Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Zeitnot. Le truppe tedesche in Alto Adige e in Liguria occidentale nell’estate del 1943

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Abstract

The essay focuses on one of the many factors at play in the summer of 1943 in Italy: the arrival of German troops. Using mainly sources conserved in the Bundesarchiv-Militärarchiv (BA-MA) in Freiburg, it outlines the dynamics with which some of the Wehrmacht units were deployed in the weeks following 25 July in two sectors of Italian territory: South Tyrol and western Liguria. The first case highlights the German commands' concern over the equipment and effective preparation of their troops and their fear of possible Italian reactions to German disarmament. The second case shows how the Germans' attention was largely catalysed by the possible Allied landing on the Ligurian coast and the directives received for the disarmament of the Regio Esercito in the event of a failure to react against the landing

Introduzione

Il 25 luglio, i quarantacinque giorni e l’8 settembre hanno catalizzato una parte significativa della memoria e della storiografia italiana sulla Seconda guerra mondiale. Già nel periodo immediatamente successivo al conflitto, furono versati fiumi di inchiostro per spiegare, illustrare, giustificare e spesso condannare quelle fatidiche settimane, soprattutto da parte degli stessi protagonisti (Badoglio 1946; Roatta 1946; Carboni 1955). Nei decenni successivi non mancarono numerose pubblicazioni di memorie che, anche se non dedicate specificatamente ai quarantacinque giorni, erano in grado di restituire una lettura più profonda degli eventi legati all’8 settembre, illuminando il punto di vista di una parte dei soldati e della popolazione civile (Revelli 1962; Origo 1968) [1].

La storiografia si sviluppò contestualmente al fiorire della memorialistica. A partire dagli anni Sessanta, le pubblicazioni di Zangrandi, seppur di taglio giornalistico e polemico, segnarono una cesura con la tipologia narrativa dell’8 settembre consolidatasi negli anni precedenti, costruita sulla memorialistica autoassolutoria dei responsabili italiani (Zangrandi 1967). Sempre negli anni Sessanta, lo studio dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione (Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione 1969), oggi Istituto nazionale “Ferruccio Parri”, segnò un punto fondamentale per l’indagine storiografica, rimanendo tra i principali riferimenti per l’analisi dell’estate del 1943 anche dopo gli anni Novanta con l’uscita delle opere di Elena Aga Rossi, ancora oggi il riferimento più avanzato della storiografia sul tema (Aga Rossi 2003).

In questa sede non si ha la pretesa di compiere una panoramica generale sull’indagine scientifica dell’8 settembre (Aga Rossi 2016), quanto piuttosto affrontare alcune delle lacune tuttora presenti nel dibattito storiografico. Se per ciò che concerne i fatti istituzionali, politici e militari la conoscenza del periodo storico è più che soddisfacente, non è così per l’indagine “dal basso”: in grandissima parte rimane ancora da analizzare la percezione da parte della popolazione civile degli avvenimenti intercorsi dalla caduta del fascismo all’inizio dell’occupazione tedesca, aspetto fondamentale per comprendere come fu vissuto quel periodo profondamente magmatico, in cui ogni individuo era in grado di percepire e vivere in maniera differente gli avvenimenti in corso a seconda della collocazione geografica, della sensibilità politica, delle esperienze pregresse del ventennio e della guerra 1940-1943.

Ma altrettanto interessante, nell’indagine “dal basso”, è il punto di vista tedesco: il modo in cui i comandi e le truppe germaniche si insediarono in un territorio ancora formalmente alleato, e si relazionarono con i militari e i civili italiani, può essere indicatore di come gli uomini della Wehrmacht vivessero il servizio militare dopo quattro anni di guerra, quale significato attribuissero all’Asse, ormai incrinato, e più in generale al conflitto mondiale, sempre più cruento e difficile per il Reich e per i suoi alleati.

L’occupazione tedesca in Italia conta numerose opere storiografiche in grado di illuminarne la natura policratica (Klinkhammer 1993), l’aspetto amministrativo (Collotti 1963; Labanca 2019), oltre a specifici aspetti come la cattura dei prigionieri italiani (Schreiber 1997), il reclutamento di manodopera (Mantelli 2019), i crimini commessi nel corso dei “venti mesi” (Gentile 2015). Sebbene mai tradotto in italiano, esiste anche uno studio monografico dedicato specificatamente alla preparazione del piano Achse e alla sua attuazione (Schröder 1969), ma il punto di vista dei singoli soldati, delle truppe e dei comandi rimane ancora un ambito d’indagine poco esplorato, sebbene di indubbio interesse.

L’obiettivo di questo saggio è mettere in luce l’atteggiamento di alcuni dei comandi tedeschi presenti in Italia durante i quarantacinque giorni. Quali furono le principali preoccupazioni dei comandi germanici? Quale tipo di istruzioni vennero impartire ai reparti sottoposti per il disarmo degli italiani? Quale fu la percezione da parte degli ufficiali comandanti della popolazione italiana e del Regio esercito? In che modo i comandi germanici si mossero sul territorio nella densa nebbia di quelle settimane, tra la caduta di Mussolini e prima che gli italiani diventassero il nuovo nemico? Il focus sarà costituito dai comandi e dalle problematiche da essi affrontate sul territorio.

Facendo del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo (BA-MA) il perno centrale della ricerca, si andranno a illustrare le dinamiche con le quali alcune delle truppe della Wehrmacht si dislocarono nelle settimane successive il 25 luglio in due settori del territorio italiano. In particolare, si porrà l’attenzione su alcune unità, appartenenti all’Heeresgruppe B, ai comandi del feldmaresciallo Erwin Rommel, inviate dall’Oberkommando der Wehrmacht (OKW, Comando Supremo della Wehrmacht) in Alto Adige e nella Liguria orientale. La scelta è ricaduta su questi particolari casi di studio perché evidenziano, meglio di altri, alcuni dei tratti salienti caratterizzanti le truppe che raggiungevano l’Italia settentrionale, tra cui la valutazione da parte dei comandi tedeschi circa una presunta scarsa organizzazione delle proprie unità (in particolare per quanto riguarda l’equipaggiamento e l’addestramento), la preoccupazione della reazione italiana una volta avviato il piano Achse, e il timore di uno sbarco nemico in Liguria.

Per ciò che concerne i due casi di studio scelti, è necessario sottolineare che si tratta di territori su cui i tedeschi speravano di poter rimanere il più a lungo possibile, utilizzando l’Appennino tosco-emiliano come bastione di difesa dei confini meridionali del Reich. La percezione da parte della popolazione civile del Nord della presenza tedesca in Italia era certamente compromessa dalla caduta del duce e dai tre pesanti anni di guerra rovinosa. Seppur lontani dal fronte e dall’asprezza dei combattimenti, erano territori in cui la popolazione civile era già consapevole della durezza del conflitto, soprattutto a causa della fame, delle gravi deficienze sanitarie e delle incursioni aeree. Si pensi per esempio a città come Genova e La Spezia, duramente colpite dai bombardamenti, oppure a Trento e Bolzano, che subirono i primi attacchi proprio durante l’estate 1943 (Labanca 2012).

Agli occhi dei più, se la Germania, nel giugno 1940, era apparsa come la locomotiva a cui agganciarsi per raggiungere una facile vittoria, ora appariva come il treno da cui staccarsi rapidamente onde evitare un tragico deragliamento.

Da ciò che emerge dalle fonti (anche italiane) durante i quarantacinque giorni, il rapporto tra civili dell’Italia del Nord e tedeschi non fu caratterizzato da forte conflittualità, un aspetto presente invece in buona parte del Sud Italia: si pensi alla Campania o alla Sicilia, durante i combattimenti di luglio e agosto (Gribaudi 2005). Questo accadde soprattutto perché la convivenza con le truppe germaniche era un fattore nuovo per le comunità dell’Italia settentrionale. Dall’inizio del 1941 le unità della Wehrmacht destinate all’Africa settentrionale stazionavano per lo più presso i principali porti di imbarco, come la Sicilia o Napoli, mentre nelle altre zone d’Italia la loro presenza era circoscritta a brevi soste o a limitati gruppi di soldati dislocati in nuclei periferici, come campi d’aviazione, centri per la gestione delle telecomunicazioni e così via. L’interazione con i tedeschi costituiva un elemento di novità in cui spesso era più la curiosità reciproca a dettare il passo, seppure non siano mancati episodi sgradevoli, diffidenze e incidenti tra i nuovi arrivati e i padroni di casa, come dimostra, per esempio, il caso di Parma (Zannoni 1997).

L’Alto Adige costituisce un contesto a sé, in cui a caratterizzare la scena era stata la componente germanofona, che accolse con entusiasmo le truppe del Reich (Wedekind 2003). Un elemento, come si vedrà, fondamentale per le truppe in arrivo in Italia settentrionale.

Evidenziando il punto di vista dei tedeschi così come emerge dalle fonti militari dell’archivio di Friburgo, è necessario sottolineare anche i limiti non trascurabili che queste fonti impongono alla ricerca. Per il seguente contributo sono state analizzate sistematicamente le fonti disponibili per il Gruppo Witthöft e per il LI Corpo d’armata da montagna: i documenti dei comandi e delle unità divisionali a essi dipendenti costituiscono il nucleo fondante. Non sempre però si tratta di documentazione completa o esauriente. Per il Gruppo Witthöft, i documenti della 44a divisione di fanteria e della brigata Doehla sono andati completamente perduti a causa delle incursioni aeree britanniche nell’ultimo scorcio del conflitto, che distrussero una parte consistente della documentazione d’archivio militare depositata a Potsdam. Rimangono solamente quelli del comando del Gruppo che, nonostante risentano della mancanza di documenti delle grandi unità sottoposte, sono in grado di offrire una panoramica tutto sommato ampia delle sue problematiche e del suo modo di operare.

Analogo deficit vale per le fonti disponibili per il LI Corpo, ma con una differenza sostanziale. Gli scritti disponibili del comando del Corpo d’Armata sono più numerosi e ricchi rispetto al comando del Gruppo Witthöft. Inoltre, solo parte della documentazione delle unità sottoposte è andata distrutta: se della 65a divisione di fanteria è rimasto assai poco sul periodo luglio-settembre 1943, della 305a divisione rimane invece una documentazione di indubbio interesse.

Per quanto concerne la tipologia dei documenti il discorso è analogo per tutte le unità indagate. I binari su cui muovere l’indagine sono costituiti dal Kriegstagebuch, ovvero il diario storico delle unità, redatto contestualmente agli avvenimenti e riportante una descrizione giornaliera, anche se scarna, dei fatti inerenti alle truppe. Più interessanti sono gli Anlagen (allegati) al diario storico: essi sono costituiti dalle copie dei comandi impartiti alle unità sottoposte, nonché da comunicazioni, rapporti, relazioni provenienti sia dai comandi superiori sia da quelli dipendenti. Gli allegati sono di conseguenza di natura varia, riguardanti diversi argomenti, utili per ricostruire la situazione tortuosa delle unità, le problematiche incontrate, le valutazioni delle situazioni nonché il loro modo di procedere nello studio del contesto in cui operavano.

A costituire il nerbo portante del seguente contributo sono proprio gli Anlagen, sia perché sono le fonti più interessanti per rispondere ai quesiti posti in partenza dalla ricerca, sia perché grazie a questa tipologia di documenti si riesce in parte a colmare le grandi lacune presenti nelle carte, potendosi così ricostruire anche il contenuto dei “pezzi mancanti”.

A completare il quadro delle fonti utilizzate vi sono le mappe geografiche che offrono una ricostruzione dell’esatta posizione delle unità subordinate (come reggimenti, battaglioni, compagnie e salmerie) nel territorio di competenza del Corpo o della divisione in un dato periodo.

Anche la memorialistica tedesca offre un orizzonte d’indagine non secondario. Per ciò che concerne il LI Corpo si consideri che il generale Valentin Feurstein scrisse le proprie memorie di guerra dando ampio spazio anche alle vicende del periodo in cui era servizio in Italia (Feurstein 1963). Non mancano neppure opere che ricostruiscono le vicende vissute dalle divisioni tedesche. Redatte per lo più in collaborazione con i vecchi commilitoni da ex-ufficiali in servizio durante la guerra, esse sono però caratterizzate da un atteggiamento quantomeno nostalgico e apologetico del proprio operato. Per quanto riguarda il periodo 25 luglio-8 settembre, il racconto è segnato da una ricostruzione che spesso non restituisce la complessità degli eventi, presentando una successione di fatti ritenuta scontata e inevitabile – dalla caduta di Mussolini al disarmo delle truppe italiane – che è di conseguenza poco utile a cogliere le percezioni autentiche degli eventi così come furono vissuti dai soldati e dagli ufficiali (Dettmer Jaus Tolkmitt 1969; Velten 1974; Hauck 1975).

Essendo più adatte a rispondere all’esigenza di ricostruire la prospettiva dei tedeschi si è scelto di privilegiare le fonti redatte contemporaneamente alle vicende prese in esame, e non le ricostruzioni ex post. Quella che segue è, dunque, un’indagine sicuramente parziale, ma in grado di offrire una immagine più complessa sulle cruciali settimane dell’estate 1943.

Il punto di vista tedesco, così come emerge dalle fonti coeve e come si avrà modo di osservare, mette in luce una situazione molto meno prevedibile e ovvia di quella comunemente presente nella memoria collettiva. L’aspetto cruciale dell’indagine potrebbe essere rappresentato metaforicamente con una partita a scacchi tra i comandi tedeschi e quelli italiani. Entrambi i giocatori avevano bisogno di collocare al meglio i propri pezzi e, nel frattempo, di studiarsi. I presupposti per vincere, però, erano assai diversi, così come gli obiettivi. Stavano giocando una partita in cui i primi avevano bisogno di guadagnare tempo e i secondi di salvare il “re”. Per utilizzare una terminologia scacchistica: una partita Zeitnot.

“Non disperdete le forze”. Il Gruppo Witthöft in Alto Adige

Da quando gli Alleati avevano sconfitto le forze dell’Asse in Tunisia occupando tutta l’Africa settentrionale, nel maggio 1943, la preoccupazione di Berlino era sempre più rivolta verso il territorio italiano. I comandi tedeschi, pur non escludendo eventuali sbarchi in Grecia e nei Balcani e valutando diversi scenari possibili per gli sviluppi della guerra del Mediterraneo, non potevano ignorare gli evidenti limiti dell’alleato, in cronica difficoltà dal punto di vista sia militare sia economico e sociale. La guerra aveva messo in ginocchio l’Italia e vi era il rischio che uno sbarco anglo-americano sul territorio nazionale compromettesse definitivamente la sua partecipazione alla guerra. Sono note le vicende generali della preparazione del piano Alarich, a partire dalla primavera del 1943, volto a introdurre sempre più truppe in territorio italiano per prevenire una rapida avanzata nemica lungo la penisola e per proteggere i confini meridionali del Reich con o senza l’appoggio dell’alleato (Schröder 1969; Kriegstagebuch des Oberkommando der Wehrmacht 1963, 781-787). Con lo sbarco nemico in Sicilia, la deludente resistenza del Regio Esercito e la successiva, inattesa, caduta di Mussolini il 25 luglio, Alarich subì un radicale cambiamento e fu ridenominato Achse.

Vale la pena soffermarsi sui giorni di fine luglio, indicatori del clima profondamente incerto in cui si mossero i tedeschi. Nell’incontro di Feltre (19 luglio 1943) i comandi germanici si rifiutarono di fornire ulteriori aiuti all’Italia per la difesa della penisola, nonostante lo sbarco alleato in Sicilia avesse già messo in evidenza la difficoltà di resistere degli italiani. La decisione tedesca stava a indicare che a Berlino non era previsto un collasso italiano nell’immediato, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, è probabile che i tedeschi non avessero ancora del tutto chiaro quanto l’Italia fosse vicina al crollo definitivo, supponendo (almeno per il momento) che le unità italiane, seppur duramente provate, fossero in grado di resistere. In secondo luogo, l’eventuale uscita di scena dell’Italia presupponeva la disponibilità degli anglo-americani ad accoglierne la resa, la quale però doveva essere incondizionata, secondo quanto stabilito dagli stessi Alleati all’inizio del 1943. Un fatto che non rendeva così scontata la propensione degli italiani verso un eventuale armistizio, tanto più che Mussolini rimaneva, all’apparenza, ancora saldo al potere e indiscusso sigillo di garanzia per la tenuta dell’Asse. Per questo il 25 luglio ebbe l’effetto di una vera detonazione tra i comandi tedeschi, poiché non solo era un evento inaspettato e imprevedibile, ma anche perché apriva incognite e interrogativi determinanti per la continuazione del conflitto.

Il 25 luglio, come affermò Collotti, fu un vero e proprio acceleratore delle vicende che portarono all’occupazione “a freddo” dell’Italia. Se in seguito all’incontro di Feltre Hitler manifestò l’intenzione di accantonare il piano Alarich, egli, subito dopo la notizia della destituzione del duce, rivitalizzò la preparazione del piano, dando disposizioni perché venissero inviate divisioni tedesche nei punti vitali della penisola.

Il piano Achse venne forgiato in un clima di profonda diffidenza tra i due “alleati”, ma fu anche caratterizzato da cautela e prudenza, essendo le truppe tedesche lungi dall’avere il controllo del territorio ed essendo la penetrazione in Italia di non facile attuazione.

La situazione, profondamente caotica e confusa, fece nascere diversità di vedute all’interno degli stessi decisori tedeschi. La storiografia ha già messo in luce che i rappresentanti tedeschi in Italia, tra cui Kesselring e von Rintelen, mostrarono un’accortezza e un “ottimismo” decisamente distanti dall’atteggiamento di Berlino e dalla valutazione della situazione che si stava compiendo negli ambienti dell’OKW. Gli alti rappresentanti tedeschi in Italia avevano maggior fiducia nel nuovo governo italiano; erano semmai più inclini a pensare che Badoglio avrebbe presto dovuto scoprire le sue intenzioni, alla luce di ciò che stava avvenendo al fronte e a causa dei fermenti nella società italiana. La disparità di vedute e il tentativo di approdare a risposte differenti mettono in luce la grande apprensione registrata nei tedeschi in seguito al 25 luglio, ma anche le grandi incognite che il piano Alarich apriva, come il modo di attuare il disarmo degli italiani e il tipo di occupazione da imbastire in seguito nella penisola (Collotti 50-59; Aga Rossi 2003, 45-51; Schreiber 2017, 1114-1115).

La messa a punto del piano e l’inizio della sua attuazione pratica, tramite l’invio di truppe tedesche in Italia, maturarono in un clima di profonda sfiducia reciproca e in uno scenario ricco di incertezze.

Nel mese di agosto giunsero numerose unità che si dislocarono in parte verso l’Italia meridionale per sostenere la lotta contro gli Alleati, ma soprattutto in Italia settentrionale. In quest’ultimo settore ben quattro divisioni, cioè due corpi d’armata, si stanziarono in Liguria, altre due in Pianura Padana e il Gruppo Witthöft in Alto Adige, a ridosso del passo del Brennero.

Il Gruppo era comandato da Joachim Witthöft, generale, prussiano, con alle spalle una lunga carriera: aveva militato nell’esercito imperiale ed era già ufficiale durante la Grande guerra. Fu decorato con il Ritterkreuz nel dicembre 1941, quando, sul fronte russo, era comandante dell’86a divisione di fanteria (Fellgiebel 2000). Nell’estate 1943 il generale era impiegato presso un gruppo speciale destinato inizialmente alla Grecia, ma a inizio agosto, a causa della crisi italiana, l’OKW decise di inviarlo in Italia e, in particolare, in Sud Tirolo. Tra il 12 e il 23 agosto Witthöft ebbe diversi colloqui con Rommel e Valentin Feurstein (quest’ultimo incaricato di gestire il passaggio delle truppe tedesche in Alto Adige), durante i quali gli venne illustrata la situazione generale italiana, con tutte le sue incognite. Il contesto incerto non permetteva di delineare il tipo di struttura d’occupazione da costruire in Italia, ma era necessario predisporre azioni di disarmo nei confronti del Regio esercito, che stava rafforzando le proprie posizioni nell’area.

Il 30 agosto, su ordine di Rommel, Witthöft assunse ufficialmente il comando del Gruppo, dislocato sulla strada del Brennero, grossomodo da Trento sino al confine con il Reich, mentre Feurstein venne trasferito in Liguria.

Le fonti permettono di stabilire il numero degli uomini posti sotto il suo comando solo in maniera approssimativa. Il Gruppo contava principalmente sulla 44a divisione di fanteria “Hoch- und Deutschmeister”, che qualche mese prima era stata duramente provata a Stalingrado e che, ricostituita grazie a elementi anziani raccolti dalla riserva e provenienti da reparti diversi, contava all’incirca 25.000 uomini. La brigata Doehla era invece costituita da una miscellanea di diverse truppe ed era formata da circa 5.500 elementi [2].

Gli obiettivi di Witthöft erano tanto delicati quanto fondamentali per i tedeschi: vigilare sul passo alpino più importante (il Brennero), il cui controllo garantiva sicure vie di rifornimento e di comunicazione con le truppe impiegate sul fronte meridionale. A tenere in apprensione i comandi locali germanici erano i movimenti dei soldati italiani, che stavano rinforzando le postazioni della zona con l’afflusso costante sia di rinforzi dalle vallate laterali, sia di attrezzature belliche [3]. Perciò le istruzioni che Witthöft impartì ai propri reparti miravano a evitare attriti con i propri alleati (Collotti, 60-62).

Dai documenti del Gruppo, si evince come il generale avesse istruito i suoi sottoposti sulle azioni da compiere contro gli italiani nel momento in cui i comandi superiori avrebbero ritenuto opportuno avviare il piano Achse. L’alto ufficiale era preoccupato non solamente per la presenza di sempre più numerosi militari italiani, ma anche per le condizioni in cui versavano i propri uomini, ritenute dall’alto ufficiale in gran parte sconfortanti.

In questo senso è emblematico il viaggio di ispezione che il generale intraprese il 3 settembre, insieme al capitano di cavalleria Hoesch. L’ispezione prevedeva la visita a diverse postazioni, dal Brennero a Bressanone, onde per cui il rapporto stilato al termine dell’ispezione risulta di indubbio interesse per cogliere la percezione del generale sulla preparazione delle truppe a lui sottoposte, nonché le istruzioni impartite ai reparti.

A metà mattina Witthöft raggiunse Mules (20 km a nord-ovest di Bressanone), dove era dislocata una compagnia del battaglione Hahn, appartenente alla brigata Doehla. Stando a quanto contenuto nel rapporto il generale registrava lo scarso munizionamento dell’unità, ammontante a 30 colpi per ogni soldato e a 3.500 per ogni mitragliatrice pesante, oltre a 30 colpi per ogni lanciagranate. Tuttavia, l’impressione che ebbe della truppa era nel complesso buona e raccomandò “in caso di emergenza [4]” di fortificarsi, fornendo agli uomini munizioni e approvvigionamenti per un quantitativo sufficiente a tre giorni. Witthöft si fermò poi a Mezzaselva (pochi chilometri più a sud di Mules in direzione di Bressanone), dove ispezionò un reparto di Landesschützen (reparti territoriali) che comprendeva nuclei in diverse località vicine, oltre a una compagnia del 132° reggimento granatieri. Il capitano Dietrich, comandante delle unità, illustrò al generale la sua opinione riguardo agli uomini a lui sottoposti, che egli riteneva fisicamente molto scadenti. In gran parte erano anziani, secondo il capitano assai poco utili in guerra, mentre armamento ed equipaggiamento apparivano insufficienti. Il capitano affermava che in caso di necessità avrebbe fatto affidamento sui reparti di granatieri, utilizzando i suoi uomini solamente per incarichi di sorveglianza e di sicurezza. La risposta di Witthöft a Dietrich è significativa: ribadì quanto fosse necessario tener fede agli incarichi ricevuti anche con soldati che non potevano fornire alte prestazioni. Secondo il generale, era necessario ispirare gli uomini con l’esempio e con l’impegno, affinché potessero raggiungere i risultati più alti [5]. Una risposta da una parte indice della tradizione militare tedesca che faceva dell’ufficiale un esempio per gli uomini (Bartov 1996, 55), dall’altra espressione di una problematica non indifferente e nemmeno rara in molti degli ufficiali tedeschi di stanza in Italia nell’estate 1943: la qualità dei soldati disponibili. Se è vero che durante il mese di agosto giunsero in Italia truppe d’eccellenza come la 1a divisione corazzata delle Waffen SS (Leibstandarte Adolf Hitler) e che in Sicilia combatteva una delle unità d’élite della Luftwaffe (la Hermann Göring), in non pochi casi le truppe tedesche che giungevano nella penisola erano unità con un potenziale limitato: ovvero reparti formati da elementi della riserva, soldati relativamente anziani, con il morale provato dai combattimenti sul fronte orientale e da una guerra che appariva molto più difficile da vincere di quanto non fosse apparso prima. In questo senso, se la memoria italiana e quella tedesca sull’8 settembre hanno esaltato l’efficienza e la preparazione delle truppe germaniche in antitesi con quelle italiane, è bene sottolineare quanto sembra emergere dalla documentazione tedesca del periodo, ovvero che l’eventuale scontro con le truppe italiane in previsione dell’attuazione del piano Achse era visto dai comandi germanici spesso con apprensione e dall’esito non così scontato.

In questo contesto va inserita l’istruzione impartita da Witthöft a Dietrich. Il generale, che probabilmente condivideva la valutazione del capitano sulle truppe a lui sottoposte, suggerì di tenere più compatti i reparti, soprattutto di ravvicinare quello dislocato a Le Cave (tra Mules e Mezzaselva). Un’indicazione nata con ogni probabilità come risposta al continuo afflusso nella zona di cannoni per la fanteria ai reparti italiani, e anche perché il generale, dopo aver visitato la cucina da campo e parlato con alcuni soldati, aveva ricavato la conclusione che sarebbe stato più opportuno se vi fosse stato un comando della truppa più sicuro e deciso, in grado di tenere compatti gli uomini.

Analogo problema venne discusso con il capitano Kloss, comandante una unità di Nebelwerfer (nebbiogeni). La preoccupazione di Kloss verteva sul fatto che il suo reparto, non avendo alcuna protezione contro la fanteria, non sarebbe stato in grado, in caso di urgenza, di disarmare un numero eccessivo di italiani. Stando al rapporto, gli ufficiali discussero se non fosse più opportuno preparare una richiesta di resa per i comandi italiani o se si dovesse contare invece sul fattore sorpresa. Inoltre, Witthöft affermò che sarebbe stato opportuno occupare Mezzaselva, in modo da non frammentare troppo le forze. A fondamento di ciò non vi era solo la visione complessiva delle sue unità. L’istruzione di non disperdere le forze e di rimanere gravitanti in un dato punto strategico senza frammentarsi era un elemento comune al Gruppo, in modo da poter contare il più possibile sulla forza del numero essendo la qualità degli uomini e dell’equipaggiamento non sempre pienamente soddisfacente. Elemento che fu riscontrato anche tra le truppe presenti presso Bressanone, dove il generale impartì al tenente colonnello Falkner di non suddividere le forze dopo averne osservato l’equipaggiamento, giudicato mediocre [6].

Ma la visita al reparto di Kloss aveva messo in luce anche un altro aspetto. Stando all’opinione del capitano sarebbe stato necessario almeno un giorno intero per sottrarre le varie località al controllo del Regio esercito e disarmare tutti gli italiani [7]. Come vedremo più avanti, questo è un aspetto molto importante non solo perché alla prova dei fatti i tedeschi dovettero contare su un tempo molto più limitato (per quanto riguarda l’Alto Adige si può affermare che l’emanazione della parola d’ordine per l’avvio di Achse coincise con l’avvio stesso), ma anche perché mette in evidenza come il fattore scatenante, ovvero l’iniziativa per l’attuazione di Achse, fosse riposto totalmente nelle mani dei comandi tedeschi.

L’attenzione verso le proprie truppe da parte di Witthöft e i consigli che elargiva sono indice di preoccupazione per il comportamento che avrebbero tenuto le truppe alpine. Truppe che, nonostante mostrassero segni evidenti di stanchezza per la guerra, agli occhi dei tedeschi sembravano essere potenzialmente pericolose. Sebbene i rapporti informativi riferissero quanto i soldati italiani fossero “stanchi della guerra e insoddisfatti del loro vitto” e che i rapporti con i loro ufficiali fossero “pessimi [8]”, era viva l’apprensione di combattere contro di loro in un contesto non favorevole. L’esperienza del fronte russo aveva inciso negativamente sui rapporti tra i soldati di entrambi i Paesi e in quel momento si stava concretizzando la possibilità di combattere gli italiani sul loro territorio nazionale. Dalla documentazione tedesca consultata risulta essere presente, se non ammirazione, almeno rispetto verso coloro i quali avevano condiviso l’esperienza drammatica di Stalingrado. Reduci di un fronte tremendo e consapevoli che nella maggioranza degli alpini circolassero sentimenti a loro profondamente ostili, agli occhi dei tedeschi gli italiani apparivano come un avversario potenzialmente in grado di metterli in difficoltà. Non tanto per la loro superiorità numerica o per una maggiore bravura nel combattimento: dai documenti emerge che la preoccupazione principale di Witthöft non fosse nemmeno la possibilità di subire gravi perdite, bensì il tempo necessario per cogliere di sorpresa gli italiani e aver così campo libero in breve tempo. Secondo il generale a rendere il disarmo possibile non sarebbe stato uno scontro frontale, bensì una tattica più elastica, giocata tutta sul fattore sorpresa. Ma per attuarla era necessario entrare in azione con molto anticipo e con una superiorità di mezzi indiscutibile, elementi che per il momento Witthöft non possedeva. Il generale poteva contare solamente sulle proprie forze per occupare l’Alto Adige e disarmare gli italiani.

Questi ultimi erano gli alpini dell’8a Armata, agli ordini del generale Italo Gariboldi. La carriera del generale italiano non si discostava molto da quella di Witthöft. Classe 1879, era un militare di lunga data: contava esperienze in Libia nel 1911-1912, nella Grande guerra e in Africa Orientale Italiana. Nel corso del conflitto aveva combattuto a fianco delle truppe del Reich prima in Africa settentrionale e poi in Russia. Era stato proprio Gariboldi a consegnare a Rommel, nel giugno 1941, le insegne della Commenda dell’Ordine Militare dei Savoia [9] e nell’aprile 1943, il generale fu insignito da Hitler della croce di ferro (Ceva 1999).

In quel momento le unità dell’Armata, il cui quartier generale era dislocato a Padova, erano in corso di ricostituzione. Sulla carta ammontavano a sei divisioni, ripartite in vari corpi d’armata, tutte reduci dalla Russia, come le divisioni alpine “Julia” in Veneto, la “Cuneense” e la “Tridentina” in Alto Adige (queste ultime parte del XXXV Corpo) (Torsiello 1975, 52-60).

Come affermato in precedenza, la preoccupazione di Witthöft non risiedeva tanto nella qualità delle truppe che avrebbe dovuto disarmare, quanto nel contesto e nel modo in cui avrebbe dovuto farlo. Il generale tedesco prevedeva diverse difficoltà: rastrellare tutte le vallate non sarebbe stato semplice, tanto più che rischiava di tenere impegnate le sue esigue truppe per molto tempo e dare ai reparti alpini la possibilità di imbastire e rafforzare un’eventuale resistenza.

Il servizio informativo del Gruppo era nel frattempo impegnato a studiare i propri alleati. Esso sottolineava che le misure difensive organizzate dagli italiani erano attuate sempre in risposta all’aumento di organico da parte dei tedeschi. Tuttavia, affermavano i rapporti, nonostante i diversi incidenti accaduti con le truppe tedesche (e tendenzialmente non presenti nelle fonti consultate) l’atteggiamento generale non era peggiorato: gli ufficiali italiani erano “corretti”, a volte aperti e “amichevoli”, mentre gli uomini di truppa erano pressocché totalmente contrari alla volontà di continuare la guerra, seppur questo fosse giudicato un contegno non uniforme. Una valutazione forse un po’ troppo ottimista laddove i termini “amichevoli” e “corretti” devono probabilmente essere intesi non tanto come dimostrazioni di cameratismo, quanto assenza di manifestazioni diffuse e violente di insofferenza verso le unità della Wehrmacht (che, seppur episodicamente, non mancarono). L’atteggiamento antitedesco era ricondotto a influenze “comuniste” che disturbavano i rapporti tra gli alleati: all’interno dell’esercito, specialmente tra gli alpini, i simpatizzanti del fascismo si nascondevano sotto “l’influsso” degli antifascisti. Gli ufficiali erano in buona parte su posizioni badogliane e temevano l’attecchirsi del comunismo in Italia in vista di una eventuale alleanza con la Russia.

A complicare il quadro vi era l’atteggiamento della popolazione italiana locale. Il contegno era giudicato insicuro e segnato dalla tensione a causa della presenza delle truppe tedesche, la popolazione italiana influenzata dalla propaganda ostile che rimarcava la totale subordinazione del paese alla Germania, e che aveva tutto da guadagnare con la deposizione delle armi. Anche la stanchezza della guerra era aumentata a causa della propaganda sia tra le truppe sia tra la nella società civile [10]. Da evidenziare, però, che ciò era limitato alla popolazione italofona, giacché il comando tedesco era ben consapevole che i civili germanofoni dimostrassero continuamente la loro contentezza per l’ingresso delle truppe del Reich, rendendo il contesto molto più favorevole ai tedeschi [11].

Ciò fu sottolineato dallo stesso Witthöft ai suoi collaboratori: nelle azioni di disarmo era opportuno contare sulla collaborazione degli altoatesini fidati. Alla base di questa sicurezza vi erano anche i contatti stabiliti con il Gauleiter Hofer che aveva promesso l’aiuto dei propri informatori tedeschi.

Il 6 settembre Witthöft illustrò al generale Bayer, a Bressanone, i passaggi stimati per il disarmo degli italiani, prevedendo quattro fasi da attuare nel più breve tempo possibile. La prima fase avrebbe richiesto tutto il primo giorno d’occupazione al fine di procedere all’attacco a sorpresa e occupare gli obiettivi più prossimi; la seconda fase era di ripulitura delle vallate vicine, volta anche a stabilire contatti con le unità dislocate nelle vicinanze; la terza era prevista per ripulire le vallate laterali con l’utilizzo di unità motorizzate; infine, la quarta fase, aveva come scopo la ripulitura di tutto il territorio di competenza del gruppo (Collotti, 60-62, 77).

Tra le altre cose per la “pulizia” delle vallate (dalla seconda alla quarta fase) era stata considerata la collaborazione con il corpo d’armata del generale Hausser, dislocato nella Pianura Padana. Anche se in alcune zone, come Bolzano, i soldati tedeschi risultavano essere numericamente inferiori agli italiani, la valutazione delle forze portava comunque a considerare i tedeschi in vantaggio. Ma a garantire il successo dell’azione doveva essere il fattore sorpresa, con il rilascio della parola d’ordine con un minimo di 12 ore di anticipo rispetto all’inizio delle operazioni, al fine di preparare tutte le truppe a disarmare gli italiani “senza alcun riguardo [12]”.

Anche se non erano attesi grandi combattimenti contro le truppe italiane, erano messe in conto difficoltà per l’impiego delle unità nelle vallate e nei territori laterali. Il gruppo mancava di truppe da montagna, con il relativo equipaggiamento da impiegare contro i reparti alpini determinati a resistere. Queste difficoltà, sottolineava Witthöft in un rapporto a Rommel, sarebbero aumentate con l’irrigidirsi del clima. Il sodato tedesco non abituato alla montagna e privo di equipaggiamento adatto poteva essere facilmente inferiore agli alpini abituati sia alla montagna sia alla battaglia. Il generale chiese quindi di mettere a disposizione truppe da montagna, altrimenti sarebbe stato necessario considerare “spiacevoli episodi di resistenza” con conseguenze gravi per il controllo della ferrovia del Brennero [13].

Nel complesso, quindi, il generale Witthöft doveva concentrarsi nell’osservare le mosse degli italiani e confidare nell’arrivo di truppe da montagna, nonché di preparare le proprie unità, giacché per attuare il piano Achse era necessario tempo.

Sono almeno tre i fattori fondamentali emersi dall’esperienza del Gruppo Witthöft in Alto Adige. In primo luogo, spiccano le grandi incognite a cui erano sottoposte le truppe tedesche a causa della preparazione del piano Achse. Al di là dell’iniziativa considerata totalmente nelle proprie mani, gli elementi più importanti ancora da chiarire erano le tempistiche, le modalità del disarmo da attuare su azioni violente “senza riguardo” oppure tramite richieste di resa e, non meno importante, sui limiti dell’equipaggiamento delle proprie unità, spesso considerato non all’altezza della situazione.

Il secondo fattore fondamentale è l’interrogativo posto dall’atteggiamento dei soldati italiani e dal contegno della popolazione civile. La reazione a un’eventuale azione di disarmo da parte dei tedeschi non era scontata e non era considerabile come marginale. In Alto Adige, come segnalato, era evidente il vantaggio dovuto alla presenza della popolazione germanofona, che garantiva un’ampia base di sostegno alle truppe tedesche: la popolazione altoatesina accolse le truppe tedesche come liberatrici e (come dimostrarono i fatti) si dimostrò favorevole alla presa di possesso del territorio da parte della Wehrmacht, considerato il giusto epilogo dopo vent’anni di frustrante italianizzazione.

In terzo luogo, vi furono i risultati, completamente diversi dalle aspettative. Le 12 ore calcolate come anticipo per l’attuazione del piano Achse non solo divennero irrealizzabili, ma la stessa diramazione del piano avvenne in un contesto di sorpresa e confusione, generata dalla radiodiffusione dell’annuncio dell’armistizio da parte alleata. Eppure, una volta giunti al dunque e dovendo attuare effettivamente quanto predisposto, anche con i limiti di cui i tedeschi erano ben consapevoli, i risultati furono più positivi di quanto i pronostici più rosei avrebbero potuto far sperare. Gli uomini di Witthöft dovettero operare senza l’aiuto dei comandi vicini (talvolta furono le unità della 44a a supportare le Waffen SS, come nell’occupazione di Verona), ma vi riuscirono perché gli episodi di resistenza furono marginali e contenuti in un tempo più breve del preventivato (le azioni più importanti avvennero nella sola notte tra l’8 e il 9 settembre).

A distanza di dieci giorni dall’annuncio dell’armistizio, inoltre, la componente italiana della popolazione appariva inerme e destabilizzata da quanto accaduto (anche se la paura per movimenti di resistenza, specialmente tra la classe operaia, era ben presente tra i tedeschi) [14].

I risultati dell’azione del disarmo, stando ai rapporti, furono impressionanti. Al 17 settembre risultava che la 44a divisione avesse disarmato e preso prigionieri circa 51.000 uomini (di cui 18 generali e 1.783 ufficiali), mentre la brigata Doehla 25.000 uomini (di cui 3 generali e 1.061 ufficiali). Un numero corrispondente rispettivamente al doppio e al quadruplo delle proprie forze [15].

Soldati della 65a divisione fanteria a Sestri Levante, estate 1943, tratto da W. Velten, Vom Kugelbaum zur Handgranate. Der Weg der 65. Infanterie-Division, Neckargemünd: Kurt Vowinckel Verlag, 1974.
Soldati della 65a divisione fanteria a Sestri Levante, estate 1943, tratto da W. Velten, Vom Kugelbaum zur Handgranate. Der Weg der 65. Infanterie-Division, Neckargemünd: Kurt Vowinckel Verlag, 1974.

Nonostante la sorpresa generata dall’annuncio dell’armistizio, la reazione tedesca riuscì a essere efficace e sorprendente per gli stessi tedeschi. In questo senso, la partita Zeitnot che si era giocata nelle settimane precedenti fu vinta dai tedeschi, anche se i presupposti su cui essi l’avevano preparata si sarebbero rivelati in gran parte inesatti, costringendoli a operare in larga misura con l’improvvisazione.

Uno sbarco temuto e un alleato ostruzionista.
Il LI Corpo da montagna in Liguria orientale

A inizio settembre la costa ligure pullulava di militari italiani e tedeschi. Già prima della caduta di Mussolini, gli alti comandi della Wehrmacht sapevano che gli Alleati disponevano di una forza navale pari circa a quella dispiegata in Sicilia da utilizzare nel Mediterraneo.

Era difficile, per i comandi dell’Asse, comprendere dove il nemico l’avrebbe impiegata effettivamente, essendoci molti obiettivi plausibili come la Sardegna, le coste tirreniche, la Provenza e i Balcani. Per questo era necessario sopperire alla carente difesa costiera italiana, specialmente nei tratti litorali dove un eventuale sbarco sarebbe risultato più dannoso. Uno di questi era la Liguria, le cui coste ospitavano le piazze marittime di La Spezia e Genova, nonché gran parte delle navi della marina italiana. Inoltre, il possesso delle grandi industrie e gli snodi stradali posti immediatamente nel retroterra erano di vitale importanza per il controllo dell’Italia settentrionale (Gimelli 2005; Mantelli 1989; Mantelli 1990).

Nel mese di agosto, in Liguria, era affluita una grande quantità di truppe tedesche: nella zona orientale si era insediato il LI Corpo da montagna, al comando del generale Valentin Feurstein e nella parte occidentale era collocato l’LXXXVII Corpo d’armata, ognuno dei quali contava su due divisioni.

Il LI Corpo, in particolare, disponeva di 24.000 uomini [16], provenienti per lo più dalla Baviera, dalla Renania e dalla Westfalia, mentre il comando era per il 60% composto da austriaci [17]. Lo stesso Feurstein era nato nel 1885 a Bregenz, nell’allora Impero austro-ungarico. Come diversi altri generali tedeschi giunti in Nord Italia nell’estate 1943 era un comandante esperto. Alle proprie spalle aveva una lunga carriera nell’esercito: nel 1940 aveva partecipato all’occupazione della Norvegia, per poi essere impiegato nella riserva del Führer, e infine in Italia (Feurstein 1963, 168-195). Nel mese di agosto aveva gestito il transito delle truppe tedesche dal Brennero, per poi venir trasferito alla guida del LI Corpo. Aveva ricevuto dagli alti comandi disposizioni riguardanti il grave rischio di sbarchi nemici, disposizioni che trasmise alle sue divisioni sottoposte, la 305a e la 65a divisione di fanteria, entrambe provenienti dalla riserva e con organici in parte reduci dal fronte orientale.

Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre il generale si prodigò nell’organizzare le truppe per una risposta efficace in caso di sbarco [18]. A preoccuparlo, era un’azione d’attacco su larga scala, che coinvolgesse la zona di La Spezia, attorno a cui orbitava il Corpo. Oltre a fornire indicazioni tecniche su come dislocare le sue divisioni presso la foce del fiume Magra, per respingere immediatamente in mare le forze nemiche, provvide a studiare i possibili atteggiamenti che i soldati italiani avrebbero potuto assumere una volta eventualmente sbarcati gli Alleati. Il 31 agosto, quando Rommel giunse in ispezione a Borgotaro (sede del comando di Feurstein), si discusse proprio su questi due punti fondamentali [19].

Leggendo i rapporti conservati nel fondo del Corpo, è evidente come il rischio di uno sbarco venisse vissuto con apprensione dai comandi germanici. Ogni giorno vi era il pericolo che navi nemiche comparissero all’orizzonte, in un contesto, quello italiano, già di per sé molto incerto. Nell’incontro tra Rommel e Feurstein, fu necessario porre sul tavolo la questione della presa del controllo della piazzaforte spezzina, che costituiva un importante punto strategico non solo per il controllo del territorio, ma anche perché vi si concentrava gran parte della flotta militare italiana. Prendere possesso delle navi prima del nemico o prima di un tentativo di fuga o di autoaffondamento era di vitale importanza.

Nell’incontro del 31 agosto venne ribadita la necessità di agire nel modo più rapido possibile per porre in sicurezza il tratto di costa fino a Rapallo, per prendere possesso dei porti e dei moli di attracco, delle batterie contraeree oltre all’occupazione della fortezza di La Spezia. Ma era necessario porre in sicurezza anche il retroterra [20].

Le linee di rifornimento del Corpo correvano in profondità, fatto non molto agevole per l’approvvigionamento delle truppe, ma necessario per tenere al sicuro il materiale bellico, mantenendolo il più lontano possibile dalla costa [21]. A tal compito era destinata la 65a divisione che doveva occuparsi anche delle misure precauzionali per la difesa, come lo sbarramento delle strade e il minamento dei ponti più importanti lungo le principali vie di rifornimento, tra le quali la strada Parma-La Spezia e i tratti viari presso Berceto, Pontremoli e Aulla. Il controllo o l’interruzione di queste strade erano decisivi per impedire una rapida avanzata nemica nel caso in cui la controffensiva non avesse avuto successo [22].

La preoccupazione dei tedeschi si comprende maggiormente se si sottolinea che i comandi germanici consideravano molto probabile una mancata resistenza italiana di fronte a uno sbarco alleato. Nella mente dei generali vi erano gli impressionanti rapporti che stavano pervenendo dalla Sicilia, sulla scarsa capacità di reazione degli italiani di fronte al nemico (D’Este 1990, 355). In questo caso il compito delle truppe tedesche sarebbe stato quello di respingere gli anglo-americani e nel frattempo procedere al disarmo degli italiani secondo un proclama da diramare tra le truppe del Regio esercito, indicato nel rapporto con i termini seguenti: “la guerra per voi è alla fine, sarete messi in fermo precauzionale, così non avremo alle nostre spalle forze armate [23]!”.

Feurstein sottolineò che se le unità italiane non avessero combattuto e se fosse stato necessario disarmarle sarebbe stato pressocché impossibile impedire la fuga della flotta italiana da La Spezia, giacché le truppe erano numericamente insufficienti per conseguire tutti gli obiettivi prefissati. Inoltre, questi avrebbero dovuto essere portati a termine in un contesto prevedibilmente caotico, quale poteva essere quello generato dallo scontro per respingere lo sbarco nemico.

È emblematico che, da quanto emerge dal rapporto steso a seguito della riunione tra il comandante dell’Heeresgruppe B e il generale Feurstein, i tedeschi stessero predisponendo le proprie truppe a combattere il nemico sul suolo italiano senza prendere in considerazione l’alleato se non in termini di mancata resistenza e di difficoltà logistiche e tattiche che questi avrebbe causato. Ma è anche interessante osservare che l’eventuale disarmo venne inserito in un contesto, appunto, di mancata resistenza al nemico cioè come risposta a un cedimento generale del Regio esercito, sulla stregua di quanto era accaduto in Sicilia e non come diretta ed esclusiva conseguenza di un armistizio. Un aspetto già riscontrato in Alto Adige e cruciale per comprendere l’atteggiamento tedesco, con il tentativo di incunearsi tra le truppe italiane e l’effettiva reazione all’8 settembre.

Tuttavia, il controllo del territorio, le misure precauzionali per uno sbarco e le relative disposizioni per la sicurezza dell’assetto viario non elidevano il fatto di essere in un territorio ancora formalmente amico. Trattare con un alleato in crisi, con il nemico alle porte e in un contesto quale quello dell’Italia di Badoglio, dove i rapporti tra i due Paesi erano sempre più tesi e incerti, non semplificava il compito dei tedeschi. Già nella sua esperienza al Brennero, Feurstein aveva avuto modo di sperimentare come fosse difficile confrontarsi con le autorità italiane, tentando di convincerle che le truppe tedesche fossero in Italia esclusivamente per sostenere il Regio esercito.

In Liguria orientale, come nel resto d’Italia, era perciò necessario procedere con molta cautela. Gli italiani avevano organizzato una linea attorno a La Spezia, dentro la quale le truppe tedesche non avrebbero potuto entrare perché zona interdetta e riservata esclusivamente alle unità italiane. La linea correva delineando una grande area, i cui confini, grosso modo, erano tracciati collegando i seguenti punti: Sestri Levante - Varese Ligure - passo della Cisa - monte Borgognone - monte Orsaro - monte Sillara - monte Belfiore, per poi piegare verso sud, fino a raggiungere Viareggio [24].

La linea era sotto la sorveglianza dai reparti della 5a Armata del generale Mario Caracciolo di Feroleto. A La Foce, presso La Spezia, aveva sede il comando del XVI Corpo d’Armata, costituito dalle divisioni “Rovigo” e “Alpi Graie”, al cui comando vi era il generale Carlo Rossi. Le istruzioni che lo Stato Maggiore dell’Esercito aveva impartito al generale Caracciolo riassumevano l’ambiguità di quelle settimane. Il generale non doveva opporsi “al transito delle forze tedesche”, inoltre “non si dovevano compiere atti di forza se non per rispondere ad azioni di violenza, limitandosi soltanto ad energiche proteste” (Torsiello 1975, 175). E, ancora, il 4 settembre ricevette ordini di “non opporsi al passaggio dei tedeschi [nella zona interdetta], ma far notare, al caso” quanto tale movimento fosse “in contrasto con gli accordi stabiliti” (Torsiello 1975, 176). Una situazione assai difficile da gestire per entrambe le parti, la cui complessità emerge ulteriormente quando si offre lo sguardo al carteggio intercorso tra le unità italiane e il LI Corpo. Esso rappresenta plasticamente scopi tra loro incompatibili: da una parte i tedeschi con l’obiettivo controllare il più capillarmente possibile le coste infilandosi tra le unità italiane; dall’altra gli italiani che dovevano muoversi con ambigua cautela, volta a non cedere terreno di fronte all’ingerenza germanica, ma di fatto rinunciando a una propria iniziativa.

Anche qui torna dunque la metafora dello Zeitnot con i due alleati intenti a studiarsi, avendo atteggiamenti e obiettivi differenti. Tutto ciò è rappresentato plasticamente nel succitato carteggio tra il XV Corpo italiano (comandato dal generale Emilio Bancale) e le unità del LI Corpo.

Il 19 agosto Bancale inviò i suoi saluti ufficiali al comandante della 305a divisione, appena giunta in Italia dalla Francia, promettendo ogni sostegno per il trasferimento delle unità, anche se si dichiarò ignaro riguardo alla sua destinazione [25]. Il 20 agosto l’ammiraglio Maraghini, comandante della Piazza Marittima di La Spezia, aveva notificato ai comandi della 305a che non vi era alcun accordo tra i comandi italiani e tedeschi per l’impiego della divisione in loco e che non avrebbe dovuto essere dislocata sulla costa, ma nell’entroterra, anche perché l’area a oriente del Magra non poteva essere occupata da truppe tedesche. In ogni caso, notificava al comando della divisione, avrebbe riferito ai comandi superiori e chiesto il permesso a Roma. “La solita solfa!” venne scritto sul diario di guerra della divisione [26]. Un linguaggio tutto sommato insolito per un documento ufficiale, ma rispecchiante un atteggiamento ritenuto dai tedeschi frustrante. Da quando la 305a era stata destinata all’Italia era stato necessario presentare continue richieste e permessi ufficiali a enti e comandi italiani per ottenere le autorizzazioni per il passaggio sul territorio. Procedure di questo tipo continuarono ininterrottamente per le settimane di agosto e di inizio settembre e, nonostante fossero redatte con i formali “vostro devoto” e “cordialmente vi saluto”, è facile leggervi in filigrana il clima di sospetto che intercorreva tra gli autori dei comunicati.

In merito al transito della divisione nella zona interdetta, il generale Rossi così scrisse a Feurstein il 5 settembre:

ho rappresentato al comando 5^ Armata il desiderio espresso da codesto comando di far transitare la 305^ divisione entro i noti limiti. Il comando 5^ Armata ha inoltrato tale richiesta alle Autorità Centrali, che hanno risposto non autorizzando tale movimento e pertanto sono spiacente di non poter aderire alla richiesta inoltrata da codesto comando [27].

In poche righe il generale Rossi notificava a Feurstein tutti i passaggi burocratici volti a (non) ottenere il permesso chiesto per il passaggio della divisione. Un documento che mette in risalto quanto detto in precedenza riguardo ai due obiettivi degli attori in campo e delle modalità con cui si tentò di conseguirli: da un lato, premere per posizionare le truppe nei punti cruciali, dall’altro, impedirlo evitando di esporsi troppo.

Analoga questione per le postazioni di controllo. Sempre il 5 settembre Feurstein inviò una lettera al generale Rossi. Presentava le scuse di Rommel che, venuto in visita qualche giorno prima a Borgotaro, non era passato a porgere i suoi saluti presso il comando del generale italiano a causa della “brevità del tempo”. Poi passava a esporre un problema rilevato dallo stesso feldmaresciallo: erano stati creati posti di blocco italiani che fermavano in continuazione soldati e veicoli tedeschi rallentandone i movimenti. Per evitare tali disagi il feldmaresciallo chiedeva venissero indicati tutti i posti di blocco italiani in modo da potervi inviare personale tedesco, chiedendo inoltre di non chiudere le strade al transito delle truppe germaniche [28]. Pur avendo chiesto pronta risposta, Rossi inviò un responso solamente due giorni dopo, facendo presente che la disposizione proposta

verrebbe a modificare il sistema sinora seguito nell’organizzazione della difesa costiera e ritenendo di non poter prendere personalmente una decisione in merito, ho oggi stesso prospettato la proposta di V.E. al comando della 5^ Armata [29].

Una risposta che rendeva esplicite le due linee parallele su cui correvano gli alleati in Liguria, con un frustrante e continuo rimbalzo di richieste tra autorità locali e centrali. Ancora il 7 settembre Rossi, avendo saputo che aliquote della 305a divisione erano state dislocate tra Massa e Viareggio, scrisse a Feurstein che la zona in questione era considerata interdetta alle forze germaniche, ma avrebbe comunque domandato chiarimenti alla 5a Armata che, a sua volta, avrebbe portato la questione all’attenzione di Roma. Nel frattempo, pregava di interrompere i movimenti [30].

Da quanto emerge dal carteggio intercorso tra i due comandi, Feurstein doveva essere esasperato, se giunse a chiedere a Rossi l’abolizione dell’ordine secondo cui per ogni movimento fosse necessario chiedere l’autorizzazione alle autorità centrali [31]. A spingere i generali italiani ad agire in questo modo non era solamente la strategia volta a mantenere i propri spazi di autonomia, tentando di non cedere terreno ai tedeschi senza uscire dalla cortina di ambiguità scaturita dalla celebre espressione di Badoglio “la guerra continua”, e che più che dimostrare la volontà italiana di continuare la guerra a fianco della Germania aveva contribuito a portare a lievitazione la diffidenza reciproca: dilazionare e procrastinare i permessi era l’unico mezzo che i comandi locali italiani avevano per tentare di guadagnare tempo ed evitare l’intromissione dei tedeschi nei propri spazi strategici. Un atteggiamento che scaturiva anche dal modus operandi tipico dell’esercito italiano che non poteva far a meno di dover chiedere autorizzazione al comando superiore prima di compiere qualsiasi azione. Alcune delle caratteristiche decisive che si sarebbero rivelate tragiche nel contesto dell’armistizio – come l’incapacità di prendere iniziative autonomamente e i problemi cronici di una rigidissima catena di comando, nonché l’ambiguità di ordini mai chiari – si stavano svelando drammatiche già durante i quarantacinque giorni. A simboleggiare tutto queste contraddizioni rimane il dispaccio proveniente da Roma al comando del XVI Corpo. Nella capitale, gli alti comandi giudicarono poco pericolosa la presenza poco più a sud di La Spezia della 305a divisione: proprio l’8 settembre venne autorizzato il movimento, con poche raccomandazioni sulle normative territoriali [32].

Contemporaneamente al tentativo di far pressione sui comandi italiani per dislocare le proprie truppe il più vicino possibile a La Spezia per meglio controllare la piazzaforte, i comandi tedeschi provarono a sondare le lunghezze d’onda su cui si stavano muovendo i civili. I pochi documenti in merito presentano la popolazione come nel complesso più “amichevole e disponibile” rispetto alla componente italiana presente in Sud Tirolo, seppur provata dai bombardamenti. Anche il comportamento dei soldati italiani era giudicato tutto sommato positivamente, perché pronti alla collaborazione grazie a un atteggiamento “cameratesco [33]”. Il giudizio è da interpretare sempre con cautela e rivela una certa approssimazione e generalizzazione nella valutazione sulla popolazione civile e sui soldati italiani. La definizione di “amichevole” non deve essere riferita a una condotta accogliente ed entusiasta da parte dei civili nei confronti dei tedeschi, quanto piuttosto al fatto che non si verificarono significativi episodi di aperta insofferenza come era stato per l’Alto Adige. Ciò è dato anche dal fatto che le difficoltà più gravi non giungessero dal “basso” bensì dai comandi superiori italiani, le cui istruzioni generavano sfiducia e difficoltà reciproche, creando solo ostruzionismo.

Quando, l’8 settembre, fu annunciato l’armistizio, il LI Corpo si trovò inizialmente disorientato sul da farsi. Sono note le vicende che portarono la flotta italiana, seppur non senza difficoltà e incertezze, a sottrarsi alla cattura, facendo fallire uno dei principali obiettivi tedeschi (Aga Rossi 2003, 120-135). Ma uno degli aspetti più interessanti concerne gli ordini dati il 9 settembre alle truppe del LI Corpo, i quali affermavano che il disarmo degli italiani doveva essere compiuto con la massima urgenza rilasciando subito i soldati disarmati, separandoli dagli ufficiali (che potevano mantenere il proprio armamento individuale) e incamerando tutti i mezzi e il carburante per metterli subito a disposizione delle truppe [34]. L’ordine è comprensibile se si tiene fermo il presupposto che i comandi germanici dessero per scontato che gli Alleati sarebbero da lì a poco sbarcati sulle coste liguri. Onde per cui dover gestire masse di prigionieri di guerra avrebbe distolto troppi uomini dalla difesa costiera. Solamente in seguito venne ordinato al Corpo di trattenere i soldati italiani, ri-catturandoli per poi destinarli ai campi di prigionia. Il generale Feurstein, che pure aveva emanato l’ordine di cattura, scrisse a Rommel lasciando intendere che ciò avrebbe causato solo confusione, anche perché la liberazione immediata dei soldati italiani aveva generato effettivi benefici: aveva consentito di disinnescare eventuali episodi di resistenza (si registrarono solo casi limitati), aveva permesso alle truppe di concentrarsi sulla difesa costiera senza sprecare organico per il controllo di numerosi prigionieri e aveva avuto (stando a quanto affermò il generale) anche una non trascurabile impressione positiva sulla popolazione civile [35].

Non si dispone del numero dei soldati italiani catturati dal LI Corpo. A causa dell’ordine impartito di rilasciarli, valido per i primi due giorni dell’occupazione (9-10 settembre), furono probabilmente in numero inferiore rispetto ai dati riscontrati per l’Alto Adige. È indubbio che dalle unità del Corpo vennero comunque presi dei prigionieri, giacché dagli ordini impartiti si evince che la 305a e la 65a dovettero destinare i soldati catturati del Regio esercito in centri di raccolta della Pianura Padana.

In questo contesto la disparità tra obiettivi e prova dei fatti, tra aspettative e realtà, è lampante. Una partita giocata con l’alleato all’insegna di una manifesta diffidenza, la paura di uno sbarco mai avvenuto, l’annuncio a sorpresa dell’armistizio che scombinò le carte in tavola, la fuga della flotta italiana e infine ordini contradditori, pongono in luce la grande incertezza di quelle settimane, ma anche il fatto che ciò che venne premeditato dovette scontrarsi con una realtà imprevedibile e complessa. In Liguria orientale la partita fu solo parzialmente “vinta” dai tedeschi, che dovettero mettere in conto la fuga della flotta e pagare lo scotto di ordini in contraddizione tra loro stessi e che avrebbero portato molti soldati italiani a fuggire dalle maglie dei soldati tedeschi. Un fattore non secondario dato che non pochi di coloro che riuscirono a fuggire avrebbero poi implementato le file della Resistenza.

Conclusioni

Sarebbe difficoltoso presentare delle conclusioni definitive, dopo uno studio ancora parziale delle fonti tedesche sui quarantacinque giorni senza che vengano messe in dialogo con i documenti italiani. Tuttavia, alla luce di quanto esposto nelle pagine precedenti, è lecito giungere a un parziale punto di arrivo che tenga conto delle problematiche evidenziate.

I comandi delle truppe presenti sul territorio erano immersi in un contesto di difficile interpretazione e in continuo cambiamento, in cui muoversi era molto rischioso. Le decisioni che ogni ufficiale prendeva nei confronti delle proprie truppe e l’atteggiamento che manteneva nei confronti di un alleato percepito sempre più distante dovevano essere studiate volta per volta e assumevano sempre su di sé il contesto magmatico e scosceso in cui venivano prese.

L’esperienza del Gruppo Witthöft mette in chiaro l’apprensione per la preparazione dei propri uomini, non sempre ritenuti all’altezza dei compiti affidatigli e che da lì a poco avrebbero dovuto entrare in azione contro gli italiani. L’attenzione nello studio degli alleati e della loro forza era solo in parte confortante. Da un lato Witthöft e i suoi ufficiali erano ben consapevoli come il Regio esercito fosse ormai in ginocchio e che la stanchezza della guerra permeava le truppe italiane tanto da rendere sfilacciati i rapporti tra soldati e ufficiali. Ma a giocare un ruolo di rilievo era l’ostacolo che in ogni caso avrebbe comportato disarmare le unità italiane. Un obiettivo messo in crisi dalla potenziale capacità di difesa di una parte delle truppe italiane, un fattore in grado di compromettere il buon esito del piano Achse. Ma a emergere nella documentazione delle unità impiegate in Alto Adige è anche la consapevolezza di avere nelle proprie mani l’iniziativa per l’attuazione del piano. Non avrebbe dovuto essere una risposta immediata esclusivamente per un eventuale armistizio, ma un’azione da intraprendere nel momento ritenuto più opportuno. Per quanto concerne le truppe dipendenti da Witthöft la parola d’ordine avrebbe dovuto essere emanata con un anticipo di almeno 12 ore rispetto all’effettiva entrata in vigore del piano, per dar tempo alle truppe, per lo più di scarso valore militare, di prepararsi e compiere azioni decisive contro i numerosi reparti italiani presenti nelle vallate altoatesine. Una preparazione messa in crisi dall’annuncio a sorpresa dell’armistizio, ma senza che ciò impedisse ai tedeschi di conseguire un successo decisivo.

Quest’ultimo elemento emerge chiaramente anche dai documenti del LI Corpo. Il disarmo degli italiani doveva far seguito, in questo caso, alla loro mancata resistenza in caso di un eventuale sbarco anglo-americano. Per Feurstein la situazione era simile a quella vissuta da Witthöft. Anche lui immerso in un territorio potenzialmente ostile, circondato dalle truppe italiane di cui era difficile comprendere l’atteggiamento di fondo (specialmente degli alti comandi) e valutarne le eventuali reazioni. Le relazioni con l’alleato non facevano che complicare il quadro, con i continui e necessari passaggi burocratici che rendevano viscoso il trasferimento delle truppe frustrando la volontà di Feurstein di dislocare le proprie unità nella maniera più ottimale e nel tempo più breve.

Anche la percezione dell’atteggiamento della popolazione civile è significativa. Per ciò che concerne il periodo 25 luglio-8 settembre il comportamento sembra emergere solo sullo sfondo, non perché considerato poco importante, ma perché il problema principale, per i tedeschi, era costituito dalle truppe e dai comandi italiani. Esso divenne oggetto di attenzione continua invece nel periodo successivo all’8 settembre, in seguito alla presa di controllo del territorio, che pose inderogabilmente la gestione della vita civile nelle mani tedesche. La pacificazione dei civili divenne un aspetto cruciale; sarebbe stato poi necessario relazionarsi con le autorità italiane, immergendosi negli intricati rapporti di potere locale, che con il ritorno dei fascisti sarebbero stati segnati da ulteriori difficoltà, aprendo scenari assai complessi per gli ufficiali tedeschi, che dovevano gestirli per garantire gli interessi della Wehrmacht. Non solo, ma sarebbe emersa vivida anche la paura verso i “comunisti”, giudicati molto più numerosi e organizzati di quanto non fossero in realtà. Una paura latente, ma comunque presente e diffusa, anche nelle settimane precedenti l’8 settembre come si evince dai giudizi dati agli effetti della propaganda nemica.

Se osservate con le lenti dei tedeschi, sembra legittimo affermare che le settimane che intercorsero tra la caduta di Mussolini e l’annuncio dell’armistizio appaiono tutt’altro che lineari, rispetto a quanto emerso nella narrazione successiva. La preoccupazione dei tedeschi sulla propria preparazione, i dubbi sugli scenari possibili, lo sbarco ritenuto imminente in Liguria, un armistizio italiano considerato molto probabile nell’immediato futuro ma non presente nelle situazioni dipinte dai rapporti dei comandi locali e un alleato difficile da capire: erano tutti fattori che creavano obiettivi differenti non solo tra italiani e tedeschi, ma anche tra i singoli territori d’impiego delle unità germaniche e agli occhi degli ufficiali rischiavano di minare la riuscita del piano Achse.

Tra i fattori fondamentali vi era la necessità di avere tempo per portare a termine la difficile partita in maniera vincente. Se Witthöft lo considerava fondamentale per preparare le proprie truppe, Feurstein ne aveva necessità per predisporre una difesa adeguata della costa e mettere le sue unità in posizioni efficaci per tener testa a tutti i risvolti probabili. Per entrambi si trattava di fronteggiare un contesto pieno di incognite, imprevisti e sospetti. L’8 settembre fu il frutto anche di quell’insieme di circostanze, e arrivò con il suo carico di incertezze e di improvvisazioni non solo per gli italiani, ma anche per i tedeschi.


Bibliografia

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Note

1. Il seguente saggio presenta alcuni dei risultati dalla tesi di laurea magistrale (All’improvviso arrivò l’armistizio: L’8 settembre dell’Italia settentrionale nelle fonti tedesche; relatore: prof. Matteo Pasetti, anno accademico 2019-2020, Università di Bologna). L’argomento è oggetto di una ulteriore ricerca, ancora in corso.

2. Bundesarchiv-Militärarchiv (Freiburg im Breisgau) (d‘ora in avanti BA-MA), RH 24-73/14. Der Militärbefehlshaber Oberitalien (Generalkommando Witthöft). Abt. IV a. Tätigkeitsbericht, s.d.

3. BA-MA, RH 19-IX/16, FS-KR – Okdo.d.Heeresgruppe B / Ic / AO. Lage in Norditalien. 2.9.1943.

4. BA-MA, RH 24-74/4, Fahrt des Kommandierenden Generals und Besprechungen am 3. September 1943.

5. Ivi.

6. Ivi.

7. Ivi.

8. Ivi.

9. Archivio Luce, Giornale Luce C/C0152, Il Generale Gariboldi consegna al Generale Rommel le insegne della Commenda dell’Ordine Militare di Savoia. Momenti ed aspetti della guerra Marmarica.

10. BA-MA, RH 24-73/4, Generalkommando Witthoeft. Abt. Ic No 31/43 g.Kdos., 6.9.1943.

11. BA-MA, RH 24-73/4, Notizen zur Fahrt des Herrn Kdr. Generals nach Bozen am 8.9.1943. O.U., den 8.9.1943.

12. BA-MA, RH 24-73/4, Br.B.Nr.Ia Nr. 37/43 g.Kdos. Beabsichtigte Kampfführung im Bereich des Generalkommandos Witthöft, 6.9.1943.

13. BA-MA, RH 24-73/4, Br.B.Nr.Ia Nr. 37/43 g.Kdos. Beabsichtigte Kampfführung im Bereich des Generalkommandos Witthöft, 6.9.1943, in particolare il punto VI.

14. BA-MA, RH 24-73/4. Kdr. Gen. Sich. Tr. Gen. Kdo. Witthöft. Abt. Ia. Truppenbergführerausbildung. O.U., den 18.9.1943. Si veda anche: Lagebeurteilung Nr. 2. O.U., den 18.9.1943.

15. BA-MA, RH 24-73/14. Fernschreiben, 17.9.43, 10.00.

16. BA-MA, RH 24-51/128, Anlage Tätigkeitsbericht Sept. 43. Gesamt – Iststärke nach Stand 20.8.1943.

17. BA-MA, RH 24-51/128, Anlage Tätigkeitsbericht Sept. 43. Landsmannschaftliche Zusammensetzung der Angehörigen des LI.Geb.A.K. (in Prozenten). Stand: 10.9.1943.

18. BA-MA, RH 24-51/143, 305. Infanterie Division, Abt. Ia Nr. 754/43 geheim, 6.9.43.

19. BA-MA, RH 24-51/80, Notiz über die Besprechung Generalfeldmarschall Rommel – General Feurstein am 31.8.1943 in Borgotaro. Si veda anche BA-MA, RH 24-51/80, Generalkommando LI. A.K., Abt. Ia/Chefs. Nr.556/43 g.Kdos, 1.9.43.

20. BA-MA, RH 24-51/80, Generalkommando LI.Geb.A.K. Ia Nr. 264/43 g.Kdos. 31. August 1943.

21. BA-MA, RH 24-51/145, Tätigkeitsbericht Nr. 1. Generalkommando LI.Geb.A.K. Abt.IVa 24.8.43 – 31.1.44.

22. BA-MA, RH 24-51/147, Generalkommando LI.Geb.A.K., Qu. -Abt. Brfb.Nr. 60/43 geh., 6.9.1943. Cfr. BA-MA, RH 24-51/147, Generalkommando LI.Geb.A.K. Qu. Brfb.Nr.224/43, 8. Sept. 1943.

23. BA-MA, RH 24-51/80, Notiz über due Besprechung Generalfeldmarschall Rommel – General Feurstein am 31.8.1943 in Borgotaro, 1.

24. BA-MA, RH 26-305/23K.

25. BA-MA, RH 26-305/19, Kriegstagebuch Nr.2 der 305. Division (Teil 1), 19.8.1943, 14:30.

26. BA-MA, RH 26-305/19, Kriegstagebuch Nr.2 der 305. Division (Teil 1), 20.8.1943, 11:00.

27. BA-MA, RH 24-51/80, Comando XVI Corpo d’Armata. Ufficio operazioni. No 01/1134/Op. da prot., P.M. 19 il 5 settembre 1943. Sottolineato nell’originale.

28. BA-MA, RH 24-51/80, Generalkommando LI.Geb.A.K., Der Kommandierende General, Gen.d.Geb.Tr.Feurstein. An den Kommandierenden General des XVI.Alp.Korps. Seiner Exzellenz Herrn General Rossi. La Spezia-La Foce, K.Gef.St., den 5. September 1943.

29. BA-MA, RH 24-51/80, Comando XVI Corpo d’armata. Ufficio operazioni. No 01/1161/op. di prot. P.M. – il 7 settembre 1943.

30. BA-MA, RH 24-51/80, Comando XVI Corpo d’Armata. Ufficio operazioni. N.01/1194/Op. di prot. P.M. 19 – 7 settembre 1943.

31. BA-MA, RH 24-51/80, Generalkommando LI.Geb.A.K. Der Kommandierende General. Nr. 297/43 g.Kdos. den 8. September 1943.

32. BA-MA, RH 24-51/80, Comando XVI Corpo d’armata. Ufficio operazioni. No 01/1202/op. di prot. P.M. 19 – 8 settembre 1943; Comando XVI Corpo d’armata. Ufficio operazioni. N.01/1225/Op. di prot. P.M. – 8 settembre 1943; Comando XVI Corpo d’armata. Ufficio operazioni. N.01/1226/Op. di prot. P.M. 19 – 8 settembre 1943.

33. BA-MA, RH 24-51/80, Generalkommando LI Geb.A.K. Der Kommandierende General. Nr. 262/43 g.Kdos. 25. August 1943.

34. BA-MA, RH 24-51/80. LI.A.K., Ia Nr.310/43 g.Kdos. 9.9.43.

35. BA-MA, RH 24-51/80. Fernschreiben, 10.9.43, 22:30.