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Francesco Benigno, La mala setta: alle origini di mafia e camorra, 1859-1878

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Francesco Benigno, La mala setta: alle origini di mafia e camorra, 1859-1878, Torino: Einaudi, 2015, 403 pp.

Il dibattito storiografico sulle organizzazioni criminali italiane del XIX secolo viene riacceso grazie al contributo dello storico Francesco Benigno con l’opera La mala setta. Mediante un approccio decisamente innovativo l'autore prende in esame il crimine organizzato italiano nella seconda metà dell'Ottocento attraverso la categoria delle cosiddette «classes dangereuses». Benigno evidenzia come, durante i primi anni dell'Unità d'Italia, la storia dello Stato governato dai liberali moderati e quella dei gruppi criminali (i camorristi a Napoli, i mafiosi in Sicilia, ma ugualmente le associazioni di malfattori nelle Romagne) siano intrecciate. Durante questo periodo si assiste, da un lato, alla nascita delle suddette organizzazioni criminali, assimilate dall'opinione pubblica dell'epoca al modello della setta segreta, e dall'altro all'impiego, da parte delle autorità della pubblica sicurezza, di criminali per reprimere gli oppositori politici.

L'aspetto innovatore di questo approccio storiografico consiste nel capovolgere la prospettiva che, tralasciando di considerare il reale impatto che la camorra e la mafia delle origini ebbero sui contemporanei, mira a studiare le due organizzazioni criminali come una sorta di anticipazione del profilo che assumeranno nel corso del XX secolo. Benigno sostiene infatti che sia necessario «immergersi nella confusione semantica» dei discorsi dell'epoca (siano essi politici, giudiziari, polizieschi o letterari), che presentarono la camorra come una setta criminale e la mafia come una società segreta occulta, per poter comprenderne il valore. Nel corso dell'opera sono messi in relazione gli eventi politici del tempo con gli effetti che i processi criminali – contro le «associazioni di malfattori» – e le misure straordinarie di polizia ebbero sull'opinione pubblica. Inoltre vengono analizzate anche le rappresentazioni dei milieux criminali nella letteratura attraverso la distinzione, compiuta in seno alla cultura borghese, tra le classi laboriose e quelle pericolose. Dal criminale balzachiano Vautrin alla malfamata foresta parigina di Eugène Sue, il crimine si mescola alla sua stessa rappresentazione romanzesca e nutre l'immaginario. L'autore sottolinea il timore latente, suscitato da una possibile insurrezione della populace, che si lega al mondo della setta segreta, identificata sempre più come una contro-società minacciosa.

La descrizione delle classi pericolose giunge ben presto in Italia e, fin dall'alba dell'Unità nazionale, si evince nei giornali, nei romanzi e nei resoconti della polizia. Il crimine urbano viene paragonato ad una sorta di società segreta – organizzata gerarchicamente, con leggi, rituali e un proprio argot – che è necessario eradicare per garantire la sicurezza nazionale. Nell’opera sono evidenziate le pratiche poliziesche dell'epoca, come l'uso ufficioso dei criminali per la lotta contro le cospirazioni. Un esempio dunque di cogestione dell'ordine pubblico tra polizia e criminali (pratica che risale già Napoleone I) sarà ripresa dalle autorità del regime della Destra storica italiana. «Il faut faire de l'ordre avec le désordre», disse il prefetto di polizia Marc Caussidière, durante i moti del 1848 a Parigi. Una zona d'ombra del potere che dispone di un'armata di agenti infiltrati e di mouchards, controllati dai commissari di polizia, per manipolare i movimenti popolari e i gruppi politici d'opposizione. Il fine sarà di legittimare, agli occhi dell'opinione pubblica, le misure preventive e repressive operate dallo Stato.

Lo sviluppo del crimine organizzato tra gli anni '60 e '70 dell'Ottocento e la popolarità crescente della mafia e della camorra si annodarono strettamente agli sforzi compiuti per reprimere i gruppi d'opposizione politica, dapprima garibaldini e repubblicani, in seguito socialisti e internazionalisti. Tuttavia, come ricorda Benigno, non si tratta soltanto di una storia della repressione, infatti le pratiche poliziesche e giudiziarie mirano anche all'identificazione del «soggetto criminale» e alla produzione di reali modelli di sette criminali organizzate. Considerare i discorsi sul crimine nella loro globalità e compararli a quelli che circolavano nell'opinione pubblica, significa considerare i processi d'identificazione e di repressione come dei processi reali che producevano effetti concreti nella società. Si è dunque di fronte ad un immaginario estremamente performativo e ciò che risulta essenziale, secondo questo approccio narrativo del reale, è ridonare un senso alle realtà criminali, prendendo sul serio gli effetti discorsivi, i quali giocano un ruolo assolutamente decisivo tanto nella costruzione dell'immaginario, quanto in quella delle realtà sociali.

Attraverso quest'ottica, Francesco Benigno ci permette, al contempo, di riflettere sugli strumenti di costruzione identitaria e di comprendere i discorsi tenuti all'origine sulla «mala setta», distaccandoci cosi dalle interpretazioni attuali sulle organizzazioni mafiose italiane.