete voi che questa immagine assuma, perché siete voi che darete un contenuto all'identità italiana.

Se ci troviamo a discutere di tutto questo è perché si tratta di un problema aperto, non stiamo discutendo di una cosa archiviata, che noi tiriamo fuori e "luccica".

Quali sono per te i tratti fondamentali di questa identità che le giovani generazioni dovrebbero in qualche modo individuare?

L'identità che gli italiani tendono ad attribuire a se stessi è di tipo autolesionistico: l'Italia ha sempre avuto il complesso della provincia: l'erba del vicino è sempre stata più verde, e di cose che accadono in tutto il mondo, quando avvengono da noi si dice «Succede solo in Italia!».

Sono arrivato insieme ad altri passeggeri da un aeroporto di Londra, in cui avevamo trascorso diverse ore a causa di uno sciopero in corso, e arrivati in Italia c'era qualcosa che non funzionava: «Succede solo in Italia!». Ma come? Due ore fa eri a Londra e stava accadendo la stessa cosa... È uno stereotipo che abbiamo in testa: siamo tendenzialmente autolesionisti.

Al nostro autolesionismo, si aggiungono gli stereotipi che si sono formati anche nella retina di occhi stranieri che ci hanno guardato. Quello storico film di Monicelli - La Grande Guerra - fa ben vedere tanto lo stereotipo dall'interno - noi italiani che abbandoniamo il reggimento per cavarcela da soli - quanto il giudizio esattamente simmetrico che ne danno gli ufficiali austriaci. Poi però viene fuori il coraggio: «io non ti dico niente, non ti dico dove sono i miei compagni e sfido anche la morte ma non mi faccio trattare da vigliacco e da pezzente». Ci sono questi due elementi nell'identità italiana.

Bisogna dire che da ultimo sono emerse delle capacità di eccellere, prima nascoste, di cui siamo e non siamo convinti, e di cui si può dire che sono la fonte della frustrazione che molti italiani hanno nei confronti del proprio paese e quindi della propria identità. È un dato di fatto che, impegnati nelle missioni militari, i nostri soldati e i nostri carabinieri sono in genere tra i migliori. Questo non significa che a volte anche loro non si rendano protagonisti di episodi sgradevoli, però, nella duplice capacità di essere professionisti militari e professionisti di un rapporto di interazione positiva con le popolazioni dei luoghi in cui vengono inviati, sono migliori degli americani. Forse soltanto gli inglesi sono bravi come gli italiani, perché hanno un'attitudine ad incontrare gli altri e a capirli. Forse gli inglesi l'hanno contratta dalle loro colonie, gli italiani invece l'hanno contratta in Italia in tanti secoli di attraversamenti stranieri del nostro Paese. Insomma sanno trattare con gli altri.

Anche il valore del nostro sistema educativo è un dato di fatto: avrà tutti i difetti che gli vengono riconosciuti, ma quando i nostri ragazzi e ragazze vanno all'estero, e noi lo sappiamo facendo il nostro mestiere, sono in genere tra i migliori.

E poi... "voilà!" quando si sono messi a cucinare hanno soppiantato i francesi. Stiamo attenti perché per i francesi la cucina è motivo di orgoglio nazionale. Negli Stati Uniti è capitato che in molte città la ristorazione italiana abbia cancellato quella francese.

C’è in noi una effettiva attitudine ad una elevata e proficua capacità creativa che si manifesta in tanti campi, ma che è accompagnata da una parallela attitudine alla disorganizzazione e all'inefficienza. E a volte la seconda ci porta a livelli di frustrazione che ci fanno dimenticare la prima, mentre invece, come mi disse Cesare Romiti quando era al vertice della sua direzione della Fiat: «vedi quello che stiamo facendo, ti rendi conto di dove saremmo se fossimo anche efficienti?». Era verissimo. Detto con linguaggio da editoriale di giornale, noi affoghiamo in un mare di inefficienza, la nostra creatività ci porta verso punte elevate di modernizzazione, ma noi ci trasciniamo dietro tutta la nostra arretratezza. Questi due elementi insieme tendono a fare corto circuito. È uno dei nostri problemi, perché la nostra incapacità di organizzare efficacemente le qualità che possediamo ci rende, nel concerto internazionale, meno performanti ad esempio dei tedeschi, i quali - lo dico con il massimo di simpatia - sono assai meno creativi di noi ma assai più organizzati, e dunque la locomotiva dell’Europa, ammesso che decidano di esserlo, saranno loro.

Quest’aspetto che tu tocchi riguarda la politica e la storia dello Stato.

No, riguarda anche il privato. Questa è la storia, detta in altra chiave, del film I Mostri, con Vittorio Gassman che prima fa il pedone e poi sale in automobile: siamo sempre gli stessi e ci lamentiamo dell'inefficienza del pubblico quando facciamo la fila nel pubblico, poi diventiamo quel privato addetto alla clientela della grande banca che trattiene lì dentro gli utenti per ore, ancora di più di quanto non faccia l’ufficio postale. Qui tocchiamo il tema dell’organizzazione del lavoro, che - non voglio entrare in dispute sindacali – porta a produrre  in uno stabilimento italiano duecento automobili con il doppio del personale rispetto a quello che, non in Cina ma in un altro paese europeo, produce quattrocento veicoli. È un nostro problema e non ce la caviamo dicendo «Noi ci teniamo ai diritti sociali»: anche in Germania ci tengono ai diritti sociali, anzi i principi dell’economia sociale di mercato li hanno inventati più loro di noi, eppure producono il doppio di automobili. È un nostro tratto identitario, come appunto la nostra creatività.

Questi due elementi, nella situazione difficile del tempo in cui viviamo, contribuiscono, insieme ad altri tratti non particolarmente positivi - tra cui la politica - a rendere precario il nostro futuro, tanto precario da renderlo addirittura quasi invisibile.

Come se non ci fosse

...Come se non ci fosse! E questo quando si celebra un evento come l'unificazione è evidente che diventa un handicap straordinario, perché, lo ha insegnato Renan, quel plebiscito  che rende forte la nazione si svolge tutti i giorni, col che la nazione è nutrita certo dal passato, ma ancor più dal presente e soprattutto dal futuro.

Nelle due celebrazioni del '11 e del '61 era tutto futuro...

Era tutto futuro. In realtà il passato riesce a significare qualcosa in relazione al futuro. Anche quell’ ode, secondo me brutta, quale era Marzo 1821, poteva essere accettata, non perché l’Italia  fosse davvero «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», ma perché intendeva essere una per il futuro, ed è in relazione a questo che ti accorgi che sei uno di altare, di memorie, di sangue e di cor.

Se invece tutto ciò non c'è, allora viene a mancare il propellente della celebrazione nella quale io personalmente mi impegno: proprio poiché noi manchiamo di futuro, questa è un’occasione d’oro per provare a cercarlo, per provare a ritrovarlo.

Il futuro è fondamentale, perché se non c’è viene a mancare il sentimento nazionale. Io guardo non con sfottò, ma con patetico struggimento questi amici di Bossi che vanno con l’ampolla nelle acque del Po. Di fronte a queste manifestazioni io mi chiedo: che cosa è successo in quella parte del mio paese - che è stata trainante per il suo sviluppo - se per trovare se stessi si deve andare ad una patetica ricerca della propria identità in riti che evocano comunque un qualche passato inesistente, come ad esempio quello celtico. Ecco, vuol dire che anche lì il futuro è venuto a mancare.

In questo caso è venuto a mancare alle élite economiche.

E’ venuto a mancare alle élite economiche, questa è la cosa che preoccupa. Qui si esce dalle celebrazioni del centocinquantesimo e si entra nella tematica della Europa al tempo della globalizzazione: l’unica parte del mondo nella quale il futuro è guardato con inquietudine anziché con speranza. Questo è il punto.

Mi sembra vi sia una ripresa, nel campo degli studi storici, di un certo anti-risorgimentalismo. Ho trovato nell'ultimo libro di Giordano Bruno Guerri una riscoperta del brigantaggio come rivolta antinazionale, con l'autore che sembra essere "d’accordo con i briganti", ricordando certe vecchie teorie alla Del Carria, declinate però in una chiave non da estrema sinistra ma post-moderna. Un anti-risorgimentalismo che mi sembra riemergere in luoghi sorprendenti, per esempio, questa estate in un’inchiesta di Rumiz su Repubblica: tutta orientata ad andare a cercare i morti e i cadaveri fatti da Garibaldi...

E anche il Corriere della Sera...

E anche il Corriere. Aveva cominciato Della Loggia domandandosi se fosse meglio il Lombardo-Veneto che lo Stato unitario; gli aveva risposto Galasso con grande finezza intellettuale… Ebbene questo tema dell’anti-risorgimentalismo secondo te è connesso con il discorso del futuro che non c'è?

È assolutamente connesso. Io ho questa convinzione e te la esprimo in pochissime parole. Nel fenomeno leghista, che ha caratteristiche similari a fenomeni che vediamo contemporaneamente in altri paesi, si potrebbe semplicemente leggere la versione italiana di una xenofobia, di un ritiro del ponte levatoio, insomma di una diffidenza e riluttanza  ad accogliere gli immigrati che è tipica dell’Europa al tempo della globalizzazione. Ma se si nota la simmetria di questo fenomeno con quello che è cominciato ad accadere nel Sud, non si può non constatare che qui, più che affiorare localismi anti-nazionali, riemergono identità pre-nazionali. La mancanza del propellente del sentimento nazionale - il futuro - non permette di "biodegradare" o comunque di fermare queste identità sub-nazionali che riaffiorano. C'è la sensazione di una nazione incompiuta e la rinascita di queste identità è il frutto della sua incompiutezza.

C’è in questo un qualcosa che io ritengo importante e su cui ho già invitato il Comitato dei garanti a riflettere con ponderato equilibrio. Il brigantaggio ha avuto storicamente torto, come aveva torto chi si era schierato con l’altra parte tra il ’43 e il ’45. Tuttavia, è un limite che a distanza di centocinquanta-centotrenta anni ci sia solo la storia dei vincitori, di coloro che ebbero ragione. Dobbiamo evitare ciò che molti hanno voluto fare con il revisionismo relativo agli anni ’43/’45 - per il quale se tutti erano in buona fede e se tutti avevano combattuto per ciò in cui credevano, "questa o quella per la storia pari sono". Se si evita di cadere in questo errore, a mio avviso è storicamente necessario riconoscere che fu ingiusto e grave che i bersaglieri a ponte Landolfo abbiano ucciso quattrocento civili per vendicare i loro quaranta morti. E’ ingiusto trattare da briganti tutti coloro che si schierarono con i briganti, ivi compresi ufficiali e soldati di un esercito professionalmente valido come era quello borbonico, che si trovarono dalla parte sbagliata.

Ma quella identità va recuperata?

Quella identità va recuperata, ma in un contesto in cui tutto venga incluso.

E’ un problema di narrazione storica?

Noi celebrando il mito, rischiamo di dare l’immagine di un Mezzogiorno che entra nell’unità d’Italia perché i Mille, cioè ottocento bergamaschi più pochi altri, lo attirarono in questa trappola sabauda.

Il Mezzogiorno fu quella parte del Paese nella quale fu più forte il sentimento nazionale unitario e fu più forte l’idea che per realizzarlo bisognasse ispirarsi a sentimenti repubblicani o addirittura rivoluzionari. Le matrici del sentimento nazionale meridionale affondano negli anni ’96-’99 del XVIII secolo, quando Francesco Mario Pagano, Vincenzo Cuoco e altri generano una cultura che era più fortemente unitaria di quella del Centro-Nord.

Intanto recuperiamo tutto questo, poi saremo in grado di mettere in luce che troppo fu vissuta e si fece vivere l’unificazione come conquista sabauda. Discutiamone. Io non ho il minimo dubbio che se non fosse stato consegnato tutto il più rapidamente possibile al Re, tra francesi e inglesi avrebbero raso al suolo la costruzione dell’Unità d’Italia. I personaggi dell’epoca si muovevano certamente entro i confini strettissimi di una sovranità limitata. Io mi rendo conto che per lo stato sabaudo valevano le leggi sabaude che si estesero al Regno d’Italia, quindi il voto spettava all’1,5 della popolazione. Ma ai plebisciti avevano votato il 25% degli italiani e quel 23,5% che si era espresso in favore dell'Italia si vide privato del diritto di voto appena ci fu entrato. Per questo motivo, soprattutto se viveva nel Mezzogiorno, si sentì tradito.

Se noi diremo queste cose, fermo restando che l’Unità d’Italia era la giusta stella polare di quel tempo e solo lo Stato sabaudo la poteva realizzare, eviteremo che quelle vampate di retorica antinazionale accendano fuochi più consistenti.

Per superare queste fratture, quale è il ruolo che può avere la narrazione storica? Quale può essere il ruolo degli storici nel produrre una discussione che non chiuda ma che apra tutte le porte oscure della storia d’Italia?

È un ruolo fondamentale, ma non per épater les historiens: io sono amareggiato e assillato dal vedere una parte degli storici che ancora continuano a contrapporre letture del Risorgimento riflettenti ciascuna la lotta delle parti dell’epoca, per cui c’è il cavouriano che difende l’Italia di allora e accanto il mazziniano che ancora oggi dice: «Ma l’altra Italia sarebbe stata meglio». Lo so anche io che l’altra Italia sarebbe stata meglio, solo che fu possibile fare solo quella.

Il passaggio dal paradigma della Resistenza tradita a quello del Risorgimento tradito è un passo brevissimo.

E’ un passaggio facilissimo e con esso tutta la nostra storia diviene così una storia di occasioni perdute. E’ uno stilema che ci portiamo dietro da allora: tre mesi dopo che fu fatta l’Unità d’Italia, l’occasione era già stata perduta!

Oggi, pensando ai problemi del presente e del domani, se non ritroviamo un'identità comune forte, rischiamo veramente di frammentarci: non dico che si disgregherà l’unità nazionale, ma ci frammenteremo in tante piccole filiere di un presente senza fine. Io l'ho sostenuto al convegno della Sissco di Cagliari: deponete le armi con cui fu combattuto il Risorgimento, il vostro compito non è proseguire le lotte risorgimentali ma narrarle. E’ un problema di narrazione storica capace di recuperare tutto e di mettere tutto con il massimo di lucidità sotto gli occhi degli italiani, in un momento nel quale l’ascolto per queste cose è alto, perché queste celebrazioni, a dispetto della sordina con la quale sono partite, hanno in realtà attivato una grande voglia di partecipare e di discutere: istituti culturali intestati a intellettuali locali o nazionali, università, scuole... Io l’altro ieri ho passato il pomeriggio a Potenza, con altri colleghi (tra cui Mascilli Migliorini, Lerra, Tessitore...) in un’aula magna dell’università strapiena di persone - non solo di studenti - a discutere di queste cose, percependo una una grande partecipazione.

C’è l’ascolto, la gente vuol sapere...

E’ un’occasione unica che abbiamo, al termine della quale, non è che avremo "fatto l’Italia o si muore!", ma avremo potuto contribuire a irrobustire un’identità di cui si sente la mancanza.