Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

La Chiesa Cattolica e l’Estado Novo nell’Africa Portoghese: tra cooperazione istituzionale e dissenso politico

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Abstract

In this article we address the issue of the political relationship between the Estado Novo regime and the Catholic Church in Portuguese colonial Africa. We will thus consider forms of institutional cooperation, embodied in the 1940 Missionary Agreement, but also cases of tension and even dissent between members of the Catholic clergy and Portuguese colonial authorities. In the end, we will show that the Catholic Church was far from representing an accessory of the Estado Novo in Africa.

Premessa

In questo saggio cercheremo di affrontare la problematica delle relazioni tra l’Estado Novo e la Chiesa cattolica nel contesto coloniale portoghese in Africa. Non è nostra intenzione ricostruire la storia completa di queste relazioni – nè sarebbe possibile farlo nell’ambito di questo breve saggio –, ma vogliamo solo dare alcune chiavi di lettura sulla relazione tra i poteri politico e religioso nel quadro della dominazione coloniale portoghese nel continente africano durante la dittatura salazarista. Prenderemo così in considerazione forme di cooperazione istituzionale, sostanziatesi nell’Accordo Missionario del 1940, ma anche casi di tensione e dissenso tra i membri del clero cattolico e le autorità coloniali. E, alla fine, verremo a dimostrare che la Chiesa cattolica fu lungi dal rappresentare una stampella dell’Estado Novo in Africa.

Cooperazione istituzionale

Il 7 maggio del 1940 furono firmati in Vaticano, a Roma, il Concordato e l’Accordo Missionario tra Portogallo e Santa Sede (Secretariado de Propaganda Nacional 1943; Leite et al. 1993; Centro de Estudos de Direito Canónico 2001; Carvalho 2009). Si mise, così, fine alla questione religiosa sorta con l’instaurazione della Repubblica in Portogallo, nel 1910 (Moura 2004; Proença 2011). Del resto, le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica avevano via via conosciuto un crescente miglioramento e distensione fin dagli ultimi anni della Prima Repubblica Portoghese (1910-1926), soprattutto dopo la revisione della legge di separazione durante il consolato di Sidónio Pais (Silva 1996-1997; Matos 2011). Ma fu soprattutto dopo l’instaurazione della dittatura militare, nel 1926, che si cercò di risolvere il contenzioso tra lo Stato e la Chiesa (Rodrigues 1993, 32; Cruz 1998; Santos 2012).

In ambito coloniale, l’approvazione dell’Estatuto Orgânico das Missões Católicas Portuguesas de África e Timor (Decreto n. 12.485, del 13 Ottobre 1926, del Ministro delle Colonie, João Belo [1]) e gli accordi relativi al Padroado do Oriente, del 15 aprile 1928 e dell’11 aprile 1929 [2], prepararono il terreno alla soluzione della questione religiosa, che venne definitivamente sanata solo nel 1940. Il Concordato del 1940, negli articoli 26, 27, 28 e 29, enunciò le norme fondamentali relative all’attività missionaria nell’impero portoghese [3]. Ma la rilevanza della questione fece sì che lo Stato portoghese e la Santa Sede sviluppassero la materia in una convenzione particolare, stipulando un accordo destinato a regolare in maniera più completa le relazioni tra la Chiesa e lo Stato riguardo alla vita religiosa dell’Oltremare portoghese, mantenendo tutto quanto era stato precedentemente accordato nei riguardi del Padroado do Oriente. Da qui l’Accordo Missionario, firmato lo stesso giorno del Concordato, e che interessava essenzialmente il territorio dell’Africa portoghese (Cruz 1997).

Per l’Estado Novo, l’azione missionaria cattolica rivestiva un’importanza sostanziale, poichè considerava le missioni cattoliche come “strumenti di civilizzazione e influenza nazionale”, in opposizione alle missioni protestanti, che erano considerate “agenti delle potenze straniere” e veicoli di de-nazionalizzazione e di sovversione delle popolazioni africane (Santos 1954). Alle missioni cattoliche spettava anche il compito di preparare le anime degli indigeni alla predisposizione al lavoro, dal momento che il lavoro era lo strumento per eccellenza del processo di civilizzazione dell’indigeno. Nelle missioni, gli indigeni potevano apprendere un insieme di arti e mestieri, così come il dovere morale e legale di lavorare per provvedere alla propria sussistenza e al progresso dell’economia coloniale (Pimenta 2015; Jerónimo 2015).

Per questi motivi, lo Stato portoghese cercò fin da subito di stabilire una specie di partnership con la Chiesa cattolica, favorendo l’azione missionaria cattolica a scapito delle attività delle Chiese protestanti. Le missioni cattoliche venivano aiutate dalle autorità coloniali, anche sul piano finanziario, ma in contropartita lo Stato pretendeva di esercitare un certo controllo sull’attività missionaria dell’Oltremare portoghese, togliendo alla Propaganda Fidei la sovrintendenza sul missionariato nello spazio coloniale portoghese. Salazar puntava, innanzitutto, a limitare i poteri della Propaganda Fidei, per controllare più facilmente l’azione della Chiesa nello spazio coloniale. In questo senso, nel 1937, durante i negoziati per il Concordato, lo Stato portoghese annunciò i termini delle sue condizioni rispetto alla questione missionaria. Così, le missioni cattoliche sarebbero state aiutate e protette dallo Stato, ma sarebbero state soggette alla giurisdizione dei prelati, e i suoi direttori avrebbero dovuto essere cittadini portoghesi o autorizzati dal governo. Inoltre, la nomina dei vescovi sarebbe stata confermata dal governo portoghese. In linea generale, la Chiesa Cattolica accettò questi termini, consentendo che l’azione missionaria venisse effettuata “secondo i modelli nazionali”. Così, tutti i missionari cattolici avrebbero dovuto star dentro “l’organizzazione missionaria cattolica portoghese” ed essere subordinati alle autorità ecclesiastiche portoghesi (Cruz 1997, 815-845).

In questo senso, l’Accordo Missionario [4] del 7 maggio 1940 stabilì le basi definitive della relazione istituzionale tra lo Stato portoghese e la Chiesa Cattolica in campo coloniale. Vediamone alcuni dei punti principali.

In primo luogo, l’Accordo sancì la divisione ecclesiastica delle colonie portoghesi in diocesi e circoscrizioni missionarie autonome, governate rispettivamente da vescovi e vicari o prefetti apostolici, tutti di nazionalità portoghese. In Angola furono stabilite fin da subito tre diocesi, con sede a Luanda, Nova Lisboa (Huambo) e Silva Porto (Cuíto), frutto della divisione dell’antica diocesi di Angola e Congo. Anche in Mozambico furono stabilite tre diocesi con sede a Lourenço Marques (Maputo), Beira e Nampula. Successivamente, il numero di diocesi fu cambiato con l’avvallo dello Stato portoghese. A Capo Verde si mantenne in vigore il regime parrocchiale di questa antica diocesi. Nel processo di selezione dei vescovi si stabilì che la Santa Sede, prima di procedere alla nomina di un arcivescovo o vescovo residenziale o di un coadiuvante con diritto di successione, avrebbe comunicato il nome del prescelto al Governo portoghese al fine di sapere se contro di lui c’erano obiezioni di carattere politico. Lo Stato portoghese avrebbe potuto mettere il veto su un eventuale candidato alla nomina episcopale. D’altro canto, solamente le corporazioni missionarie debitamente autorizzate dal governo avrebbero potuto agire sul territorio coloniale portoghese, essendo tutte tenute a possedere case di formazione in Portogallo o nelle isole adiacenti (arcipelaghi delle Azzorre e di Madeira). Il ricorso a missionari cattolici stranieri era permesso, ma doveva essere debitamente autorizzato dallo Stato portoghese.

In contropartita, le corporazioni missionarie riconosciute, maschili e femminili, sarebbero state sussidiate, secondo le proprie necessità, tanto dal governo metropolitano, quanto dal governo delle rispettive colonie. Nella distribuzione di questi sussidi si sarebbe tenuto in conto il numero degli alunni delle case di formazione e dei missionari nelle colonie, ma anche delle opere missionarie, comprendendo in esse i seminari e le altre opere per il clero indigeno. Nella distribuzione dei sussidi a carico delle autorità coloniali, le diocesi sarebbero state considerate al pari delle circoscrizioni missionarie. Oltre ai sussidi, lo Stato portoghese si impegnava a concedere gratuitamente terreni disponibili alle missioni cattoliche, sia per il loro sviluppo, sia per nuovi insediamenti. Le missioni cattoliche e tutte le attività missionarie sarebbero state esenti da qualsiasi imposta o contributo, tanto nella metropoli, quanto nelle colonie. Oltre a ciò, lo Stato portoghese garantiva ai vescovi residenziali, ai superiori delle missioni e ai vicari e prefetti apostolici onorari consoni, riconoscendo loro anche il diritto alla pensione di anzianità. Il governo portoghese avrebbe continuato a elargire la pensione di anzianità al personale missionario a riposo. E tutto il personale missionario avrebbe avuto diritto all’abbuono delle spese di viaggio dentro e fuori le colonie.

Parallelamente, le missioni cattoliche portoghesi avrebbero potuto espandersi liberamente, per esercitare le forme di attività che erano loro proprie, così come fondare e dirigere scuole per gli indigeni e i coloni, collegi maschili e femminili, istituti di insegnamento primario, secondario e professionale, seminari, catechesi, ospedali. Nelle scuole missionarie sarebbe stato obbligatorio l’insegnamento della lingua portoghese, ancorchè fosse permesso l’uso della lingua indigena nel processo di indottrinamento della religione cattolica (Tanga 2012). Da notare, infine, che le disposizioni dell’Accordo Missionario avrebbero guadagnato forza di legge col Decreto-legge 31.207, del 5 aprile 1941, che promulgò lo Satuto Missionario. Questo testo conteneva ottantadue articoli che regolamentavano in forma dettagliata l’azione missionaria nelle colonie portoghesi, riferendosi espressamente alle questioni dell’autonomia e del finanziamento delle missioni cattoliche, all’attribuzione di responsabilità dell’insegnamento indigeno ai missionari e all’obbligo da parte dei prelati delle diocesi e delle circoscrizioni missionarie di presentare annualmente una relazione sulle attività missionarie (Brandão 2004, 59).

In questo contesto, l’Accordo Missionario del 1940 stabilì una vera partnership istituzionale tra lo Stato portoghese e la Chiesa cattolica nell’Africa portoghese. Parlando dell’Accordo Missionario, Salazar sottolineò che esso contribuiva a favorire “la nazionalizzazione dell’opera missionaria”, la quale si integrava definitivamente “nell’azione colonizzatrice portoghese” (Cruz 1997, 844).

Dissenso politico

Ma Salazar dimenticava che una cosa erano le basi istituzionali definite nell’Accordo, altra era l’azione concreta del clero cattolico nelle colonie, a cominciare dai principali responsabili della gerarchia cattolica. E, sebbene l’Accordo fosse molto vantaggioso per il missionariato cattolico dal punto di vista finanziario, una parte significativa della Chiesa nelle colonie non era disposta a fungere da “spalla” al potere coloniale portoghese. Non a caso, una parte della gerarchia cattolica fu fautrice di critiche al regime coloniale e promotrice di dissenso politico nei confronti dell’Estado Novo, dimostrando altresì che la Chiesa non era un blocco compatto e omogeneo, soprattutto dal punto di vista politico. Andiamo allora a vedere due esempi concreti di dissenso politico che ebbero come protagonisti due importanti prelati cattolici nell’Africa portoghese. Dapprima analizzeremo il caso del vicario generale dell’Angola, Monsignor Alves da Cunha. Poi, passeremo al caso del vescovo di Beira, D. Sebastião Soares Resende, uno dei più rappresentativi membri del clero portoghese in Mozambico.

Angola

Un anno e mezzo dopo la firma dell’Accordo missionario, la gerarchia cattolica si pose al centro di un caso politico che scosse il potere coloniale in Angola. Approfittando delle difficoltà in cui versava l’amministrazione coloniale portoghese durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, i coloni bianchi, in contatto col regime sudafricano del Generale Smuts e con le Forze della Francia Libera, a Brazzaville, si resero protagonisti di una cospirazione il cui obiettivo era sottrarre l’Angola alla dominazione portoghese e a una probabile influenza delle forze dell’Asse nazifascista. La vittoria tedesca sulla Francia nel giugno del 1940 aveva infatti messo il Portogallo nelle mire di Berlino. Si delineò allora la concreta possibilità di un intervento germanico nella Penisola Iberica con l’obiettivo primario di occupare Gibilterra. Ma quest’intervento – denominato “Operazione Felix” – avrebbe reso la neutralità portoghese insostenibile e avrebbe obbligato a un’entrata in guerra del Portogallo, contro o a fianco della Germania (Telo 1991). In ogni caso, l’entrata in guerra portoghese avrebbe avuto conseguenze immediate sulla situazione politica delle colonie portoghesi, come del resto era accaduto per le colonie di Francia e Belgio. Ad esempio, le colonie francesi si erano divise in base all’obbedienza a Pétain o a De Gaulle. Il Nord Africa e l’Africa Occidentale Francese avevano seguito Vichy. Invece, la maggior parte dell’Africa Equatoriale Francese aveva seguito De Gaulle e proseguito la guerra contro i nazisti. L’Africa era quindi uno dei campi operativi del conflitto mondiale. Nel caso dell’Angola, francesi, belgi e sudafricani avevano un interesse geostrategico sul controllo militare del territorio, poiché temevano che la colonia portoghese potesse servire da base alle operazioni tedesche nell’Africa Australe. Del resto, non si poteva sottovalutare l’influenza dei settori germanofili sul governo portoghese e sull’amministrazione coloniale [5].

Parallelamente, i coloni angolani erano interessati a un cambiamento dello statu quo coloniale, per cui non vedevano con “occhi malevoli” un intervento militare sudafricano in Angola. In verità, in Angola c’era una forte corrente favorevole all’entrata in guerra a fianco degli Alleati. E molti coloni pensavano che l’Angola dovesse avvicinarsi politicamente all’Africa del Sud, a scapito delle relazioni con la metropoli, ossia col Portogallo. Non è del tutto chiaro il tipo di rapporto che i coloni volevano instaurare con l’Africa del Sud. Forse una soluzione di tipo federale, in un’Unione Sudafricana allargata a tutta l’Africa Australe. O, altrimenti, una soluzione tipo Sudovest Africano, che fu affidato all’amministrazione dell’Africa del Sud – a titolo di mandato internazionale – dopo la sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale. In ogni caso, doveva essere una formula che permettesse ai coloni di ottenere un’egemonia politica ed economica interna, cioè il controllo dello Stato coloniale, cosa che era stata fino ad allora negata loro dall’amministrazione centralista di Salazar [6].

In questo senso, vari movimenti politici ebbero luogo in Angola a partire dal giugno del 1940, con il coinvolgimento di una parte dei coloni in stretta collaborazione con agenti esterni di varie nazionalità. Inizialmente, l’Unione Sudafricana delineò un piano di occupazione dell’Angola, concepito in coordinazione con la Rhodesia del Sud e con il Regno Unito, denominato “Shrapnel”. Un piano simile fu definito per il Mozambico, con il nome di “Brisk” [7]. Londra però raggelò le ambizioni di Pretoria, poichè non era interessata a una crescita dell’influenza sudafricana nella regione. L’Africa del Sud tentò allora di aggirare le obiezioni britanniche, istigando un movimento separatista di coloni all’interno dell’Angola. Questo separatismo va qui inteso in una configurazione tout court, ossia come movimento tendente alla separazione politica della colonia rispetto alla metropoli per mano della popolazione colonizzatrice. L’interlocutore privilegiato dei sudafricani nella colonia era il maggior imprenditore del Sud dell’Angola, Venâncio Henriques Guimarães. I sudafricani contavano anche numerosi simpatizzanti nelle regioni del Centro e del Sud, specialmente nei distretti di frontiera di Huíla e di Moçâmedes. Pretoria diffuse anche l’idea che il governo portoghese e l’amministrazione coloniale fossero filogermanici e che le colonie portoghesi non fossero sufficientemente difese per impedire un’occupazione delle forze dell’Asse [8].

Parallelamente, anche belgi e francesi avevano i loro agenti in territorio angolano, specificatamente a Luanda, dove esercitavano un’intensa propaganda a favore degli Alleati. I belgi svilupparono anche una certa attività politica a favore dell’occupazione dell’Angola da parte delle forze Alleate. In questo senso, belgi, francesi e sudafricani intrapresero contatti per concordare la divisione tra di loro del territorio angolano. E, alla metà del 1941, forze militari belghe, francesi, sudafricane e rhodesiane cominciarono a concentrarsi nelle zone di frontiera con l’Angola, in attesa di un segnale per entrare nel territorio angolano. Questo segnale sarebbe venuto da una ribellione dei coloni contro l’amministrazione coloniale portoghese, col pretesto che le autorità portoghesi erano filogermaniche. Probabilmente, una parte di questi coloni non era a conoscenza delle reali intenzioni dei suoi “alleati” esterni e voleva solo evitare una deriva della colonia a fianco dell’Asse [9].

L’occupazione militare straniera della maggiore colonia portoghese fu però evitata per due ragioni principali: da un lato, l’intervento britannico; dall’altro, l’azione di polizia portoghese sui coloni separatisti. Infatti, davanti ai progetti bellicosi belgi, francesi e sudafricani, Londra dette chiare indicazioni che non avrebbe permesso la realizzazione di un’azione militare contro la sovranità portoghese in Angola. La posizione britannica si spiega col fatto che il Regno Unito voleva mantenere l’equilibrio politico internazionale antecedente l’inizio della guerra nell’Africa Australe, non accettando pertanto un’espansione territoriale sudafricana e ancor meno belga o francese nella regione. Pretoria, che era ancora legata da legami politici con Londra, dovette accogliere l’obiezione britannica, rinunciando ai suoi progetti espansionistici (Telo 1991, 28).

Allo stesso tempo, all’interno dell’Angola, le autorità coloniali portoghesi, allertate dall’imminenza di una ribellione dei coloni, con l’appoggio sudafricano [10], lanciarono un’ampia operazione di polizia con l’arresto dei leader separatisti. Furono presi vari imprenditori, giornalisti, intellettuali e finanche studenti [11]. Il 9 luglio 1941, secondo informazioni vicine all’Ambasciata di Germania a Lisbona, il numero di persone arrestate accusate di appartenere al “movimento separatista” angolano arrivava a quaranta. Tra i fermati c’erano i giornalisti António Correia de Freitas, Felipe Coelho e Norberto Gonzaga Martins, accusati di preparare il terreno per un intervento straniero mediante la divulgazione a mezzo stampa della propaganda Alleata. Venâncio Guimarães non fu toccato dalla repressione della polizia, forse perché godeva di una grande influenza economica e politica dentro e fuori l’Angola [12].

Di arresto in arresto, la polizia coloniale prese via via coscienza delle reali dimensioni della cospirazione dei coloni e dei suoi forti legami con le potenze Alleate. Facevano parte della cospirazione molte personalità delle associazioni economiche e della “vecchia guardia” repubblicana, ma anche elementi del clero cattolico, in particolare Monsignor Manuel Alves da Cunha. Questi settori tanto disparati della società coloniale erano affiliati clandestinamente alla massoneria angolana, la cosidetta “Kuribeka”. E la massoneria angolana era capeggiata precisamente dalla seconda figura della gerarchia cattolica in Angola, il Vicario Generale Monsignor Alves da Cunha. D’altronde, Alves da Cunha era conosciuto col soprannome di “Monsignor Kuribeka” [13].

In questo contesto, il governatore generale dell’Angola, Marques Mano, assunse una posizione di grande durezza verso i coloni “separatisti”, causando un vero scontro tra l’amministrazione coloniale e la popolazione bianca guidata dal vicario generale. Del resto, il governatore generale riteneva che il vero leader della cospirazione “separatista” fosse Monsignor Alves da Cunha. Le tensioni tra i due avevano dei precedenti. Il governatore generale aveva accusato il prelato di essere stato il responsabile dell’organizzazione di una manifestazione contro il governo coloniale il 28 aprile 1941. Il vicario generale aveva reagito all’accusa attraverso il principale organo di stampa della Chiesa cattolica in Angola, il giornale O Apostolado, le cui cronache firmate dai prelati non erano sottoposte alle maglie della censura. Di fronte alle critiche e alle allusioni ritenute “inopportune” nei riguardi della sua figura di governatore generale, Marques Mano decise di sospendere il giornale ecclesiastico il 15 settembre 1941. Poi, decise di prendere provvedimenti per punire il responsabile della contestazione nella colonia [14].

In questo senso, il 27 settembre 1941, il governatore generale “invitò” Monsignor Alves da Cunha a lasciare l’Angola. Il vicario generale declinò “l’invito”, giustificandosi con le sue “responsabilità ecclesiastiche” nella colonia. Però, meno di una settimana dopo, il 3 ottobre 1941, il governatore generale insistette sull’uscita del vicario generale, con la minaccia che “altri provvedimenti sarebbero stati presi, nel caso in cui costui non si conformasse a ciò”. Questa minaccia suscitò l’intervento immediato dell’arcivescovo di Luanda, D. Moisés Alves de Pinho, il 4 ottobre 1941. Davanti alle proteste dell’arcivescovo, Marques Mano promise di “rivedere il caso”. Nel frattempo, a capo di tre settimane, tanto il problema della sospensione de O Apostolado, quanto la questione della permanenza del vicario generale in Angola erano ancora da risolvere. D. Moisés Alves de Pinho si sentì allora in dovere di comunicare al clero dell’arcidiocesi i motivi del contenzioso, diffondendo una circolare il 25 ottobre 1941. In questa circolare, l’arcivescovo difendeva il vicario generale e denunciava il fatto di essere lui stesso sorvegliato da una persona in automobile, che sostava permanentemente davanti alla porta del Palazzo Episcopale. Due giorni dopo, il governatore generale comunicò all’arcivescovo che i “casi” del giornale O Apostolado e di Alves da Cunha erano risolti [15].

In verità, il governatore generale preparava l’espulsione della seconda figura più importante della gerarchia cattolica nella colonia, Monsignor Alves da Cunha. Nel pomeriggio del 30 ottobre 1941, Luanda fu sorpresa da uno strano movimento di truppe che, seguendo gli ordini del governatore generale, si posizionarono nei punti strategici della città: Palazzo del Governo, Osservatorio, Fortezza di San Miguel, Isola di Luanda, Faro delle Lagostas, etc. Simultaneamente, la polizia coloniale procedette a ricerche casa per casa nelle dimore di alcuni ecclesiastici e almeno uno di loro fu sottoposto a un interrogatorio di polizia. Il giorno seguente, Monsignor Alves da Cunha ricevette un ordine di imbarco immediato sulla nave da carico Cubango, che avrebbe dovuto levare le ancore quella stessa notte (tra l’1 e il 2 novembre 1941), diretta verso il Portogallo. Sorvegliato dalla polizia coloniale, il vicario generale fu obbligato a imbarcarsi la notte stessa con l’ordine di presentarsi al Ministero delle Colonie a Lisbona. Nonostante le truppe avessero fatto molto in termini di prevenzione, tutto il clero della città e vari laici si recarono alla banchina d’imbarco per esprimere la loro solidarietà al vicario generale, in un chiaro segnale che non avrebbero lasciato passare l’affronto rappresentato dalla deportazione di Alves da Cunha. Il 3 novembre 1941, il governatore generale dette notizia alla colonia, attraverso una nota ufficiosa sulla stampa, della “dipartita verso la madrepatria” del vicario generale [16]. In una lettera a Salazar, Marques Mano giustificò la sua decisione col fatto di aver avuto informazioni sicure su un progetto rivoluzionario tramato da Monsignor Alves da Cunha per dare una “vita internazionale propria” all’Angola. In altre parole, Monsignor Alves da Cunha sarebbe stato il promotore della cospirazione dei coloni, il cui obiettivo principale era ottenere l’indipendenza dell’Angola sotto la “protezione” esterna dell’Africa del Sud [17].

La reazione della Chiesa cattolica alla deportazione di Alves da Cunha fu energica. Il 6 novembre 1941, in una seconda circolare indirizzata al clero angolano, l’arcivescovo di Luanda mobilitò tutto il clero della colonia contro la deportazione di Alves da Cunha in Portogallo. Poi, il 10 novembre 1941, in una missiva a Salazar, D. Moisés Alves de Pinho si lamentò della chiusura del giornale O Apostolado e dell’espulsione del vicario generale “in condizioni particolarmente vessatorie e gravemente offensive della dignità e della libertà della Chiesa”. L’arcivescovo reclamò così la soluzione immediata del contenzioso e la fine delle persecuzioni politiche attuate dalla polizia locale, che bollò come una “GESTAPO di basso profilo”. Infine, l’arcivescovo lasciò intuire la minaccia che, nel caso in cui il problema non fosse stato risolto (e se si fosse proceduto a una già ventilata inchiesta sulle attività politiche delle missioni cattoliche), egli stesso avrebbe reso pubblico a tutti ciò che fino ad allora era stato comunicato solo al clero in via confidenziale. In altre parole, la Chiesa cattolica si preparava a mobilitare la popolazione della colonia contro il governo portoghese, con le conseguenze politiche che si sarebbero potute avere per la dittatura sul piano interno ed esterno [18]. Da notare che l’Arcivescovo di Luanda inviò anche una lettera al presidente della Repubblica, Generale Óscar Fragoso Carmona, in cui denunciò la deportazione del Monsignor Alves da Cunha che, in verità, era conterraneo ed “amico d’infanzia” del generale Carmona. Carmona girò la lettera a Salazar, con la raccomandazione di risolvere il problema [19].

Salazar, temendo che la deportazione del prelato provocasse una “destabilizzazione” dell’ordine pubblico nella colonia per mano dei coloni – con l’appoggio della Chiesa cattolica – e che questo “cambiamento” servisse da pretesto a un intervento sudafricano, cercò di trovare una soluzione rapida al problema. Perciò, dette disposizioni affinchè il vicario generale fosse rimesso in libertà una volta giunto a Lisbona. Poi, mandò in avanscoperta nella colonia il ministro delle Colonie, con l’espressa richiesta di assicurare il mantenimento dell’“ordine politico”. Questa decisione lasciava intendere al governatore generale che il presidente del Consiglio non lo considerava capace di mantenere il “rispetto per l’autorità” in Angola. Così, Marques Mano si sentì esautorato e abbandonato politicamente dal governo, per cui presentò le sue dimissioni dalla carica di governatore generale, immediatamente accolte da Lisbona [20]. Successivamente, Monsignor Alves da Cunha ritornò in Angola, ricevuto in pompa magna dalla popolazione cattolica di Luanda.

Ma le tensioni tra il clero cattolico e il potere politico non finirono qui. Nel 1945, D. Moisés Alves de Pinho appoggiò pubblicamente il movimento politico di opposizione al salazarismo conosciuto come Movimento de Unidade Democrática (MUD) [21], obbligando l’Unione Nazionale a ritirare la sua lista alle elezioni legislative del novembre 1945. Fu allora organizzata una lista indipendente più adatta alla società coloniale e che integrava una delle figure più controverse del regime, il capitano Henrique Galvão, che durante il suo mandato di deputato denunciò le iniquità del colonialismo portoghese in Angola [22].

D. Moisés Alves de Pinho e Monsignor Alves da Cunha furono inoltre responsabili della formazione di alcuni clerici africani che più avanti avrebbero avuto un’importanza significativa nella formazione dei movimenti nazionalisti angolani. Fu il caso di Cónego Manuel das Neves (Lopes 2017), meticcio, successore di Alves da Cunha come vicario generale dell’Angola e che sarà uno dei “mentori” degli assalti alle prigioni coloniali di Luanda, il 4 febbraio 1961, data simbolica dell’inizio della guerra d’indipendenza dell’Angola. Con lui collaborarono i padri africani Joaquim Pinto de Andrade (Andringa e De Almeida 2017), più tardi presidente onorario dell’MPLA, e Manuel Franklin da Costa, futuro arcivescovo di Lubango. I tre furono vittime delle persecuzioni del regime, col primo che venne arrestato e deportato in Portogallo.

Mozambico

In Mozambico si assistette parimenti, dalla metà degli anni Quaranta, a una frattura in seno alla gerarchia ecclesiastica di fronte alle ingiustizie del sistema coloniale portoghese. Da un lato abbiamo una posizione di appoggio dichiarato alla politica coloniale portoghese – e all’Estado Novo – da parte degli arcivescovi di Lourenço Marques, in primis da parte del cardinale D. Teodósio Clemente Gouveia (Veloso 1965) e, poi, dal suo successore, D. Custódio Alvim. Entrambi si dichiaravano pubblicamente adepti del salazarismo e contrari all’idea di emancipazione delle popolazioni africane. Dall’altro lato abbiamo una posizione molto critica nei confronti della dominazione coloniale portoghese, soprattutto rispetto al trattamento iniquo di cui era vittima la maggioranza della popolazione africana, assunta da alcuni vescovi del centro-nord della Colonia, specificatamente dal primo vescovo di Beira, D. Sebastião Soares de Resende [23].

Nativo della madrepatria, D. Sebastião Soares de Resende (Azevedo 1994) era sbarcato a Beira il 30 novembre 1943. Presto aveva preso coscienza delle grandi ingiustizie sociali prodotte dalla dominazione coloniale portoghese, soprattutto in relazione alle condizioni di vita della popolazione africana. Proprio questo si evince dal suo diario personale, oggi conservato al Centro di Studi Africani dell’Università di Porto. In questo senso, il vescovo di Beira si trasformò presto in una voce scomoda per il regime coloniale. E, sebbene il suo atteggiamento avesse suscitato le critiche di alcuni settori più reazionari dei coloni, la verità è che la sua azione pastorale contribuì all’incremento della coscienza politica della popolazione. Del resto, D. Sebastião Resende affrontava la situazione mozambicana nel suo complesso, considerando inevitabile l’indipendenza del Mozambico, “con neri e bianchi al governo”. Per questo, si rivolse sempre a tutti i settori della popolazione mozambicana.

D. Sebastião Soares de Resende pubblicò un numero significativo di carte pastorali [24], per lo più con una forte propensione sociale e finanche politica. Le preoccupazioni di carattere sociale sono ben visibili nella pastorale del 1945, Fé, Vida e Colonização, che causò fin da subito qualche apprensione in seno al regime coloniale. Ma furono particolarmente incisive le pastorali Ordem comunista (1948) e Ordem anticomunista (1949), O Problema da Educação em África (1951), O Padre Missionário (1952), Hora decisiva de Moçambique (1954) e Moçambique na Encruzilhada (1959). A partire dal 1954, le denunce e le critiche cominciarono a interessare le più alte cariche dell’amministrazione coloniale, incluso il ministro dell’Oltremare, il che provocò l’irritazione degli ambienti governativi. Oltre alle pastorali, il vescovo di Beira pubblicò una serie di articoli sulla stampa, in particolare sui giornali Voz Africana e Diário de Moçambique, quest’ultimo creato proprio da lui nel Natale del 1950.

Uno dei problemi più ampiamente denunciati dal vescovo di Beira era quello riguardante l’obbligo di lavorare da parte della popolazione indigena in base alla legislazione allora esistente, lo Estatuto do Indigenato [25] e il Código de Trabalho Indígena [26]. D. Sebastião Soares de Resende denunciò l’esistenza di forme occulte di “schiavitù” tra la popolazione indigena, specialmente nei campi di cotone. Per questo, difese la fine dell’indigenato e il rispetto per i diritti della popolazione africana. Tuttavia, fu necessario aspettare lo scoppio della guerra d’indipendenza dell’Angola, nel 1961, affinchè il governo portoghese decidesse finalmente l’abolizione dell’Estatuto do Indigenato e, conseguentemente, la revoca del Código de Trabalho Indígena [27].

L’educazione degli indigeni fu un altro degli argomenti su cui si focalizzò l’attenzione di D. Sebastião Soares de Resende. Infatti, il vescovo insorse contro la politica educativa salazarista, che riservava alla popolazione indigena un mero “insegnamento rudimentale” di due anni che peraltro aveva come discipline obbligatorie la lingua portoghese e la storia del Portogallo, in modo da assicurare la “portogallizzazione” degli indigeni. D. Sebastião Resende preconizzava invece un’educazione uguale e generale per tutti, che fossero africani o europei. D. Sebastião Soares de Resende lottò anche vigorosamente per l’istituzione dell’insegnamento tecnico, politecnico e superiore in Mozambico, obiettivo che fu raggiunto solo con la creazione degli Studi Generali Universitari del Mozambico nel 1962 (Pereira e Gonzalez 2016).

Le relazioni tra le autorità coloniali e il prelato di Beira conobbero un sostanziale peggioramento a partire dal 1957. Quell’anno, il vescovo di Beira e il ministro dell’Oltremare, Raul Jorge Rodrigues Ventura, si scontrarono a proposito della costruzione del Collegio dei Fedeli di Maria a Beira. Il ministro aveva promesso la sua costruzione – o perlomeno un appoggio a questo progetto – , ma non aveva mantenuto la promessa, fatto che aveva suscitato la reazione del vescovo. D. Sebastião Soares de Resende denunciò allora pubblicamente e per iscritto la slealtà del ministro, fatto che suscitò l’intervento delle autorità coloniali, inclusa la censura. Il caso assunse proporzioni tali che portò all’intervento personale di Salazar presso il nunzio della Santa Sede a Lisbona. Salazar aveva allora preteso che il vescovo ritrattasse pubblicamente, ristabilendo “la verità dei fatti”. Ma D. Sebastião Soares de Resende resistette mantenendo la sua posizione critica in relazione al ministro e al regime coloniale. Rapidamente, il “caso del Vescovo di Beira” guadagnò fama e divenne noto dentro e fuori la colonia. Per il regime salazarista, il vescovo non era nulla di più che il portabandiera dell’opposizione in Mozambico. E, di fatto, nel 1958, nelle elezioni per la presidenza della Repubblica Portoghese, il candidato dell’opposizione, Humberto Delgado, ottenne il suffragio a Beira, con i due terzi dei voti, umiliando nelle urne il candidato del regime, Américo Tomaz. A questa vittoria schiacciante dell’opposizione non fu estranea l’azione di presa di coscienza politico-sociale svolta negli anni dal vescovo di Beira [28].

Diversamente quanto accaduto con D. António Ferreira, vescovo di Porto, il regime salazarista non arrivò mai a esiliare il vescovo di Beira. Ma il prelato cominciò a essere palesemente osteggiato dalle autorità coloniali e sorvegliato da vicino dalla PIDE, che impose, per tre volte, la chiusura del giornale diocesano. D. Sebastião Resende non si stancò però di denunciare i casi di abuso da parte delle autorità coloniali, cercando di dar voce alle aspettative della popolazione mozambicana, indipendentemente dalla razza. Morì il 25 gennaio 1967 e venne sepolto nella Cattedrale di Beira, essendo ancora oggi oggetto di stima e considerazione da parte della popolazione mozambicana.

Conclusione

In termini istituzionali, la Chiesa cattolica collaborò con l’Estado Novo nel processo di colonizzazione dell’Africa portoghese. Il Concordato e, specialmente, l’Accordo Missionario, entrambi siglati nel 1940, definirono le basi formali di questa cooperazione, incorporando l’azione missionaria nella assai sbandierata “missione civilizzatrice” del colonialismo portoghese e contribuendo così a che l’impero coloniale portoghese mantenesse (o riacquistasse, a seconda del punto di vista) un’aura di legittimità spirituale, sostanziata nell’assioma della difesa e dell’espansione della fede cristiana nel mondo. In cambio, la Chiesa cattolica ricevette un insieme non disdicevole di privilegi, di prerogative e di benefici economici e fiscali essenziali per il progresso materiale dell’opera missionaria nelle colonie africane.

Però, una cosa erano le basi istituzionali di cooperazione definite dalle cancellerie vaticana e portoghese in Europa, altra era la relazione concreta, sul territorio, in Africa, tra il clero cattolico e le autorità coloniali portoghesi. L’analisi dimostra l’esistenza di chiare tensioni tra alcuni settori della gerarchia cattolica coloniale e lo Stato portoghese nelle colonie, specificatamente in Angola. Il caso di Monsignor Alves da Cunha è particolarmente rappresentativo della grande complessità delle relazioni coloniali e delle profonde divergenze politiche esistenti in seno allo strato colonizzatore. In questo ambito, la Chiesa cattolica, o perlomeno parte della sua gerarchia, espresse lo scontento della popolazione bianca dell’Angola, collocandosi in una posizione di chiara sfida politica in relazione al regime coloniale portoghese. In Mozambico, con il caso del vescovo di Beira, questo dissenso crebbe per motivi pastorali e poi per questioni politico-ideologiche. Ma entrambi i casi mostrano che la Chiesa cattolica fu lungi dal costituire una “stampella” dell’Estado Novo in Africa, essendo la relazione tra Chiesa e Stato sul piano coloniale molto più intricata di quello che a prima vista si potrebbe supporre.


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Note

1. Con questo Statuto, le missioni cattoliche portoghesi acquisirono personalità giuridica, essendo loro garantito il diritto al finanziamento statale per la formazione del personale e per il sostegno delle attività missionarie. Sulla questione missionaria alla fine della Monarchia e durante la Prima Repubblica: Dores 2014.

2. Questi accordi confermarono il Padroado do Oriente formato da quattro diocesi: Goa, Cochim, Meliapor e Macao. La diocesi di Daman fu soppressa e incorporata in quella di Goa, il cui arcivescovo manteneva il titolo di Patriarca d’Oriente. L’arcivescovo di Bombay sarebbe stato, alternativamente, di nazionalità portoghese e britannica. Rimaneva così garantita l’influenza portoghese nell’organizzazione della chiesa asiatica, in particolare in India. Cfr. Reis 2007.

3. L’articolo 26 tratta dell’organizzazione ecclesiastica nello spazio coloniale portoghese; l’articolo 27 stabilisce il riconoscimento giuridico delle organizzazioni missionarie e il rispettivo appoggio finanziario da parte dello Stato portoghese; l’articolo 28 permette il reclutamento di missionari stranieri essendo questi sotto la tutela dei vescovi locali; l’articolo 29 garantisce la validità degli accordi stipulati nei precedenti cento anni, riferendosi in particolare alla questione del Padroado do Oriente. Cfr. Brandão 2004, 54-55.

4. Inter Sanctam Sedem et Rempublicam Lusitanam Sollemnes Conventiones / Acordo Missionário entre a Santa Sé e a República Portuguesa, Città del Vaticano, 7 maggio 1974. Cf. Pio XII, Bula Sollemnibus conventionibus, 4 settembre 1940, AAS 32 (1940), 235-244.

5. Public Record Office (PRO), FO 371/31120, British Interests in Angola, 1942; PRO, HS 3/75, Combined S.I.S./S.O.E. Organization, 1943/1944. Si vedano a questo proposito le considerazioni di Telo 1991, 26-28.

6. PRO, FO 371/31120, British Interests in Angola, 1942.

7. PRO, FO 371/31120, British Interests in Angola, 1942. Telo 1991, 26-28.

8. PRO, HS 3/75, Combined S.I.S./S.O.E. Organization, 1943/1944; PRO, FO 371/26885, Aircraft desired by Angola, 1941. AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 12 – Situação em Angola (1941); Instituto dos Arquivos Nacionais / Torre do Tombo (AN/TT), AOS/CO/UL – 62, Pasta 13 – Situação política em Angola (1941). Al contrario di quel che affermava la propaganda sudafricana, il Governatore Generale dell’Angola, Marques Mano, era, a dire del Console Generale Britannico a Luanda, pro-britannico.

9. AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 12, Situação em Angola (1941); AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 13, Situação política em Angola (1941); PRO, FO 371/26841, British Troop Movements on Frontier of Angola, 1941.

10. AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 13, Situação política em Angola, 1941 (“Relatório secreto” dirigido ao Governador Geral de Angola, pelo Comandante Interino, Tenente Elísio Guilherme de Azevedo, datado de Luanda, de 31 de Agosto de 1941).

11. AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 13, Situação política em Angola, 1941 (“Relatório secreto” dirigido ao Governador Geral de Angola, pelo Comandante Interino, Tenente Elísio Guilherme de Azevedo, datado de Luanda, de 31 de Agosto de 1941); AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 12, Situação em Angola, 1941.

12. PRO, GFM 33/507, German Legation Lisbon - Consulate Luanda, 1941 (German Foreign Ministry, serial 1094, item 3: “Separatistische Bewegung in Angola”, 9/07/1941).

13. AN/TT, AOS/CO/UL – 62, Pasta 13, Situação política em Angola, 1941 (“Relatório secreto” dirigido ao Governador Geral de Angola, pelo Comandante Interino, Tenente Elísio Guilherme de Azevedo, datado de Luanda, de 31 de Agosto de 1941).

14. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário - Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano.

15. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano (Circular do Senhor Arcebispo de Luanda ao Clero da Arquidiocese, Luanda, 25 de Outubro de 1941).

16. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano.

17. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano (Carta do Governador Geral Marques Mano a Salazar, datada de 12 de Novembro de 1941).

18. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano (Carta do Arcebispo de Luanda, D. Moisés Alves de Pinho, ao General Carmona, datada de Luanda, 10 de Novembro de 1941).

19. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano (Carta do Arcebispo de Luanda, D. Moisés Alves de Pinho, a Salazar, datada de Luanda, 10 de Novembro de 1941).

20. AN/TT, AOS/CO/UL – 8F, Pasta 5, Incidente entre o Vigário – Geral de Angola, Monsenhor Alves da Cunha, e o Governador-Geral, Dr. Marques Mano.

21. AN/TT, Arquivo PIDE/DGS, Delegação de Angola, Eugénio Bento Ferreira, Processo 53686, 8912.

22. A Província de Angola, n.º 6.073, 18 ottobre 1945, 4. Cfr. Galvão 1949, 8. Marcelo Caetano, allora ministro delle Colonie, dette la sua versione dei fatti in Caetano 1977, 243-250.

23. Altro esempio di opposizione alle politiche coloniali dell’Estado Novo in Mozambico fu quello di D. Eurico Dias Nogueira, Vescovo di Vila Cabral, diocesi nel frattempo creata nel Nord del Mozambico. D. Eurico si fece notare per il dialogo coi musulmani che vivevano nella sua diocesi e, soprattutto, per le sue carte pastorali nelle quali difendeva i diritti delle popolazioni africane e la necessità della pace, in piena guerra coloniale (Marques 2000). Nella fase marcelista, ebbe grande impatto l’atteggiamento di denuncia e di condanna nei confronti della repressione coloniale portoghese sulla popolazione africana da parte del vescovo di Nampula, D. Manuel Vieira Pinto (Luzia 2016). Del resto, durante la guerra coloniale furono molteplici i casi di missionari cattolici che denunciarono il verificarsi di massacri perpetrati dalle truppe coloniali contro le popolazioni africane, accusate di cooperare con la guerriglia nazionalista della Frelimo. Sottolineiamo per il suo impatto mediatico le denunce dei massacri di Mucumbura, da parte dei Padri di Macuti, così come le denunce dei massacri di Wiriyamu, Juwau e Chawola da parte dei Padri di Burgos, Alfonso Valverde e Martin Hernandez e del gesuita Adrian Hastings (Hastings 1974).

24. Tra le carte pastorali scritte dal primo vescovo di Beira segnaliamo: Saudação Pastoral (1943), Padres Missionários (1944), Fé, Vida e Colonização (1945), Ordem Comunista (1948), Ordem Anti-Comunista (1949), A Verdadeira Internacional (1950), O Problema da Educação em África (1951), O Padre Missionário (1952), Responsabilidades Cristãs (1952), Hora Decisiva de Moçambique (1954), Mulher Única (1955), Responsabilidades dos Leigos (1956), O Sacramento da Vida (1958), Moçambique na Encruzilhada (1959), O Mistério da Comunidade Cristã (1960), Moral Conjugal em Crise (1962).

25. Ministério das Colónias, Estatuto Político, Civil e Criminal dos Indígenas de Angola e Moçambique, decreto n.º 12.533, de 23 de Outubro de 1926.

26. Ministério das Colónias, Código do Trabalho dos Indígenas nas Colónias Portuguesas de África, decreto n.º 16.199, de 6 de Dezembro de 1928.

27. L’Estatuto do Indigenato fu revocato per decreto del ministro dell’Oltremare, Adriano Moreira, il 6 settembre 1961. Nel 1962 fu promulgato un Código de Trabalho Rural che sostituì l’obsoleto Código de Trabalho Indígena. Cfr. Ministério do Ultramar, Revogação do decreto-lei n.º 39666, que promulga o Estatuto dos Indígenas Portugueses das Províncias da Guiné, Angola e Moçambique. Decreto-lei n.º 43893, de 6 de Setembro de 1961, Lisboa: AGU, 1961. Ministério do Ultramar, Código do Trabalho Rural, decreto n.º 44.309, de 27 de Abril de 1962.

28. PRO, FO 371/131635, Internal Political Situation in Portuguese Africa, 1958. Cfr. Pimenta 2016.