Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Alfredo Jaar e la guerra in Ruanda: l’immagine negata come strategia di rappresentazione della sofferenza e degli eccidi

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Abstract

The text tries to analyze the dynamics of the representation of suffering and massacres, focusing on the Rwanda Project created by the Chilean artist Alfredo Jaar.  In particular this cycle of works want to reflect on the attempt to escape the spectacularization of war images, present in our contemporary society, through a subtle strategy of negating the image itself.

What makes an image intolerable? At the first sight, the question seems merely to ask what features make us unable to view an image without experiencing pain or indignation. But a second question immediately emerges, bound up with the first: is it acceptable to make such images and exhibit them to others? [Rancière 2009, 83]

La spettacolarizzazione della guerra e delle immagini del dolore, soprattutto a partire dagli ultimi anni del XX secolo, è un ricorrente argomento di dibattito tra intellettuali e artisti. Recentemente, infatti, si sono pubblicati molti articoli e libri, sono stati organizzati incontri ed esposizioni, che indagano i motivi psicologici, sociali, politici e, non ultimo, estetici che hanno condizionato e favorito la diffusione di tali immagini. Tra questi, particolare fortuna editoriale ha avuto il libro Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag che pone in modo sintetico e con un tono chiaramente divulgativo le principali questioni che tali immagini pongono. Nella loro essenzialità le tesi espresse dalla scrittrice e intellettuale americana ci fanno capire perché e fino a che punto queste immagini siano necessarie:

Designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderare le fiamme. E tuttavia [...] tali immagini non possono che essere un invito a prestare attenzione, a riflettere, ad apprendere, ad analizzare le ragioni con cui le autorità giustificano le sofferenze di massa. Chi ha provocato ciò che l’immagine mostra? Chi ne è responsabile? È un atto scusabile? Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che andrebbe invece messo in discussione? Sono queste le domande da porsi, nella piena consapevolezza che lo sdegno morale, al pari della compassione, non è sufficiente a dettare una linea di condotta. [Sontag 2003, 99-100]

A partire anche da riflessioni come quelle della Sontag si è cominciata, a poco a poco, ad avvertire la necessità di affiancare alle documentazioni e alle testimonianze di guerre, efferatezze e stragi – che hanno continuato a imperversare anche dopo la concentrazione registrata durante la Seconda Guerra Mondiale – il bisogno di capire più a fondo quale fosse il rapporto che avevamo costruito con le immagini che testimoniano tali atrocità. Un bisogno che si è fatto largo anche nella mente di chi quelle immagini le ha scattate con una macchina fotografica per ottemperare alle esigenze informative, e che è stato anche un importante motivo di riflessione per chi, con un tempo ben più ampio a disposizione, le immagini intendeva costruirle dipingendo un quadro, assemblando un’installazione, o montando un documentario. In particolare, l’attenzione di intellettuali e autori si è concentrata sulle conseguenze che tali immagini comportano nelle menti degli osservatori e sul loro effettivo valore (anche) in termini di preservazione della memoria. Tali ragionamenti hanno spinto alcuni artisti a estremizzare il meccanismo di spettacolarizzazione e forzando i processi di estetizzazione a cui erano sottoposte le tragedie più recenti, un fenomeno che trova le sue radici profonde anche in certe forme di realismo che l’arte, anche in epoche storiche precedenti, ha coltivato. Partendo da un analogo punto di partenza altri artisti si sono, invece, spinti in una direzione completamente opposta che li ha condotti a un rifiuto quasi integrale rispetto alla produzione di nuove immagini del dolore, da loro percepite come una forma di speculazione sulle altrui sofferenze. Senza rinunciare a occuparsi di tali argomenti, tali artisti hanno imboccato una strada che li ha condotti a sfiorare una sofisticata forma di iconoclastia. Senza mai arrivare a una completa negazione delle immagini, molti di questi autori hanno cercato, infatti, di decostruire e disinnescare quel meccanismo di spettacolarizzazione e di sorpresa cui hanno fatto spesso ricorso anche fotoreporter e giornalisti cercando di escludere dalle loro opere ogni effetto teso a sbalordire e a scioccare lo spettatore e provando a sperimentare nuove forme narrative e nuove modalità di presentazione di tali eventi.

Lungo questa strada un ruolo importante va indubbiamente riconosciuto a Werner Herzog. Come è noto, il regista tedesco oltre ad aver realizzato numerose pellicole di fiction ha, infatti, proposto le sue riflessioni con altrettanta efficacia attraverso il format documentario [Ceretto e Morsiani, 2006], spesso ritagliandosi un ruolo vicino a quello dell’antropologo del contemporaneo, di osservatore esplicitamente estraneo per cultura e per passato agli avvenimenti trattati, dotato, tuttavia, di uno sguardo totalmente aderente alla posizione dell’altro che veniva ripreso, e che ci ha offerto la possibilità di rielaborare – dunque di farci rileggere – situazioni molto differenti tra di loro sia culturalmente, sia politicamente. Numerose sono le sue opere che potremmo citare per avvalorare la nostra lettura, basti pensare a Fata Morgana del 1968, a I medici volanti dell’Africa orientale (Die Fliegenden Ärzte von Ostafrika) del 1969 o, ancora, ad Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis) del 1992, opere caratterizzate da uno stile assolutamente personale in cui la visionarietà del regista ci accompagna all’interno di realtà molto complesse.

Lungo la strada che Herzog ha contribuito a tracciare all’interno del territorio variamente segmentato dall’etichetta documentario, si situano numerose esperienze tra cui, per esempio, i recenti The Act of Killing, diretto nel 2012 dal regista statunitense Joshua Oppenheimer, che descrive l’eccidio di circa 500.000 persone perpetrato in Indonesia tra il 1965 e il 1966 attraverso un re-enactment in cui due dei protagonisti di allora, Anwar Congo e Adi Zulkadry, raccontano, teatralizzandolo davanti alle telecamere, il loro modo di operare ai tempi dei massacri. I due narratori sono stati figure, anche se non di primissimo piano, che si possono certamente annoverare tra i responsabili di quell’eccidio e che oggi sono considerati rispettabili membri di organizzazioni paramilitari indonesiane. A The Act of Killing è seguito, sempre sullo stesso tema, The Look of Silence, nel 2014 candidato all’Oscar come miglior documentario, che ha visto lo stesso Herzog tra i produttori.

Se nel campo documentaristico almeno alcune delle riflessioni che stiamo articolando diventano, quasi naturalmente, una modalità di ricerca vicina agli autori più sensibili, all’interno del campo delle arti visive e degli spazi museali il discorso si presenta in modo sensibilmente diverso anche semplicemente per la diversa funzione e per il tipo di fruizione che li ha storicamente contraddistinti. In alcuni casi, tuttavia i percorsi delle arti visive e del documentario si trovano a imboccare strade comuni. Il re-enactment è stato, per esempio, una strategia di rappresentazione usata anche da Jeremy Deller [1], se pur in modo dissimile rispetto a quella messa in atto da Joshua Oppenheimer, allo scopo di ricostruire nel 2001 i durissimi scontri avvenuti diciassette anni prima a Orgreave, nel South Yorkshire in Gran Bretagna, tra i minatori e la polizia durante il protrarsi degli scioperi in quella regione. Una ricostruzione/performance collettiva realizzata con la collaborazione della comunità che aveva vissuto quegli episodi.

Al di là di pratiche che si sono spesso avvicinate e a volte sovrapposte – sempre più spesso, infatti, i confini tra documentario e arte contemporanea tendono a svanire, erosi dagli stessi protagonisti [Stallabras 2013] – molti artisti si sono avvicinati a tali modelli e alle problematiche a essi collegati soprattutto nel tentativo di usare quale soggetto della propria espressione artistica la guerra, gli episodi più atroci che l’umanità ha affrontato in questi ultimi anni, provando a sovvertire le consuete procedure di rappresentazione. A tal proposito, un caso emblematico di riflessione è il lungo e peculiare progetto che Alfredo Jaar ha realizzato intorno alla guerra che ha segnato il Ruanda e tutta la regione dei Grandi Laghi al centro dell’Africa nel 1994.

Nato in Cile nel 1956, anche se da molti anni residente a New York, Jaar è uno degli artisti più sensibili ai problemi legati alla rappresentazione del dolore e delle tragedie collettive. Da questo punto di vista The Rwanda Project [2] è il lavoro che più di ogni altro mi sembra esprimere la complessità della sua ricerca. Sotto questo titolo possiamo rubricare una serie di lavori che l’artista cileno ha realizzato tra il 1994 e il 2000 con l’obiettivo di approfondire e commentare non soltanto i tragici eventi che hanno travolto quella regione africana, ma anche la diffusione delle immagini a essi legati nonché la reazione che si è avuta negli Stati Uniti e più in generale nei Paesi più ricchi e potenti, e non soltanto a livello politico ma anche mediale e dell’opinione pubblica. Nel sito dell’artista (www.alfredojaar.net) troviamo infatti ben ventuno differenti opere (o almeno versioni di esse) riconducibili al titolo di questo ampio progetto [3]. Anche semplicemente per l’estensione temporale e quantitativa della sua ricerca, The Rwanda Project va senz’altro ritenuto centrale all’interno della produzione di un artista poliedrico e capace di esprimersi tramite media e procedure diverse a seconda dei temi trattatati e, allo stesso tempo, tra i più innovativi, profondi e coerenti fra quelli che hanno provato a raccontare la nostra storia recente.

Di formazione architetto, fotografo e videomaker, Alfredo Jaar, che alle spalle aveva già una importante carriera artistica [4], parte in aereo da Parigi per Kampala con l’idea di attraversare l’Uganda e raggiungere Kigali, uno dei centri in cui si era appena consumata la tragedia che aveva intenzione di raccontare. Insieme a lui viaggia Carlos Vásquez, che lo accompagna collaborando con lui alla spedizione. Il viaggio attraverso il Ruanda inizia così nell’agosto del 1994 e immediatamente comincia il lavoro di raccolta di foto e di racconti dell’accaduto che avrebbe portato alla luce e denunciato l’eccidio appena commesso sotto gli occhi di tutti e ignorato da quasi tutti.

Contemporaneamente alla sua ricerca sul campo, Jaar avverte la necessità di interrogarsi sulle modalità con cui offrire questa sua parziale e non esaustiva testimonianza, in particolare su quale assetto dare a una sorta di memoriale delle vittime di un genocidio, che si sottraesse all’uso delle forme e delle simbologie tipiche della nostra tradizione figurativa occidentale del passato [Pirazzoli 2010] e che per questa occasione avvertiva come troppo retoriche. Allo stesso tempo, obiettivo dell’artista era evitare di usare questa tragedia per realizzare delle opere «carine» [5], di “facile” successo, esportabili in un mondo dell’arte in cui si commercializzano anche opere di denuncia, scomode. In una lunga e interessante intervista realizzata da Patricia C. Phillips alcuni anni dopo la realizzazione del progetto, Alfredo Jaar si sofferma proprio su quest’ordine di considerazioni nel rispondere agli interrogativi posti dall’interlocutrice:

In a way, the question is: are we allowed as artists to create art out of suffering? Or should we let these tragedies sink into invisibility? Why can’t I resist their invisibility in the media and offer my own reading, my own image, my own outrage, my own accusations about this tragic situation? To create these works is not only to put Rwanda on the map but is also a modest way to express solidarity, to create, as I did, a memorial for the victims of genocide in Rwanda. Now, how many gestures of solidarity have you seen? How many memorials to Rwanda have you seen? This is a memorial for one million people. What is this worth? [Phillips, Jaar 2005, 15]

Le prime forme che assume il Rwanda Project sembrano caricarsi di un tono strettamente personale reagendo a quell’esperienza travolgente con un’affermazione di vita. Alfredo Jaar, infatti, compra una gran numero di cartoline illustrate con immagini turistiche sponsorizzate dalla Sabena (l’allora compagnia aerea di bandiera del Belgio) e le spedisce a una trentina di suoi amici. Su queste missive l’artista scrive il nome di alcuni dei sopravvissuti, persone da lui incontrate nella capitale ruandese, accompagnato dalla dichiarazione «Is still alive» [Levi Strauss 2003, 93 e ss.]. Una modalità che si potrebbe classificare come totalmente privata, un grido di paura, che si alimentava anche degli stereotipi visivi – gli animali selvaggi e i paesaggi incontaminati – e narrativi – su ognuna di esse c’era riportata la dicitura «Découvrez 1000 merveilles au pays des 1000 collines» – che quelle cartoline contenevano. Signs of Life, questo è il titolo di questa sezione di The Rwanda Project, si configura dunque come preciso segnale dell’intenzione di innescare un processo di controinformazione, distante nelle forme e nei contenuti da ciò che in quel momento veniva offerto dai canali mediatici che ci mettevano a conoscenza delle dimensioni della tragedia ma non si preoccupavano (non riuscivano?) di far cenno all’umanità che si celava dietro quei numeri e quelle immagini spaventose.  Signs of Life è un messaggio che si nutriva anche di una serie di rimandi interni al mondo dell’arte e soprattutto adottava, in modo quasi letterale, il linguaggio delle sperimentazioni concettuali di On Kavara che nel corso di circa tre decenni aveva spedito qualche centinaio di telegrammi con la frase «I still alive». Analogamente al lavoro dell’artista giapponese Jaar, infatti, lasciava intravvedere una possibile storia celata dietro a quella affermazione apodittica senza, però, ricorrere a forma narrative più esplicative.

La prima forma “pubblica” con cui si confronta The Rwanda Project è, invece, una serie di manifesti luminosi disseminati nella città di Malmö, in Svezia, già alla fine del 1994. In questi spazi usi a ospitare esclusivamente messaggi pubblicitari compariva semplicemente e ripetutamente la scritta «Rwanda Rwanda». Un appello, più vicino a un urlo di sgomento che a una qualsiasi possibile articolazione del discorso, che esprimeva l’incredulità rispetto al fatto che l’ONU, gli Stati Uniti e l’Europa, la politica e la stampa, avessero permesso tutto ciò e avessero completamente sottovalutato, quando non volutamente ignorato, ciò che stava accadendo in quella parte del mondo [6].

L’artista aveva chiaramente in mente che uno dei problemi chiavi era il ruolo avuto dall’informazione. Questa preoccupazione risulta evidente in una differente versione del progetto, Untitled (Newsweek), in cui le copertine del settimanale Newsweek uscite tra febbraio e giugno 1994 si alternavano con un breve testo in cui sinteticamente si riportava ciò che stava succedendo in Ruanda specificando il numero delle vittime presunte alla data della pubblicazione della rivista. Così facendo l’artista, in modo sintetico quanto estremamente efficace, mostrava come l’attenzione dei media si fosse concentrata sul Ruanda soltanto a molta distanza dall’effettivo svolgersi degli eventi e come il tono con cui venivano narrati i fatti avesse assunto immediatamente una connotazione, sia nella titolazione, sia nel tipo di immagini impiegate, sensazionalistica e spettacolare [7].

Nel 1996 Alfredo Jaar espone il lavoro che forse rappresenta una sintesi dell’intero progetto, The Eyes of Gutete Emerita [8]. In questo caso l’artista cileno struttura l’opera come una sorta di installazione teatrale, dove il pubblico invece di sedersi comodamente sulla poltrona assegnata si muove all’interno di un corridoio seguendo una flebile luce. La fonte luminosa in realtà è costituita da una minuta scritta che riportiamo integralmente:

Over a five-month period in 1994, more than one million Rwandans, mostly members of the Tutsi minority, were systematically slaughtered as the world closed its eyes to genocide. The killings were largely carried out by Hutu militias who had been armed and trained by the Rwandan military. As a consequence of this genocide, millions of Tutsis and Hutus fled to Zaire (now Congo), Burundi, Tanzania and Uganda. Many still remain in refugee camps, fearing renewed violence upon their return home. One Sunday morning at a church in Ntarama, four hundred Tutsis were murdered by a Hutu death squad. Gutete Emerita, 30 years old, was attending mass with her family when the massacre began. Gutete’s husband, Tito Kahinamura, and her two young sons Muhoza and Matirigari, were killed with machetes before her eyes. Somehow, Gutete was able to escape with her daughter Marie-Louise Unumararunga. After weeks of hiding, Gutete has returned to the church in the woods. When she speaks about her lost family, she gestures to corpses on the ground, rotting in the sun. I remember her eyes. The eyes of Gutete Emerita.

Questa breve narrazione ci fa immergere nell’oscurità (e non solo in senso metaforico) conducendoci in una seconda sala dove su un enorme tavolo luminoso è accatastata un’enorme massa di diapositive. Ai bordi del tavolo sono state poste delle lenti per dare la possibilità allo spettatore di osservare meglio le diapositive che, una volta vicini, scopriamo essere tutte uguali. In ognuna di esse (dalla didascalia scopriamo che sono un milione) sono riprodotti gli occhi di Gutete Emerita. Gli occhi di una testimone, una donna che ha visto marito e figli uccisi. Una testimone per un milione di persone uccise.

Il testo di Alfredo Jaar è una lunga didascalia che ci permette di dare un senso all’immagine che (almeno nelle descrizioni) ha a che vedere con la tragedia ruandese. Al tempo stesso è una sineddoche che ci permette di vivere quella tragedia dalle enormi proporzioni attraverso l’esperienza di una singola persona. Alfredo Jaar ha indubbiamente trovato un procedimento particolarmente adatto per comunicare il peso di quella tragedia ridando un’identità a chi è stato trasformato soltanto in un numero. Il tentativo, dunque, è quello di ridare un volto, uno sguardo, alle persone che non possono parlare, trasformando un puro e anonimo dato in una serie di essere umani. E anche nel caso di Gutete Emerita Alfredo Jaar cerca le persone senza voce tra i sopravvissuti proprio perché «the true witness is one who does not want to witness. That is the reason for the privilege accorded to his speech. But this privilege is not his. Is the privilege of the speech that obliges him to speck despite himself» [Ranciére 2009, 91]. L’impatto emotivo sullo spettatore è innegabilmente efficace e si gioca sul ribaltamento delle aspettative rispetto alle fotografie.

Se Rwanda Project è, come è ovvio che sia, denso di riferimenti agli avvenimenti sotto esame, non mancano tuttavia anche numerosi rimandi interni all’arte stessa. Le scatole nere di Real Pictures – contenitori in cui vengono stivate le tantissime fotografie scattate da Jaar in Ruanda, inaccessibili allo sguardo dello spettatore – sono molto vicine ai lavori minimalisti che ne sono un chiaro antecedente, almeno a livello formale. Sotto questo punto di vista tali opere esprimono un punto di vista critico rispetto all’universalità implicita al messaggio proposto da questa corrente artistica e, conseguentemente, alla sua pretesa neutralità, nonché in generale all’imparzialità delle immagini. Il lavoro di Jaar, infatti, pur prendendo le mosse da quel clima – vivace soprattutto in ambiente newyorkese – attraverso le didascalie che leggiamo su quelle scatole nere, dall’apparenza così asettica e prive di connotazioni emozionali, ci rende consapevoli che sono latrici della disperazione e delle tracce di uno dei momenti più bui della storia umana. Lo spettatore non sa esattamente cosa ritraggano, o meglio, tramite la descrizione può immaginare il contenuto di tutte le singole fotografie che sono impilate, ma non sa esattamente che forma quelle atrocità hanno avuto, anche se ne ha viste tante altre, e la sua immaginazione torna alle immagini proposte in giornali, film, televisioni, o nel web. Immagini reali e quelle frutto di una messa in scena più o meno dichiarata. News televisive e video raccolti su internet si mescolano all’immaginario hollywoodiano, e più in generale, facts and fictions sembrano interscambiabili.

È evidente che le molteplici forme di rappresentazione che Alfredo Jaar costruisce intorno a questa tragedia provengono dalla consapevolezza da parte dell’artista che le strategie di rappresentazione usuali hanno completamente fallito [9] nel comunicare ciò che era successo in Ruanda, quando nessuno, neanche l’opinione pubblica, ebbe una reazione. La strategia di Alfredo Jaar – e in tale aspetto ovviamente si differenzia in modo radicale da giornalisti e da fotografi [10] – pare dunque fondata sulla necessità di rallentare il flusso di immagini per cercare di dedicare più tempo ai fatti e soprattutto alle persone, ai sopravvissuti. Anche se, come puntualmente ci segnala Levi Strauss, è necessario tenere sempre presente, che le opere d’arte: «Certamente le fotografie da sole non possono dire “tutta la verità”, sono sempre e solo momenti. Ciò che fanno con insistenza è registrare la relazione del fotografo al soggetto, la distanza tra i due» [Levi Strauss 2007, 22].

 

 

 


Bibliografia

  • Ceretto L., Morsiani A. (eds.) 2006, Al limite estremo. I documentari di Werner Herzog, Torre Boldone: Edizioni di Cineforum.
  • Deller J. 2002, The English Civil War: Part II. Personal Accounts of the 1984-85 Miners’ Strike, Londra: Artangel.
  • DeLillo D. 1991, Mao II, New York: Viking (Trad. it. 2003, Mao II, Vezzoli D. (ed.), Torino: Einaudi).
  • Didi-Huberman G., Pollock G., Ranciére J., Schweizer N. 2007, Alfredo Jaar. La politique des images: [exposition], Musée Cantonal des Beaux-Arts, Lausanne, [1er juin au 23 septembre 2007], Zurigo: JRP-Ringier.
  • Hubber L. 2017, Rwanda’s genocide didn’t make the front page news: An interview with Alfredo Jaar, «The Indian Economist», 14 gennaio.
  • Jaar A., Okri B., Vidler A., Levi Strauss D., Altajó V. 1998, Let There Be Light: Alfredo Jaar. The Rwanda Project 1994-1998, Barcellona: Actar.
  • Levi Strauss D. 2003, Between the Eyes. Essay on Photography and Politics, New York: Aperture; (Trad. it. 2007, Politica della fotografia, Milano: Postmedia Books).
  • Phillips P. C., Jaar A. 2005, The Aesthetics of Witnessing: A Conversation with Alfredo Jaar, «Art Journal», 64, no. 3 (Fall): 6-27.
  • Pirazzoli E. 2010, A partire da ciò resta. Forme memoriali dal 1945 al muro di Berlino, Reggio Emilia: Diabasis.
  • Rancière J. 2008, Le spectateur émancipé, Parigi: La Fabrique (Trad. inglese 2009: The Emancipated Spectator, Londra: Verso).
  • Sontag S. 2002, Regarding the Pain of Others, ed. Farrar, Straus and Giroux; (Trad. it. 2003, Davanti al dolore degli altri, Milano: Mondadori).
  • Stallabras J. (ed.) 2013, Documentary, Cambridge: MIT Press.

Sitografia

  • http://www.alfredojaar.net
    Sito ufficiale dell’artista in cui sono documentati i principali progetti legati a The Rwanda Project e sono pubblicati alcune dei testi che lo accompagnavano.

Note

1. Cfr. Deller 2002. Vedi anche: http://www.jeremydeller.org/TheBattleOfOrgreave/TheBattleOfOrgreave_Video.php.

2. Cfr. Okri et al. 1998, anche in http://www.alfredojaar.net/index1.html.

3. In una recente intervista l’artista afferma che il progetto complessivamente conta ben venticinque lavori diversi che definisce «Exercise in Representation»: Hubber 2017.

4. Aveva, infatti, già partecipato a importanti esposizioni periodiche come la Biennale di Venezia (1986), Documenta a Kassel (1987), San Paolo Biennale (1987); sue personali erano state ospitate presso il New Museum a New York, la Whitechapel di Londra e al Museum of Contemporary Art di Chicago (1992). Nel 1985 aveva ottenuto il Guggenheim Fellowship.

5. Una riflessione interessante in questa direzione la possiamo anche recuperare dalla recente narrativa. Don DeLillo, infatti, in Mao II così fa parlare Brita, una fotografa, tra i protagonisti del suo romanzo: «Qualunque cosa io fotografassi, realtà, miseria, corpi distrutti, facce insanguinate, per grande che fosse l’orrore, alla fine mi ritrovavo sempre con delle stronzissime immagini carine. Capisce? E così ho dovuto inventarmi delle cose molto complicate che probabilmente sono molto semplici. Uno arriva a una certa età, non è così che funziona? E allora finalmente capisce che cosa fare.»: DeLillo 2003, 29.

6. Alfredo Jaar tornerà a usare nel 2000 i semplici nomi geografici delle città teatro del massacro – Rukara, Kigali, Mibirizi, Gikongoro, Cyangugu – per una proiezione notturna sui palazzi del centro storico di Lione. L’opera si intitolava Signs of Light.

7. Esiste anche una versione di Untitled (Newsweek) adattata alle esigenze del web nel più volte citato sito ufficiale dell’artista.

8. Anche quest’opera è contrassegnata da diverse versione, inclusa una versione online.

9. «I realized twenty-five different projects and most of them tries a different strategy of representation because the traditional strategies of representation had failed to convey what happened and no one had reacted.»: Hubber 2017.

10. Per i rapporti tra arte e fotogiornalismo cfr. Didi-Huberman L’émotion ne dit pas «je». Dix Fragments sur la liberté esthétique in Didi-Huberman et. al. 2007, 64. A questo proposito possono essere utili anche alcune dichiarazioni dello stesso Jaar: «I admire them. But the difference is that I have much more time than they have. They are running around with these huge cameras, taking photographs and sending them to photo agencies to be published as soon as possible. They don’t control the way these images are presented to the world.»: Hubber 2017.