Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

L’infanticidio tra percezione popolare e trattamento giuridico: Prignano 1889

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Abstract
The documentation of an infanticide trial, which took place in 1889 in Modena, allowed the reconstruction of the social setting for the judicial proceedings of a young woman accused of a crime that throughout the 19th century underwent a radical legal transformation. The pattern shown by most of the European Criminal Codes is, in fact, the progressive decriminalization of infanticide, whose definition since then has been linked to the illegitimate status of the murdered infant and the resulting motivation coming from the mother acting in defence of her honour.

L’evento

Alle ore 18 del 15 settembre del 1888, Geminiano Baisi, assessore e ufficiale di polizia giudiziaria del comune di Prignano e il segretario comunale Pietro Bastoni, assistiti dal medico condotto dott. Basilio Montelaghi, giungono alla camera mortuaria della parrocchia di Castelvecchio di Prignano, un piccolo paese dell’appennino modenese, dopo aver ricevuto la denuncia di nascita e di immediata morte di una neonata illegittima.
Dal verbale redatto apprendiamo che il medico rileva due ecchimosi: «Tali lesioni per i caratteri che presentano inducono il medico a ritenere che siano state prodotte a corpo vivo. Giudica inoltre che il bambino sia nato da oltre 24 ore e morto poco dopo, e nella persuasione che sia nato vivo, come fa supporre l’espansione del torace»[1] ma «è persuaso che le lesioni sopra accennate non possono aver prodotto la morte…la cui causa vera non può con certezza precisare»[2].

Partiti da Prignano per eseguire una constatazione di morte e dare il benestare ad una sepoltura, questi rappresentanti delle istituzioni si trovano davanti ad una ipotesi di reato. Il 16 settembre questo verbale viene recapitato al pretore di Sassuolo, che per il giorno successivo fissa una perizia cadaverica più approfondita, in seguito alla quale il vice procuratore Egidio Nanni decide di interrogare la madre della bambina.

Poche ore più tardi, in una stanza dell’osteria di Castelvecchio viene così convocata una ventiquattrenne del luogo, Chiara Lometti, che rispondendo alle domande del giudice ricostruisce la propria vicenda, a partire dalle circostanze del concepimento: «In una delle feste dell’anno scorso, cedetti alle brame del mio amante Eugenio Baldelli. Io non supponevo nemmeno di essere rimasta incinta, sia perché non mi si era ingrossato il corpo, sia perché ho sempre seguitato ad avere regolarmente la mestruazione. Mia madre qualche volta in questo periodo mi ha detto che la gente parlava, ma io l’ho sempre assicurata che erano chiacchiere infondate. Giovedì sera andai a ballare alle aie da Casali Massimiliano. Durante il ballo che durò dalla sera di giovedì 13 corrente al mattino alle due del 14, mi uscirono dalla natura due voluminosi globi di sangue. Il mattino me ne uscì un altro, e circa alle otto mi venne come bisogno di andar di corpo, ma mentre mi recavo alla latrina fui presa da forti dolori e caddi svenuta. Riavutami, credo fra poco, mi accorsi di aver dato alla luce un bambino che non dava segni di vita. Lo avvolsi in un cencio e lo nascosi. Confidai poscia la cosa a mia madre e il bambino fu portato al campo santo»[3]. Il racconto di Chiara riguardo il parto e la gravidanza pare poco credibile, ma al tempo stesso la sua «naturalezza» fa pensare che dal suo punto vista, sentendosi sospettata, descriversi come completamente inconsapevole del proprio stato fosse la strategia di autodifesa migliore.
La versione dei fatti della ragazza non soddisfa i dubbi degli inquirenti sulla morte della neonata: viene così disposto il trasferimento del cadavere negli uffici della pretura di Sassuolo per una ulteriore autopsia ad opera del dott. Costi e del prof. Giovanardi, grazie alla quale vengono alla luce nuovi elementi: sulla testa della neonata non ci sono solo ecchimosi ma anche una frattura del cranio al parietale destro.

In conclusione viene chiesto ai periti se sia ammissibile l’ipotesi che Chiara possa esser stata colta dai dolori del parto, sia poi caduta a terra svenuta dopo essersi accorta di aver dato alla luce un feto morto. La risposta è negativa, in quanto in questo modo la neonata «non avrebbe potuto respirare completamente come ha respirato»[4], inoltre «l’estensione della frattura, il cospicuo stravaso sanguigno extra ed intra craniano non si spiegano per una semplice caduta a poca distanza dal suolo la quale tutt’ al più avrebbe dato luogo ad una rima senza notevoli conseguenze come molte volte si è verificato.»[5]
A questo punto per il giudice istruttore, ci sono tutti gli elementi per emettere l’ordine di cattura di Chiara per il reato di infanticidio, dato che le evidenze sembrano dimostrare che la bambina sia stata uccisa volontariamente: dopo aver ricevuto il benestare del dott. Montelaghi che ne attesta le migliorate condizioni fisiche, i carabinieri procedono all’arresto di Chiara la mattina del 21 settembre, e la trasportano nelle carceri mandamentali di Sassuolo.

L’imputata

Dai documenti processuali e da quelli dell’ufficio di stato civile del comune di Prignano, apprendiamo che Chiara lavora come sarta e tessitrice e abita insieme ad una sorella ventenne con i genitori, che nel certificato di nascita vengono definiti «oossidenti agricoli» [6], ma le condizioni economiche della famiglia sono modeste, il Comune infatti rilascia un certificato di povertà a Chiara che, come nullatenente, ha diritto al patrocinio legale gratuito. Da diverse testimonianze si deduce che in paese Chiara ha una dubbia reputazione, e nel suo certificato di moralità si legge che «oggi ha la fama di persona molto pregiudicata»[7]: infatti quasi due anni prima Chiara aveva partorito un altro figlio illegittimo, sopravvissuto solo due giorni che fu registrato all’anagrafe come nato «da una donna che non consente di essere nominata». Così, quando si comincerà a notare che Chiara si sta ingrossando per la seconda volta, dalle testimonianze raccolte nell’inchiesta, tutto il paese mormorerà di questa nuova gravidanza, nonostante gli sforzi confusi e contraddittori di Chiara per contraddire la «voce pubblica».
La ragazza sembra comunque consapevole che agli occhi degli inquirenti la sua reputazione potrebbe renderla meno credibile. Nel primo dei due interrogatori che subirà in carcere infatti, Chiara racconta: «dal primo settembre 1887 io facevo all’amore con Eugenio Baldelli di Prignano e in una delle feste dell’anno trovandosi nella mia stalla, mi lasciai da lui godere. Dopo di allora non ho più avuto contatto né con lui né con altri uomini»[8].
Chiara, tenendo a sottolineare l’occasionalità del rapporto sessuale avuto solo col giovane con cui «fa all’amore»[9], e il suo ruolo passivo in quella situazione, cerca di dare un’immagine innocente di sé: nel rapporto dei carabinieri che riporta l’interrogatorio del 17 Settembre infatti, leggiamo che con Eugenio Baldelli ebbe «contatto carnale per una volta sola…escludendo qualsiasi tresca amorosa col medesimo»[10].
In entrambi gli interrogatori poi, Chiara ribadisce in modo più circostanziato la propria inconsapevolezza della gravidanza e con la stessa attenzione per i particolari fisici rievoca i momenti del parto, in cui lo stato di svenimento nega qualsiasi volontà di occultare l’evento, mentre la caduta a terra giustifica lo schiacciamento della neonata.
Avendo sostenuto di non essersi accorta di nulla per nove mesi, il parto non può essere altro che un evento incosciente, le cui avvisaglie hanno più a che fare con l’espulsione dei rifiuti corporei che non con la nascita di un figlio. Sicuramente il tono del racconto risente dell’interpretazione di chi ha trascritto le sue parole e dei limiti connaturati a questo tipo di fonti: ma rimane comunque il fatto che alla ragazza non sfugge mai una parola che possa far presumere un qualche tipo di partecipazione per la sorte dei suoi due bambini, il che non può non far pensare ad un intimo rifiuto di queste esperienze materne.
Dopo aver sepolto la placenta ed essersi cambiata, Chiara dice di esser tornata al telaio,  dalla madre e Marianna Mandreoli, una giovane contadina del paese, di aver aspettato che quest’ultima se ne andasse e di essersi confidata con la madre: dopo un rimprovero per non aver detto nulla prima, Chiara si sarebbe giustificata dicendo di non essersi accorta della gravidanza.

La comunità e le testimonianze

Mostrando come la comunità formasse un spontanea rete di controllo sulla vita privata degli abitanti, le testimonianze raccolte nella fase istruttoria getteranno una luce diversa sugli eventi raccontati da Chiara, a cominciare dal parto: interrogata il 28 settembre, Marianna Mandreoli racconta che era già a casa Lometti «per far della tela»[11] quando Chiara aveva avuto i primi dolori al ventre e si era appartata, e racconta che quando la ragazza si allontana per la seconda volta dalla stanza del telaio: «non vedendola tornare, io e la di lei madre ci recammo presso di lei, e la trovammo seduta su di un fusto da biroccio poggiata al muro, entro una capanna. Era pallida e diceva di sentirsi un groppo in fondo alla pancia Io immaginai subito che voleva tener nascosto il parto… mandò sua madre a far la polenta e me a casa dicendomi che m’avrebbe poi chiamata quando era ora, perché sapevo e vedevo che era agli ultimi del parto e perché da parecchie ore accusava dolori al ventre»[12].
Nel frattempo la Mandreoli va a confidarsi da un’altra vicina di casa, Paola Francalanza dicendole che «aveva paura d’un brutto fatto»[13], e insieme decidono di parlarne al parroco: è Paola ad andarvi e a raccontare al cappellano don Giuseppe Casoni che Chiara era «lì per partorire e che quindi era necessario che qualcuno andasse là per impedire che il parto andasse male perché la Chiarina cercava di star sola»[14]. Il cappellano si chiede a cosa possa servire un suo intervento, «ma poi sentendo che questa era nella capanna sola cambiò consiglio»[15]. Anche don Casoni sospetta l’infanticidio, così si dirige a casa Lometti.
Si nota una sorta di pudore anche nell’allarme, come se fosse difficile nominare questo delitto: tuttavia il fatto che tutti pensino subito alla sua eventualità, suggerisce che non fosse estranea all’opinione comune l’ipotesi che una gravida nubile fosse candidata a commettere questo delitto.
Dopo circa un’ora Marianna torna a casa Lometti e la madre di Chiara le mostra la capanna dicendo «Vedete, la Chiarina da un pezzo non aveva la mestruazione, ed ora le si è sciolto il sangue, ed è uscito tutto»[16], cercando evidentemente di fugare i dubbi della donna.

Don Casoni, giunto a casa Lometti tenta di indagare, forte della sua implicita autorità e racconta poi agli inquirenti: «Al primo mio colloquio colla Chiarina ebbe a dirmi che il fanciullo era nato morto, poscia reinterrogatola ebbe a dirmi che credeva fosse nato morto, ma in quei momenti la confusione era tale che non poteva dirlo assolutamente, al seguito di questo discorso da me eccitato mi nacque il sospetto che il bambino potesse essere morto per mancanza di cure, od altro. Non mi fece alcuna descrizione relativa al parto non mi disse di esser svenuta»[17]. Chiara poi gli confida che «nessuno, nemmeno i suoi genitori sapevano della di lei pregnanza, desiderava che fosse sepolto in segreto»[18]. Non sappiamo cosa sia realmente accaduto, ma per Chiara in ogni caso si tratta dell’ultima occasione per cercare di gestire «privatamente» la sua gravidanza, cercando una copertura da parte del cappellano e di mettere fine con la sepoltura al montare di sospetti a suo carico.
Don Casoni delude però le speranze della ragazza, rispondendole che occorre il permesso prima di procedere alla tumulazione e che ne avrebbe parlato al priore: qui gli automatismi istituzionali inizieranno a far il loro corso, e Chiara non potrà più tenere nulla nel segreto.
Infatti, il priore don Egisto Macchioni fa sapere alla madre di Chiara che non darà l’autorizzazione alla sepoltura della neonata, senza aver prima ricevuto quella per iscritto dell’ufficio di stato civile del comune: così la sera del giorno seguente, dopo la denuncia fatta dalla sorella di Chiara in comune, il cadaverino verrà consegnato dalla madre di Chiara al priore, pregandolo affinchè «la cosa fosse rimasta occulta onde salvare l’onore della figlia.»[19]
E’ in questo quadro di forte prossimità ed interdipendenza tra gli abitanti di Castelvecchio, che si sviluppa la «voce pubblica», più volte citata nel corso delle indagini, sulla fama di Chiara, sulla sua gravidanza ed infine sullo svolgimento del parto ed il ruolo della sua famiglia.
L’attenzione dei compaesani ad esempio si era concentrata sul graduale aumento di volume del ventre di Chiara da diverso tempo, ma non mancano testimonianze di reazioni seccate da parte di Chiara, che sicuramente ne accusava il crescente peso: Antonio Baroni ad esempio racconta di aver sorpreso la ragazza durante il mese di aprile, mentre «raccoglieva lungo i muri vecchi di un’erba chiamata felcina che nella nostre montagne è ritenuta atta a facilitare le mestruazioni ed essa mi rispose che curassi i fatti miei. Dopo capii che era incinta poiché giorno per giorno aumentava il volume del suo ventre finchè capii anche per la voce pubblica che già se ne occupava che la Lometti cercava di liberarsi con medicine della sua gravidanza»[20].
Anche la madre di Chiara, Maria Abbati aveva tentato di arginare il clima di sospetto attorno alla figlia: se ai Carabinieri la donna dichiara che «neanche essa si era mai accorta della di lei figlia Chiara che fosse incinta», nei confronti dei compaesani appariva evasiva quando «in paese eravi convinzione generale che la Chiara Lometti fosse incinta e che talvolta interpellata in proposito rispondeva ‘se sarà si vedrà»[21].

Le peripezie della vita amorosa di Chiara sembrano ben conosciute a Castelvecchio: Erminia Macchioni riferisce che «la Lometti gode di poco buon nome»[22], ma anche sulla madre si riversa l’univoco biasimo della «voce pubblica» che, come racconta Antonio Baroni, «si mostra poco favorevole alla madre della Chiara la quale lascia troppa libertà alla figlia e tutti desidererebbero che le pene che devono toccare alla Chiarina toccassero anche a lei»[23].

Il paese rimprovera alla madre di aver avuto «poca cura» di Chiara, nel senso di mancanza di controllo: il padre non viene quasi mai nominato, è evidente come dalla madre ci aspettasse, questa assunzione di responsabilità e venisse considerata di conseguenza coinvolta nella morte della nipotina, in quanto si riteneva che il destino e il valore di una donna fosse intimamente legato al suo ruolo materno e a come esso venisse svolto.

Il verdetto

Durante i pochi giorni della sua permanenza nel carcere di Sassuolo, Chiara viene visitata più volte da diversi medici a causa di ricorrenti crisi, descritte dal dottor Costi come «convulsioni generali a tutto il sistema muscolare a forma rigida detonica in uno stato di completo coma con perdita della conoscenza[24]», crisi che non convincono altri, facendo dubitare anche il Pretore, che dopo averle fatto visita annota: «uscii poco convinto della malattia della Lometti credendo ad una farsa in odio alla mie prescrizioni»[25].
Lo stesso disagio psico-fisico esploderà con «forti accessi epilettici»[26] durante le udienze del processo, che si svolgerà il 4 e il 5 aprile del 1889 a porte chiuse, in quanto «riguardo alla natura dei fatti da svolgersi ne potrebbe derivare nocumento alla moralità»[27]: ciò impedisce di conoscere la strategia difensiva impostata dall’avvocato e dal perito di parte, ma a giudicare dalle fonti giornalistiche sembra volta a dimostrare la completa innocenza di Chiara, escludendo così anche l’ipotesi dell’ uccisione della neonata in uno stato di alterazione mentale, rovesciando così (ma non sapremo mai in base a quali altri dati) le ipotesi scaturite dalla perizia necroscopica disposta dal Pretore.
Viene infine emesso il verdetto della giuria, come ci viene narrato da «Il Panaro» del 6 aprile:
 «1° Questione principale. L’accusata Chiara Lometti è colpevole di avere nel mattino del 14 settembre in Prignano volontariamente e con intenzione di uccidere tolta la vita all’infante da essa partorito vivo e vitale in detto giorno e ciò arrecandogli una frattura al parietale destro che fu causa unica della immediata morte?
2° Questione. L’infante di che alla prima questione era figlia illegittima di essa Chiara Lometti?
Nella affermativa della 1 questione.
3°Questione. L’accusata Chiara Lometti quando commise il fatto di che alla prima questione principale era essa in istato di pazzia o di morboso furore e di assoluta imbecillità ovvero eravi essa tratta da una forza non però a tal grado da renderla non imputabile affatto della commessa azione?
Nella negativa della prima questione.
4° Questione. L’accusata Chiara Lometti è essa colpevole di avere involontariamente tolta la vita all’infante da essa partorita e ciò per la di lei negligenza e specialmente per aver omesso di farsi assistere all’atto del parto?
I giurati risposero negativamente alla prima e all’ultima questione onde il Presidente in nome del Re e della Legge ordinò che la Lometti fosse tosto lasciata in libertà. Prima però che essa abbandonasse la sala il Presidente le rivolse amorevoli suggerimenti augurandole che per l’avvenire non le accada più di essere sottoposto a procedimenti penali»[28].
Una volta tornata in libertà, è da immaginare che Chiara non abbia avuto rapporti semplici con i compaesani che avevano portato allo scoperto il suo segreto e testimoniato contro di lei: attraverso l’ufficio di stato civile del comune di Prignano apprendiamo infatti che Chiara impiegherà molti anni a «regolarizzare» la propria situazione, sposando nel 1921 all’età di 57 anni il vecchio amante, Vittorio Geti. Morirà nel 1936 sempre a Prignano.
Dai documenti processuali a noi pervenuti è difficile comprendere cosa possa aver convinto la giuria della totale innocenza di Chiara: nemmeno l’ipotesi contemplata nell’ultima questione, cioè l’uccisione involontaria della neonata per schiacciamento del cranio dovuto allo svenimento di Chiara durante il parto viene considerata plausibile, dato che per come è formulata la questione, implicherebbe una sua negligenza e la colpa di non essersi fatta assistere nel parto.
Negando questa ipotesi, la giuria dimostra di aver creduto alla versione di Chiara, senza che le contraddizioni in cui era caduta più volte, e che vengono espresse nelle testimonianze, scalfiscano questa sua immagine di povera sofferente.
Com’è pensabile che una giuria formata da persone probabilmente di estrazione borghese e di medio livello culturale potesse credere ad un tale cecità di fronte ai manifesti cambiamenti del proprio corpo, alla innaturalità di un ciclo mestruale che continua per tutta la gravidanza? Se infatti avesse ammesso di aver nascosto la gravidanza, la morte della bambina in un parto segreto come sarebbe potuta apparire tanto casuale?
Il dramma di Chiara si esprime visibilmente attraverso la sofferenza del corpo che si contorce per le convulsioni, divenendo, insieme all’inconsapevolezza del suo stato fisico e del parto, l’implicito motivo della sua assoluzione, riscattandola dalla colpa dell’essere stata due volte illegittimamente incinta.
La reazione di Chiara in carcere e successivamente durante il processo, riproduce infatti uno dei tipici stati di alterazione psicofisica legati al puerperio, descritto dalla medicina dell’Ottocento come uno dei momenti in cui maggiormente si esprime la fragilità della fisiologia femminile e del suo sistema nervoso, potendo gettare la donna in «una specie di delirio fisso che soggioga prepotentemente l’animo, e lo trascina ad azioni illegali e criminose»[29]. Si compone così nel corso del secolo lo stereotipo criminologico dell’infanticida come vittima della «mania puerperale», e allo stesso tempo anche i racconti delle imputate tendono probabilmente ad adeguarvisi, riportando un numero crescente di episodi di amnesie, stati di incoscienza e deliri, che sembrano testimoniare una larvata «penetrazione nella conoscenza popolare e femminile dei comportamenti richiesti»[30]. Non possiamo sapere se e quanto Chiara avesse messo deliberatamente in atto il suo visibile turbamento, poteva anche trattarsi dell’interiorizzazione di un modello di follia e disperazione capace di giustificare il suo gesto e di alleviarne le conseguenze.

Un altro aspetto accomuna questo caso a quello di tante infanticide, come dimostrato dalla letteratura che ha raccolto e illustrato la casistica processuale nell’Italia dell’Ottocento[31]: anche Chiara «cerca di nascondere a tutti la propria gravidanza…portando a motivo dell’accentuarsi della grossezza, una malattia, la madrazza (cioè un arresto irregolare del flusso mestruale con conseguente rigonfiamento del ventre), che tutti accettavano per tale e veniva curata con decotti d’erbe; partorisce da sola, senza aiuto e spesso ha uno svenimento/sfinimento provvidenziale dopo il parto, da cui spesso rinviene trovandosi accanto il figlio morto»[32].

L’infanticidio nella percezione popolare

A questi racconti di gravidanze vissute come malattie corrispondono racconti di parti veloci, solitari, che vengono scambiati per lo «scarico di un deposito»[33] di sangue che gonfiava il corpo, e ne preannuncia la guarigione: gli eventi fisiologici sono così dissimulati e risolti in un narrazione che assume tratti popolareschi e quasi fantastici, testimoniando la volontà di rimozione di un evento inaccettabile, in cui a volte nemmeno la vista del neonato -indicato dalle madri come «grumo», «globo» o «volume»- sembra davvero far prender loro coscienza dell’avvenuto.
La stessa uccisione a volte non è riconosciuta come tale e ne rifiutano la responsabilità: quando ammettono di essersi rese conto del parto, affermano che il bambino sia nato morto o di averlo scambiato per tale ed averlo perciò abbandonato, che sia rimasto ucciso per motivi accidentali o addirittura di non essere state capaci di allacciare il cordone ombelicale: di solito tuttavia, l’autopsia rivela che si tratta di morti per soffocamento e strangolamento. Queste donne sembra comunque non si rendano conto della gravità di ciò di cui sono accusate, data la noncuranza con cui molte occultano il cadavere o giustificano il proprio gesto, parlandone quasi sempre con distacco.
La ricostruzione di stati d’animo e moventi attraverso le fonti processuali risulta comunque particolarmente difficile, da una parte per la distanza che intercorre tra inquirenti e interrogate -in grandissima parte giovani nubili e di umili origini contadine- e dall’altra per la sorta di inesprimibilità del senso di questo gesto, che riescono a comunicare solo a tratti, e sembra rappresenti una sorta di reazione, non solo alla miseria, ma di difesa contro «un bambino non voluto, che viene non tanto a testimoniare una colpa, quanto ad invadere scelte e ritmi di vita già difficili da difendere»[34], come per esempio la possibilità di continuare a lavorare, e quella di sposarsi in futuro.
Infatti, anche se l’ostentata indifferenza per le chiacchiere di paese dimostrano una certa spregiudicatezza, quando per la seconda volta rimane incinta essa rischia di confermare e peggiorare senza scampo la propria reputazione e perdere ogni speranza di approdare ad un normale matrimonio.
In una realtà contadina in cui il fidanzamento aveva perso il carattere di impegno socialmente riconosciuto e legalmente vincolante, ma talora sancito da rapporti sessuali tacitamente tollerati, una ragazza illegittimamente incinta non aveva alcuno strumento per farsi rispettare pubblicamente[35]. Il lento sfaldamento di logiche comunitarie tradizionali e della dimensione collettiva della difesa dell’onore, portò infatti «ad una concentrazione sulla donna di responsabilità prima condivise in modo più ampio; questa dinamica ci pare riconducibile ad un processo più vasto di isolamento dell’individuo dal contesto protettivo delle relazioni».[36]

L’infanticidio nei codici dell’Ottocento

L’isolamento sociale della trasgressione sessuale trovò poi espressione nei codici civili dell’età liberale col divieto della ricerca della paternità dei bambini illegittimi[37], che da una parte fece cadere esclusivamente sulla donna ogni colpevolezza morale ed onere economico della sua maternità, e dall’altra aggravò l’emarginazione dei figli naturali, privandoli dell’identità personale e sociale. Tutto questo si tradusse nell’impetuoso aumento degli abbandoni dei «figli della colpa» negli ospizi per trovatelli[38], come unica speranza per la madre di recuperare parzialmente l’onore perduto.
Non è un caso se la tendenza all’irrigidimento del confine tra legittimità ed illegittimità fu accompagnata nel Settecento da un vasto dibattito negli ambienti culturali riguardo al tema dell’infanticidio: la riflessione del movimento illuminista sulla crudeltà del sistema penale, che colpiva i soggetti più vulnerabili vittime delle ingiustizie sociali, assegnò un posto chiave alla figura dell’infanticida, prendendo coscienza delle responsabilità sociali e pubbliche che stanno dietro questo tipo di delitto, compiuto in condizioni di solitudine, disagio sociale e di sfruttamento della vulnerabilità femminile.
La trasformazione del significato sociale e ideologico dell’infanticidio, corrisponderà durante l’Ottocento ad una ridefinizione giuridica di questa figura di reato, arrivando ad elaborare un preciso modello criminale, in cui il movente della difesa dell’ onore macchiato da un figlio illegittimo, rovesciando la situazione precedente, attenua la gravità del delitto, e definisce implicitamente la norma di una maternità possibile solo all’interno del decoro familiare.
Il reato di infanticidio aveva iniziato infatti ad esser perseguito decisamente a partire dal Cinquecento, quando, trovata una definizione più rigorosa all’interno dei codici penali, insieme al riconoscimento della sua esclusiva ascrivibilità alla donna non sposata, veniva punito con le condanne più terribili, essendo considerato come un omicidio aggravato dalla presunzione di premeditazione, dal vincolo di sangue, e dal fatto che si rivolgeva contro un soggetto indifeso.
 Col passaggio all’età contemporanea, attraverso l’ ideologizzazione del ruolo materno nella famiglia, si arriva ad una diversa strategia di regolamentazione e repressione della trasgressione femminile: paradossalmente, l’unico «diritto» che rimane alla madre illegittima, in una società in cui essa non può essere più contemplata, è quello di avere una parziale giustificazione ad un suo eventuale gesto estremo, per evitare appunto l’ostracismo sociale.
Ad inaugurare la tendenza alla mitigazione nel trattamento sanzionatorio dell’infanticidio, sarà il codice austriaco del 1803, differenziando l’infanticidio dall’omicidio solo in caso sia commesso su un neonato illegittimo e per causa d’onore, e punendolo con la detenzione dai cinque ai venti anni. Tutti i codici penali italiani preunitari faranno poi proprio in diversi modi il requisito dell’illegittimità del neonato nelle specifiche leggi: considerato in alcuni l’elemento indispensabile perché si tratti specificamente di infanticidio e non di omicidio, come nel codice toscano, estense e gregoriano, mentre in altri, come quello Lombardo-Veneto, borbonico e pontificio, esso offre la possibilità al giudice di tramutare la pena di morte o all’ergastolo in detenzioni relativamente brevi.
Il codice penale sardo-piemontese del 1859 sarà anche il primo codice penale utilizzato nell’Italia unita, in quanto rimase in vigore fino al 1889, anno dell’ approvazione del codice Zanardelli, e con l’art. 525 regola l’infanticidio non in quanto titolo autonomo di reato, ma come una qualifica dell’omicidio volontario, nel caso di uccisione di un neonato «di recente nato» integrato poi da un decreto luogotenenziale del 1861 per il quale deve essere «non ancora battezzato o iscritto nei registri dello stato civile» ed è punito con la morte anch’esso: ma con l’art. 532 si concede la possibilità al giudice di abbassare la pena da uno a tre gradi in caso di uccisione di prole illegittima, che successivamente il già nominato decreto luogotenenziale impone come obbligatoria, quando lo scopo del delitto sia «occultare per cagione d’onore una prole illegittima»[39], ed estendibile ad altri soggetti che abbiano agito per lo stesso scopo.
Il dibattito giuridico di orientamento positivista, approfondisce le caratteristiche soggettive del delitto, come motivi della sua specializzazione rispetto all’omicidio: le dibattute questioni della vitalità del neonato e del tempo intercorso tra la sua nascita e l’uccisione, fanno da corollario a quella fondamentale dell’illegittimità, senza che vengano risparmiati cinici giudizi di valore per definire la minore gravità di questa uccisione, che «produce un danno immediato minimo perché l’uccisione di un infante illegittimo non può davvero…considerarsi come una perdita grave per la società». Non si è lontani dal darwinismo sociale quando l’intellettuale positivista descrive l’infanticidio e l’aborto come «stromenti d’una selezione, della quale sarebbe da ciechi disconoscerne gli utili effetti» [40].

Di riflesso, viene poi forgiata l’immagine dell’infanticida «onesta», strumento involontario dell’affermazione dei valori della moralità familiare ottocentesca, che devono essere, nelle intenzioni dei giuristi, gli stessi che, risvegliando il suo senso morale e il suo pudore, la spingono ad avventarsi contro il figlio per difendere se stessa, magari in preda a transitori stati morbosi che rendono possibile un comportamento prima impensabile: a metà tra il delitto d’occasione e quello passionale, l’infanticida non corrisponde ad una personalità crudele, ma «è determinato dalla commozione straordinariamente cagionata dal caso miserevole di una donna onesta traviata»[41].
L’art. 369 del codice Zanardelli stabilisce che «quando il delitto preveduto dall’art. 364 (omicidio volontario) sia commesso sopra la persona di un infante non ancora inscritto nei registri dello stato civile e nei primi 5 giorni dalla nascita, per salvare l’onore proprio, della moglie, della sorella, del discendente o della figlia adottiva, la pena è la reclusione da 3 a 10 anni»[42]: perfezionandosi come fattispecie attenuante nella famiglia degli omicidi, ora l’onore costituisce, come unica «causale a delinquere»[43], il motivo della sua specializzazione e la condizione essenziale per la sussistenza del reato, facendo sì che in via teorica, nel caso in cui non potesse essere provato il movente della causa d’onore, il reato ipotizzato avrebbe dovuto essere quello di omicidio volontario.

Ma l’applicazione del concetto di causa d’onore risente di diverse interpretazioni dottrinali, che influenzeranno l’operato dei giudici: infatti, nonostante il fatto che essa, così come formulata da giuristi ed ideologi, fosse raramente menzionata negli interrogatori delle imputate, essa viene regolarmente invocata per arrivare all’imputazione di infanticidio, anche se in molti casi gli inquirenti avrebbero faticato a riconoscere, nel contesto del reato, una situazione «onorata» e minacciata dalla nascita di un bambino, quando spesso la «voce pubblica» è già a conoscenza delle gravidanze illegittime.

Si ricorre spesso infatti ad elementi soggettivi per giustificare il ricorso alla causa d’onore, come l’intenzione della donna di nascondere comunque la gravidanza, che in realtà viene spesso data per scontata nella pratica giudiziaria, o a una nozione «allargata» del senso dell’onore, ma applicata a donne, come per esempio nel caso di Chiara Lometti, di «cattiva fama», ma facendo rientrare a forza elementi psicologici o sociali come la paura, l’emarginazione, la condizione lavorativa nella giustificazione della causa d’onore.
In molti casi emerge lo sforzo compiuto dai giudici per far corrispondere i casi concreti ad un modello astratto di infanticida, frutto dell’intreccio tra il discorso medico e quello giuridico, proposto con insistenza dalla letteratura sull’argomento.
Infatti, se la presunzione della causa d’onore è lo schema in cui inquadrare formalmente questo reato, perché possa essere rinviato a giudizio come infanticidio, lo stato di alterazione psicologica, la «mania puerperale» o l’ «incoscienza morbosa» diventano una possibilità di proscioglimento o di diminuzione della pena, soprattutto sotto la formula della «semi-infermità mentale». In questa si fanno rientrare «stati passionali» e confuse situazioni emotive, come quegli stati di «incoscienza morbosa» della donna «malata nell’istinto materno» teorizzati in quegli anni, pur organizzati secondo una «formula medico-giuridica che lascia aperta la strada per il recupero della donna al suo ruolo materno»[44].
Nonostante questo, la prassi giudiziaria comincia piuttosto tardi ad avvalersi dello strumento della perizia psichiatrica vera e propria: anche nei diversi casi di riduzione di pena per semi-infermità mentale e proscioglimento per infermità totale, sembra che si arrivi a questo risultato basandosi sulle stereotipate osservazioni presenti nella perizia medica generale, che vengono poi lette in aula, e infine sulla fase finale del processo, in cui vengono poste ai giurati anche le questioni sull’ infermità o sulla semi-infermità mentale.
Nel complesso, le assoluzioni sono moltissime, i verdetti di condanna con diminuzione di pena per semi-infermità mentale superano di molto quelli per provata reità e le pene sono molto lievi: ma passando all’esame dei processi emerge che «anche approfondendo il più possibile lo studio del caso, rimane l’impressione di notevoli incongruenze tra le risultanze istruttorie e la conclusione del procedimento, incongruenze non sempre giustificate dalla comparsa di nuovi elementi in dibattimento. In particolare, il confronto trai vari processi dimostra come, molto spesso, ad un’analogia di risultanze probatorie segua poi una conclusione diversificata. Ne deriva l’impressione di trovarsi di fronte ad un «processo-farsa», in cui i ruoli e i comportamenti sembrano prestabiliti e rispettati a costo di operare notevoli forzature sui dati reali»[45].
La stessa conclusione del processo di Chiara Lometti, nonostante le fonti sul verbale di dibattimento presentino molti limiti, non può non lasciare delle perplessità e sembra inserirsi in questa generale tendenza, facendo pensare ad una sorta clemenza «forzata» da politiche sulla criminalità che riflettono la tendenza del periodo di decriminalizzazione e patologizzazione dell’infanticidio.

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Note

[1] A.S.M.O., A.T.M.O., Busta 60, Fascicolo 10, Procedimento Penale contro Lometti Chiara, Anno 1889, v.f.i., (d’ora in poi contro Lometti Chiara) Verbale di visita dell’Ufficio di Stato Civile.

[2] Ibidem.

[3] Contro Lometti Chiara, Esame sommario di Lometti Chiara del 17 Settembre.

[4] Ibidem

[5] Ibidem.

[6] Contro Lometti Chiara i., Atto di nascita di Lometti Chiara.

[7] Contro Lometti Chiara, Certificato di moralità di Lometti Chiara.

[8] Contro Lometti Chiara, Interrogatorio dell’imputata del 22 Settembre.

[9] Contro Lometti Chiara, Interrogatorio dell’imputata del 2 Ottobre.

[10] Contro Lometti Chiara, Rapporto dei Carabinieri del 19 Settembre.

[11] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. Mandreoli Marianna.

[12] Ibidem.

[13] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. Francalanza Paola.

[14] Ibidem.

[15] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. don Giuseppe Casoni.

[16] Contro Lometti Chiara, Rapporto dei Carabinieri del 18 Ottobre.

[17] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. don Giuseppe Casoni.

[18] Ibidem

[19] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. don Egisto Macchioni.

[20] A Contro Lometti Chiara, Dep. Test. Baroni Antonio.

[21] Contro Lometti Chiara, Rapporto dei Carabinieri del 21 Settembre.

[22] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. Macchioni Erminia.

[23] Contro Lometti Chiara, Dep. Test. Baroni Antonio.

[24] Contro Lometti Chiara, Relazione medica del 2 Ottobre.

[25] Contro Lometti Chiara, Relazione dott. Egidio Nanni

[26] «il Panaro» 4 Aprile 1889

[27] Contro Lometti Chiara, a.d.d.

[28] Contro Lometti Chiara, a.d.d.

[29] A. Stoppato, Dell’influenza delle cause fisiologiche nella specializzazione del reato d’infanticidio, «Il Monitore dei tribunali» anno XXVII, n°7, 1886, p. 138.

[30] R. Selmini, Il delitto incosciente. Storie di isteria nei processi per l’infanticidio, in G. Bock, G. Nobili, (a cura di), Il corpo delle donne, Transeuropa, Ancona, 1988, p. 116.

[31] M.P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, «Quaderni storici» n°49, 1982; M.P. Casarini, Il buon matrimonio, Il buon matrimonio: Tre casi di infanticidio nell’800, «Memoria», n°7, settembre 1983.; D. De Rosa, Il baule di Giovanna. Storie di abbandoni e infanticidi. Sellerio, Palermo, 1995; M. Pelaja, Istinto di vita e amore materno. Un infanticidio nel 1882, «Memoria», n°1 marzo 1981; R. Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, cit.,; P. Sorcinelli, Il bambino nel comò. Cronaca di un processo in corte d’assise, «Storia urbana. Rivista di studi sulle trasformazioni della città e del territorio in età moderna», anno XII, n°47, aprile-giugno 1989.

[32] F. Cambi, S. Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 205.

[33] Contro Lometti Chiara, Interrogatorio dell’imputata del 22 Settembre.

[34] Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, cit., p. 105.

[35] Cioè paragonabile ai procedimenti penali per «stupro con pregnanza e promessa di matrimonio» contro i fidanzati renitenti, comuni durante l’antico regime. A. Pasi, P. Sorcinelli, (a cura di) Amori e trasgressioni. Rapporti di coppia tra ‘800 e ‘900, Dedalo, Bari, 1995, p. 54.

[36] Cavallo, Cerutti, Onore femminile e controllo sociale della riproduzione in Piemonte tra Sei e Settecento, «Quaderni storici», anno XV, n°44, 1980, 373.

[37] G. di Bello, P. Meringolo, Il rifiuto della maternità, ETS, Pisa, 1997.

[38]  Povolo, Dal versante dell’illegittimità. Per una ricerca sulla storia della famiglia: infanticidio ed esposizione d’infante nel Veneto nell’età moderna, in L. Berlinguer, F. Colao, Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, Giuffrè, Milano, 1989., p. 120.

[39] Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, cit., p. 43.

[40] S. Sighele, Sull’infanticidio, «Archivio giuridico», XLII, 1899, 190.

[41] G.B. Impallomeni, L’omicidio nel diritto penale, Unione Tipografica Editrice, Torino, 1900, p. 551.

[42] Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, cit., p. 49.

[43] F. De Cola Proto, L’aborto e l’infanticidio nella dottrina e nella giurisprudenza, Messina, Tipografia del Foro, 1886, p. 189.

[44] R. Selmini, Il delitto incosciente. Storie di isteria nei processi per l’infanticidio, in G. Bock, G. Nobili, (a cura di), Il corpo delle donne, cit., p. 119.

[45] Ivi, p. 148.