Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Al centro della nazione polacca. Aspetti politico-simbolici della ricostruzione di Varsavia dopo la seconda guerra mondiale

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Abstract

After the German occupation of Warsaw in 1939, and the great destructions the invasion had caused, it was particularly important for the invaders to remove the city's status as the Polish capital. In the division of the country, which followed the occupation, what had been the political and cultural centre of the country was in short time reduced to a peripheral city, with a numerous German population and a reduced Polish population. After the war ended the city of Warsaw had an immense symbolical value. The whole country participated in it's reconstruction and also the international society showed great interest.

Introduzione

Nell’Europa devastata dalla seconda guerra mondiale la ricostruzione di Varsavia dovette confrontarsi con enormi difficoltà tecniche, data la distruzione pressochè totale di gran parte dell’edificato urbano. Allo stesso tempo, però, fu un’operazione dall’elevato valore simbolico e politico. Nei mesi immediatamente precedenti e successivi alla Liberazione, avvenuta nel gennaio del 1945, il ruolo stesso di capitale statale ricoperto da Varsavia venne messo in discussione a causa delle condizioni materiali in cui versavano le sue aree centrali, quasi interamente rase al suolo durante gli anni dell’occupazione nazista. La questione di quali funzioni assegnare alla città divenne, così, un potente fattore di legittimazione per le nuove autorità che si accinsero ad affrontare tale compito nelle nuove condizioni socio-politiche del dopoguerra.

Dopo una prima fase iniziale (1945-48) in cui la direzione dell’opera venne affidata agli architetti e agli urbanisti, a seguito della stalinizzazione del paese e del consolidamento della nuova struttura politica post-bellica, il partito al potere potè appropriarsi interamente del ruolo direzionale dell’operazione. L’architettura e l’urbanistica vennero messe al servizio dell’ideologia. La ricostruzione stessa assunse un significato ideologico: Varsavia doveva divenire una città socialista, il cuore di una delle repubbliche popolari facenti parte dell’impero sovietico e un «crocevia» come si disse allora, «di collegamento fra i popoli slavi» (e socialisti).

Dopo un primo quadriennio nel quale si tentò di ricostruire la capitale applicando il modello della città-regione, votato al decentramento delle funzioni e alla deglomerazione della popolazione in una città integrata di dimensioni regionali, la ricostruzione ricominciò, a partire dal 1949, privilegiando la concentrazione degli abitanti e l’accentramento delle funzioni in una grande città monocentrica.

Varsavia durante la seconda guerra mondiale: i piani di germanizzazione e la distruzione della città

Fin dal giorno della conquista della città, avvenuta il 28 settembre 1939, i nazisti si adoperarono per togliere a Varsavia le sue funzioni direzionali e il ruolo di riferimento politico che le derivava dall’essere l’indiscussa capitale dei polacchi.
A partire da quella data, come ricorda il varsavianista Jan Gorski, lo scopo principale della politica di gestione territoriale degli occupanti tedeschi divenne, infatti, quello di pervenire all’eliminazione del ruolo della città come centro politico e culturale della nazione polacca [1]. In ottobre si compì la spartizione della Polonia: le terre polacche occidentali vennero annesse al Reich, mentre quelle orientali furono occupate dall’Unione Sovietica. I territori della Polonia che non erano stati direttamente accorpati alla Germania o all’URSS (comprendenti le provincie di Varsavia, Cracovia, Lublino, Kielce, Radom, Czestochowa e Lodz – circa 90.000 kmq abitati da quasi 10 milioni di persone) andarono a costituire un nuovo Generalgouvernement, la cui sede amministrativa centrale venne volutamente installata a Cracovia, che divenne così la capitale della nuova entità politico-territoriale. Varsavia, invece, fu degradata a sede periferica di uno dei quattro distretti provinciali in cui il Generalgouvernement venne suddiviso.
Negli anni a seguire, dopo aver ridotto l’ex-capitale polacca a una città di periferia del Reich, le autorità di occupazione affidarono agli architetti e agli urbanisti collaborazionisti il compito di produrre dei piani per perseguire, non solo dal punto di vista amministrativo, l’involuzione strutturale e il ridimensionamento territoriale della città. Gli scopi ultimi di tale politica di gestione del territorio vennero riconosciuti dallo stesso governatore distrettuale, Ludwig Fischer, in un memoriale del 1944 in cui scrisse che, da quando era diventato governatore, tutta la sua azione di governo, per quanto riguardava la città, era stata finalizzata a «privare Varsavia del suo carattere di centro della Repubblica polacca, e contemporaneamente a intraprendere tutto quanto fosse stato necessario affinchè Varsavia, anche sotto l’aspetto delle misure [fisiche], non solo non potesse ingrandirsi, ma, al contrario, subisse un ridimensionamento» [2].
L’attività di progettazione vera e propria ebbe inizio nel ’40. Il primo piano di germanizzazioneufficialmente presentato fu poi conosciuto come piano Pabst, dal nome dell’architetto che lo firmò. In realtà l’elaborato venne preparato da una squadra di urbanisti provenienti da Würzburg (Hubert Gross, Erwin Suppinger, Otto Nürnberger, Hans Grimm, Max Kretschmar). Portava l’eloquente titolo di Der Abbau der Polenstadt und der Aufbau der Deutchenstadt. Prevedeva una drastica riduzione delle dimensioni territoriali della città (da 140 kmq a 15 kmq). Le uniche aree che dovevano essere conservate intatte erano quelle della Città vecchia e dei Giardini sassoni – gli architetti tedeschi, infatti, vi avevano rintracciato le indiscutibili tracce della loro origine germanica – dove si sarebbe insediata una comunità tedesca di 130.000 persone. La popolazione di nazionalità polacca sarebbe stata relegata oltre i confini della Varsavia tedesca, al di là del fiume, nella zona meno sviluppata della città, assieme alla comunità ebraica (all’epoca non si pensava ancora di rinchiudere gli ebrei in un ghetto, nè tantomeno di sterminarli), cui veniva assegnata i margini più orientali. Il piano Pabst non venne mai reso operativo, dal momento che la sua realizzazione, anche alla luce delle esigenze belliche sempre più pressanti, risultò alquanto complicata.

Privata del suo ruolo direzionale all’interno della nuova struttura amministrativa tedesca, ridotta (solo sulla carta) nelle sue dimensioni fisiche all’interno dei piani degli urbanisti tedeschi, Varsavia doveva inoltre essere sistematicamente spogliata del patrimonio artistico e architettonico che aveva acquisito nel corso dei secoli durante i quali era stata il centro dello Stato polacco. Durante tutti gli anni dell’occupazione la propaganda nazista presentò, infatti, la civiltà autoctona (slava) del vicino Governatorato generale come inferiore rispetto a quella tedesca. A tal proposito lo storico tedesco Max du Prel nel 1942 scriveva che

Varsavia non appartiene al novero delle città che lasciano delle impressioni durevoli. Quello che vi è di artistico, si lascia percepire solamente in maniera frammentaria e, oltre a ciò, è interessante notare come esso provenga proprio dall’epoca del grande influsso culturale germanico, quando vi furono erette le costruzioni più importanti, dal punto di vista artistico, dell’intera storia della città. Si tratta del periodo tardo-medievale, allorché a Varsavia la borghesia germanica svolgeva un ruolo centrale, e dell’epoca dei monarchi sassoni. Solo questo vale la pena di essere visto [3].

Le esigenze belliche costrinsero gli urbanisti tedeschi a rivedere i loro progetti. D’altra parte, però, nella pratica la riconfigurazione territoriale della città si realizzò solamente attraverso la divisione dello spazio urbano secondo una logica razziale: la minoranza tedesca si installò nelle zone centrali in una sorta di quartiere tedesco che si estendeva tra corso Ujazdowski, corso Sucha, e piazza Unii Lubelskiej, mentre gli ebrei, come già detto, vennero rinchiusi nell’affollatissimo ghetto ricavato nella zona settentrionale della città.

Con l’evolversi delle operazioni belliche, i sogni riduzionisti tedeschi si rivelarono completamente incapaci di disinnescare la centralità economica e geo-politica di Varsavia e furono accantonati. Quando, nel 1941, venne lanciato l’attacco contro l’Unione Sovietica, la città sulla Vistola divenne, infatti, il principale snodo ferroviario sulla strada che dalla Germania portava verso Mosca. Fu così che lo sfruttamento del potenziale produttivo della popolazione locale, costretta a lavorare nelle fabbriche, e l’estensione delle strutture di acquartieramento della Wehrmacht, risultarono più opportuni rispetto ai bisogni logistici dell’esercito tedesco. Paradossalmente, quindi, le esigenze belliche impedirono alla Germania nazista di procedere in maniera decisa nell’opera di trasformazione-ridimensionamento della città attraverso gli strumenti della progettazione urbanistica.

Nonostante gli insuccessi pratici dei piani di germanizzazione, gli anni dell’occupazione tedesca stravolsero egualmente il volto di Varsavia. Dal 1 settembre 1939, quando vennero sganciate le prime bombe da parte dell’aviazione tedesca, al 17 gennaio 1945, giorno della definitiva liberazione della città ad opera dell’Armata rossa, la capitale polacca fu infatti oggetto di tre successive fasi di distruzione che lasciarono in rovina la gran parte dell’edificato urbano e che ne sconvolsero la popolazione, definitivamente privata della numerosa componente ebraica. Dei quasi 1.300.000 abitanti che Varsavia contava nel 1939, sei anni dopo ne erano rimasti poco più di 162.000, 22.000 dei quali sulla riva sinistra della Vistola, il cuore della città che venne liberato per ultimo.

La comunità ebraica era stata invece completamente cancellata. I più di 300.000 ebrei che vi vivevano – che facevano di quella varsaviana la seconda comunità ebraica più numerosa del mondo dopo quella di New York – vennero prima rinchiusi in un ghetto, assieme ad altri ebrei e a degli zingari provenienti da tutta l’Europa centrale, dove vennero decimati dalla fame, dal freddo e dalle epidemie, e quindi sterminati nei campi di concentramento.

Durante gli anni dell’occupazione nazista la città passò attraverso due straordinari episodi di resistenza contro gli occupanti, ovvero la sollevazione del ghetto ebraico del 1943 e l’insurrezione dell’anno successivo.
La sollevazione del ghetto si concluse con l’uccisione, o la deportazione, dei pochi ebrei rimasti che avevano deciso di non accettare passivamente la deportazione nei campi di sterminio. Il settore settentrionale della città, l’area a più alta concentrazione di popolazione ebraica di tutta Varsavia in cui nel 1941 era stato ricavato il ghetto ebraico, venne letteralmente raso al suolo in risposta alle azioni belliche dei rivoltosi ebraici.
L’insurrezione della città , scoppiata nell’agosto del 1944, ebbe esiti simili: le aree centrali vennero metodicamente distrutte dai Kommando tedeschi appositamente istituiti allo scopo di dare alle fiamme e/o di far saltare in aria gli edifici e le aree dell’ex-capitale di più alta importanza storica.

La ricostruzione della capitale: una scelta politica

Nel 1944, prima che l’Armata rossa arrivasse a Varsavia, era già scoppiata la contesa sul futuro ruolo della città nella struttura statale che la Polonia avrebbe assunto nel dopoguerra. A Londra ebbe luogo una vera e propria battaglia politica fra il governo polacco in esilio, riconosciuto dagli anglo-americani, e il Comitato di liberazione nazionale (PKWN), costituitosi nel luglio del 1944 (grazie all’appoggio dell’Unione Sovietica) quale organo esecutivo temporaneo. L’oggetto del contendere era la possibilità, o meno, di ristabilire la sede della capitale della nuova Polonia a Varsavia. Nelle fila del PKWN, non tutti, infatti, erano d’accordo sull’opportunità di riportare il governo a Varsavia [4]. A far sorgere dei dubbi erano soprattutto le condizioni materiali della città, nonchè il fatto che essa, con l’avanzare delle truppe sovietiche e il ritiro di quelle tedesche, si sarebbe probabilmente trovata lungo il fronte dei combattimenti.
All’epoca, però, i propositi di Stalin erano già piuttosto chiari, come emerge dalle memorie di Wladyslaw Gomulka, allora segretario del Partito operaio polacco. In un incontro fra i due, avvenuto il il 22 luglio 1944, Gomulka, dopo aver esposto i dubbi di alcuni dei membri più influenti del PKWN riguardo le possibilità che una città in rovina fosse in grado di ospitare la sede del governo, prese atto che l’unica condizione che il Cremlino poneva per l’elargizione degli aiuti materiali e finanziari necessari ad avviare la ricostruzione di Varsavia, era che quest’ultima venisse ricostruita nelle sua qualità di città-capitale: «potrete ricostruire Varsavia nel più breve tempo possibile solamente alla condizione che, così come è adesso, diventerà la sede del governo provvisorio e di tutte le agenzie statali centrali»[5].

Nonostante le incertezze, il ruolo di Varsavia come capitale di stato venne riconosciuto in una mozione del KRN (il Consiglio nazionale di Stato, creato nel 1944 su iniziativa del Partito operaio polacco come primo organo direzionale della Polonia postbellica) nella seduta del 3 gennaio 1945 [6]. In tale documento si legge che

il Consiglio nazionale di stato vede in Varsavia la capitale dello stato polacco indipendente. Le rovine di Varsavia sono il simbolo della lotta inflessibile del popolo polacco per la libertà e la democrazia, lotta che ha accompagnato la capitale nel corso di tutte le insurrezioni, della difesa del 1939 e dell’occupazione nazista [...]. Il Consiglio nazionale di stato ritiene che la ricostruzione di Varsavia sia uno dei compiti essenziali dello stato nell’opera di ricostruzione del paese.

Non appena la città venne liberata dalla truppe tedesche, il 21 gennaio 1945, a Lublino si svolse una “drammatica” seduta del Consiglio dei ministri che durò fino a notte fonda, nella quale – come ricordò anni dopo Leon Chajn, all’epoca vice-ministro della Giustizia – il futuro ruolo di Varsavia venne animatamente discusso. La maggior parte dei ministri era contraria a trasferirvi gli organi di potere; si preferivano la vicina Lodz, o anche l’antica capitale Cracovia, risparmiata dalla guerra. Bierut, allora a capo del Consiglio nazionale di Stato, manifestò le proprie perplessità sul fatto che Varsavia, città il cui centro era stato sostanzialmente raso al suolo dai nazisti e in cui le vie di comunicazione erano distrutte o minate, fosse materialmente in grado di accogliere da subito la sede del governo provvisorio.

Varsavia è stata vittima della furia selvaggia dei tedeschi. Nonostante le terribili distruzioni non rinunceremo a Varsavia quale capitale dello stato. Ma nel momento in cui ci insedieremo, dovremo esercitare uno sforzo colossale per garantire alla città le più elementari condizioni di vita. Bisogna ricordare che le vie di comunicazione sono state completamente distrutte [...] Nelle attuali condizioni, sarà opportuno [trasferire] la sede del governo a Varsavia? Piuttosto, sarebbe più giusto, lasciando che nella nostra risoluzione Varsavia venga trattata ugualmente come capitale, portare temporaneamente la sede del governo a Lodz, la città posta al centro del paese più vicina a Varsavia [7].

Lodz, d’altronde, era stata relativamente poco danneggiata dai combattimenti. Inoltre, la città, nota come la Manchester polacca, aveva una popolazione prevalentemente operaia. Come alcuni fecero allora notare, era «un importante centro telefonico, telegrafico e postale», e soprattutto era una città «in cui i tedeschi avevano costruito alcuni quartieri, [...] dove esisteva [quindi] una serie di edifici in grado di ospitare la sede del governo» [8]. Secondo il ministro Rzymowski, inoltre, la scelta di lasciare il governo a Varsavia sarebbe stata dettata, in parte, anche da motivi affettivi, cosa che era da ritenersi inammissibile, dato che gli obblighi (politici) nei confronti del paese avrebbero dovuto prevalere su quelli (sentimentali) nei confronti di Varsavia [9].

Non mancarono tuttavia, le voci a favore di Varsavia. Trasferire altrove il governo, anche solo temporaneamente come si voleva fare, non era certo il modo migliore per creare le condizioni necessarie ad affrontare la complicata opera di ricostruzione. Alla fine la proposta di Bierut fu tesa a salvaguardare, perlomeno in maniera formale, il ruolo istituzionale di Varsavia:

Varsavia dovrebbe essere la capitale, ma concretamente in che modo dobbiamo realizzare questo intendimento? Dovremmo, in tutte le maniere e in tutte le occasioni, sottolineare il carattere di capitale di Varsavia. A tal fine poporrei di tenere la prossima seduta del consiglio dei Ministri a Varsavia. Tuttavia, in relazione alle condizioni tecniche, la nostra sede deve essere posta da qualche altra parte [10].

Nella seduta successiva, tenutasi il 25 gennaio, Bierut presentò al Consiglio dei ministri il resoconto riguardante la visita-lampo da lui effettuata a Mosca, assieme a Edward Osobka-Morawski, presidente del Consiglio. La questione principale del colloquio avuto con Stalin fu proprio il futuro di Varsavia, che venne definitivamente delineato:

Lo scopo del nostro viaggio a Mosca era [discutere] la questione di Varsavia [...], si trattava di capire se esistevano le condizioni nelle quali avremmo potuto giungere a una rapida ricostruzione della città in qualità di capitale del paese, e su quale aiuto avremmo in tal caso potuto contare da parte dell’Unione sovietica, nostra amica e alleata. Relativamente alla ricostruzione abbiamo ottenuto la più completa unanimità, nel senso che il colonnello Stalin è dell’opinione che Varsavia debba essere ricostruita il prima possibile [...]. Ciò ci pone di fronte al fatto che Varsavia sarà la sede del governo. Assieme al premier siamo quindi giunti alla conclusione che dovremmo tutti ritrovarci il prima possibile a Varsavia, per assicurare con la nostra presenza e la nostra influenza la pià rapida ricostruzione della capitale [11].

La questione non era sicuramente di secondo piano per i membri del governo provvisorio, che era in vita grazie all’appoggio fornito dall’Unione Sovietica e che era stato riconosciuto solo dalla Yugoslavia, dalla Cecoslovacchia e dall’URSS stessa. A Londra, inoltre, era attivo il governo in esilio, che si riteneva l’unico legittimo governo polacco e che poteva contare sull’appoggio degli USA e dell’Inghilterra. In questo contesto di legittimità molto fragile il governo provvisorio filo-sovietico doveva in qualche modo assicurarsi un minimo di consenso da parte della popolazione. E Varsavia, dopo le sofferenze patite negli anni dell’occupazione nazista, possedeva un valore simbolico enorme.

Anche per Stalin il futuro della città era molto importante, al punto che nella visita successiva dei delegati polacchi a Mosca si discusse nuovamente di Varsavia, in un momento in cui i tre grandi si erano appena ritrovati a Yalta per parlare del futuro del mondo e di un aspetto di importanza essenziale per la nuova Polonia, ovvero la sua configurazione territoriale. Come venne comunicato nella seduta del Consiglio dei ministri del 22 febbraio 1945, in questa seconda visita fu ottenuta la promessa che la ricostruzione di Varsavia, la capitale dello Stato polacco, sarebbe stata per metà finanziata dall’Unione Sovietica [12].

La volontà di Stalin, ad ogni modo, era conforme al desiderio della nazione polacca. La maggior parte della popolazione civile di Varsavia che era stata costretta, su ordine dei nazisti, ad abbandonare la città in seguito all’insurrezione del 1944, vi fece ritorno all’indomani della Liberazione [13], nonostante la durezza delle condizioni di vita, la carenza di abitazioni agibili, la mancanza di cibo e di acqua potabile. Coloro che fecero ritorno trovarono una città in ginocchio, come si evince chiaramente dalle stime dei danni presentate in occasione della VII seduta del KRN, tenutasi nel maggio del 1945:

a soffrire maggiormente è il centro, dove la percentuale di abitazioni completamente distrutte arriva al 60,08%, e la quantità di quelle salvate a solo il 15,33%. Al secondo posto si trovano il quartiere occidentale con dei valori, rispettivamente, del 65,76% e del 16,86%, e quindi quello settentrionale, con il 44,79% di case ditrutte e il 36,92 di case salvate. Le condizioni migliori sono quelle della parte meridionale, dove la perdita di edifici si attesta al 37,29%, e la quantità degli edifici superstiti arriva al 41,03% [14].

L’intera nazione ricostruisce la propria capitale

Il decreto di ricostruzione della città di Varsavia (dekret o odbudowie m. st. Warszawy) del 28 febbraio 1945 segnò l’avvio ufficiale dell’immensa opera. Con esso vennero istituiti gli organi che si sarebbero occupati della ricostruzione. Venne costituito il Consiglio superiore per la ricostruzione di Varsavia (NROW, Naczelna rada odbudowy Warszawy), il cui scopo principale era quello di «mobilizzare le risorse spirituali e materiali dell’intero paese per l’opera di ricostruzione della capitale» [15]. Il Comitato per la ricostruzione della capitale (Komytet odbudowy stolicy), aveva invece un ruolo di coordinamento e di controllo dell’opera di ricostruzione, mentre le attività di progettazione e di realizzazione vennero affidate all’Ufficio per la ricostruzione della capitale (BOS, Biuro odbudowy stolicy).

Successivamente, venne attivato, all’interno del NROW, anche un Ufficio per la propaganda, cui venne assegnato il compito di comunicare alla popolazione i numerosi aspetti legati alla rinascita di Varsavia. Fu il NROW a ideare lo slogan «l’intera nazione ricostruisce la propria capitale» che venne scolpito sulla facciata di uno dei palazzi del centro. Ci si rendeva infatti conto, come si legge nelle circolari del suddetto ufficio, che la ricostruzione poteva essere portata a termine

solo quando l’importanza di tale questione sarà stata capita da ogni cittadino polacco [...]. Il clima emozionale per questo grande compito indubbiamente esiste nella società polacca. Infatti non vi è polacco che non ami intensamente la propria capitale [...]. Varsavia, inoltre, è sulla bocca dell’intera Polonia. La ricostruzione viene raccontata dalla stampa, la si sente alla radio, se ne vedono i progressi al cinema [16].

Il problema della ricostruzione costituì, infatti, un argomento di costante dibattito sulla stampa dell’epoca e produsse una pubblicistica le cui dimensioni sono la migliore testimonianza della portata, anche popolare, della questione [17].

Fin da subito si cercò di far sì che l’intera nazione contribuisse alla ricostruzione del proprio centro politico, economico e culturale più importante, attraverso iniziative di vario genere. La popolazione fu così “invitata” a prestare il proprio servizio «per la realizzazione di lavori [...] direttamente o indirettamente necessari a far ritornare la capitale al suo antico splendore e per innalzarla al livello che compete alla grandezza della rinata repubblica democratica», come venne sancito dal decreto sull’obbligo generale del servizio personale nell’opera di ricostruzione della capitale del 12 marzo 1945, che rese possibile l’impiego di squadre di “volontari” nelle prime operazioni della ricostruzione, ovvero l’abbattimento degli edifici pericolanti, la parziale rimozione delle macerie, la raccolta di materiale edilizio [18].

Nel biennio 1945-46 venne organizzata una attività di pubblicizzazione che portò la questione di Varsavia anche all’estero: in America la mostra Warsaw accuses (che toccò anche la Francia e l’Inghilterra) venne inaugurata con i discorsi di eminenti personalità quali Walter Gropius e Lewis Mumford; in Inghilterra il Congresso urbanistico di Hastings vide la partecipazione dei vertici dell’Ufficio per la ricostruzione; in Francia vennero mobilitati gli aiuti della popolazione di origine polacca emigrata prima della guerra; in Svezia venne costituito un Comitato svedese per la ricostruzione di Varsavia, con a capo il sindaco di Stoccolma [19].

Anche da un punto di vista della posizione geografica la rinascita della capitale non mancò di porre dei problemi. A causa del cambiamento dei confini dello Stato polacco Varsavia non si trovava più al centro dello Stato (e delle sue vie di comunicazione), ma piuttosto spostata a oriente: bisognava quindi ripensare tutte le vie di comunicazione, mentre quelle dirette verso i bacini carboniferi della Slesia, tolti alla Germania, dovevano essere realizzate ex-novo. Inoltre, l’eccentricità geografica di Varsavia poteva anche significare l’abbandono del modello di sviluppo centralistico che era stato perseguito nel ventennio interbellico quando, con il recupero dell’indipendenza nazionale, la capitale era ridiventata, in modo sorprendentemente rapido, l’indiscusso centro direzionale e culturale dello Stato [20]. In questa ottica si valutò anche l’ipotesi, subito però scartata, di far rinascere Varsavia come una sorta di Washington polacca, ovvero una capitale amministrativa dalle dimensioni demografiche ed economiche ridotte.

Centralizzazione o decentramento erano quindi delle strategie di sviluppo territoriale cariche di una potente valenza simbolica che emerse nella maniera più emblematica nella ricostruzione del patrimonio architettonico di Varsavia in quanto espressione dello spirito di un’intera nazione. Oltre a ciò, la necessità di reinsediare milioni di persone provenienti dalle regioni orientali, passate a far parte dell’URSS, nelle terre occidentali riconquistate a scapito della Germania [21], poneva delle questioni di tipo culturale che non potevano che essere molto sentite nella Polonia appena uscita dalla traumatica esperienza dell’occupazione nazista.

Nel marzo del 1946 il ministro per la Ricostruzione, Michal Kaczorowski, in un discorso tenuto in occasione dell’incontro del TUP, la Compagnia degli urbanisti polacchi, descrisse il problema nei seguenti termini:

un elemento centrale che caratterizza la vita della Polonia nei primi anni del dopoguerra è lo spostamento di enormi masse di popolazione verso Ovest, è l’inserimento di tale popolazione in un sistema di insediamenti costruiti secondo i bisogni di una cultura [quella tedesca] che ci è nemica. [...]. In queste condizioni ho cercato con perseveranza dei punti fermi capaci di stabilizzare gli elementi essenziali della nostra cultura e di opporsi agli influssi dei relitti tedeschi. Ho riconosciuto uno di questo punti in Varsavia, in qualità di capitale culturale della Polonia [22].

Fu, però, a livello economico, che la centralità di Varsavia, nel quadro della ricostruzione del paese, emerse nella maniera più evidente. Nel 1945 e nel primo quadrimestre del 1946, Varsavia assorbì il 66% del totale delle spese di ricostruzione dell’intero paese (le altre città assieme coprirono il 19% del totale); nel secondo e terzo quadrimestre del ’46 la percentuale scese al 42% (altre città 28%) e fu solo nel 1947 che la capitale cominciò ad avere un peso minore rispetto alle spese per la ricostruzione di tutte le altre città polacche messe assieme (29% Varsavia e 53% le altre città)[23]. La capitale, da un punto di vista economico, venne quindi trattata in maniera privilegiata, data la scarsità delle risorse finanziarie disponibili e le condizioni in cui si trovavano molte altre città, e aree rurali, della Polonia, uno degli Stati che ebbe maggiormente a soffrire le devastazioni della seconda guerra mondiale.

La ricostruzione della capitale: dalla città-regione alla città monocentrica

Nel contesto della rivoluzione politico-sociale generata dalla guerra, che aveva cancellato le vecchie élite culturali e di potere creandone al contempo di nuove, la ricostruzione fu inizialmente portata avanti come un’azione di modernizzazione urbanistica rivoluzionaria. A dirigerla vennero chiamati quegli architetti e quegli urbanisti che nel ventennio interbellico gravitavano attorno al mondo delle avanguardie funzionaliste e costruttiviste europee, personalità politicamente schierate che durante l’occupazione nazista avevano continuato a progettare la modernizzazione / ricostruzione di Varsavia nei loro laboratori clandestini. Grazie, quindi, all’appoggio delle autorità governative, gli architetti che dirigevano l’Ufficio per la ricostruzione della capitale decisero di ricostruire Varsavia applicando la lezione funzionalista, che era stata da loro esplorata fin dagli anni Trenta [24]. Essi lanciarono un’opera di ricostruzione volta prima di tutto alla modernizzazione della città, che venne fatta rinascere come un complesso funzionale di quartieri di diversa natura (residenziali, commerciali, industriali), dove le aree residenziali e quelle produttive sarebbero state contigue, ma separate da ampie fasce verdi di isolamento. A sostegno dei loro piani [25], i vertici dell’Ufficio per la ricostruzione poterono portare i materiali da loro stessi elaborati nei laboratori clandestini durante l’occupazione, soprattutto a partire dal ’44, quando divenne evidente che Varsavia avrebbe dovuto essere ricostruita nella sua totalità. Facendo ciò, gli architetti e gli urbanisti varsaviani tracciarono una linea di continuità diretta tra la ricostruzione di Varsavia e le teorizzazioni delle avanguardie europee degli anni Trenta. Due furono, a questo proposito, i documenti di riferimento: la Carta di Atene [26], il manifesto dell’urbanistica moderna alla cui stesura alcuni degli architetti polacchi impegnati nella ricostruzione avevano partecipato attivamente, e il progetto intitolato Varsavia funzionale [27], presentato da Szymon Syrkus e Jan Chmielewski ai Congressi internazionali di architettura moderna (CIAM) nel 1934, nel quale veniva proposta un’evoluzione della capitale polacca secondo lo schema della città-regione.

Questo progetto, per quanto calibrato sulle specificità della regione di Varsavia, in linea generale anticipò molte delle linee di sviluppo dell’urbanistica dei decenni successivi. Proponeva, infatti, il superamento della differenziazione città-campagna attraverso la pianificazione di una crescita integrata delle aree rurali e di quelle urbane, secondo delle prospettive di sviluppo molto vicine a quelle che il pensiero socialista aveva cominciato a esaminare già nel XIX secolo, ben prima che la Rivoluzione d’ottobre riaccendesse il dibattito sulle forme dell’insediamento socialista .

Come venne dichiarato dal direttore del BOS in occasione della VII seduta del Consiglio nazionale di Stato, tenutasi nel maggio del 1945,

nella configurazione moderna della città, l’antica correlazione tra l’idea stessa di città e i suoi confini amministrativi perde di significato. Essa deve lasciare il posto ad una nuova concezione […] della città quale complesso di aree specializzate. Per questo motivo a Varsavia introdurremo, accanto alla concezione di nucleo urbano [centrale], anche la concezione di conurbazione varsaviana. [...] Nel caso di Varsavia prevediamo che il gruppo dei quartieri centrali occuperà una superficie di circa 13.000 ettari [...], mentre la superficie dell’intera città-regione sarà di circa 1.700 kmq. [...] La popolazione del polo centrale sarà di circa 1.200.000 abitanti; 800.000 persone, invece, vivranno nelle restanti aree della conurbazione [28].

Si voleva, in sostanza, connettere Varsavia con le cittadine limitrofe, creando un sistema integrato e funzionalmente specializzato che abbracciasse la capitale e i territori circostanti compresi in un raggio di una cinquantina di chilometri. A tal proposito, come dichiarò il sindaco Tolwinski [29] nella medesima seduta del Consiglio di Stato, si cercò subito di predisporre, peraltro senza successo, un decreto per l’allargamento dei confini amministrativi e l’istituzione di un voivodato [30] varsaviano che includesse anche le aree suburbane.
Il modello della città regione trovò concorde anche altri organi statali – in seguito, tale omogeneità di vedute non si sarebbe più riscontrata [31] – come il ministero per la Ricostruzione, quando il ministro stesso, Kaczorowski, dichiarò presso la Commissione per la ricostruzione del Consiglio nazionale di Stato:

oggi noi vogliamo realizzare il famoso postulato di Ebenezer Howard: sposare la città con la campagna, diminuire la distanza culturale tra la raffinata vita metropolitana e la primitiva esistenza del contadino, disperdere le industrie, creare una rete di vivi centri [...], evitare di accentrare tutto nella capitale [32].

Il decreto del 26 ottobre 1945 [33] sulla proprietà e l’utilizzo dei suoli urbani, conferì la proprietà dei terreni che si trovavano nell’area urbana delimitata dai confini del 1939 alla municipalità, mentre gli edifici e gli altri oggetti rimanevano in possesso dei legittimi titolari. La comunalizzazione dei suoli, pur scontrandosi inevitabilmente con gli interessi dei privati, consentì la realizzazione di notevoli miglioramenti strutturali rispetto alla Varsavia d’anteguerra: le aree centrali, un tempo intensamente edificate, vennero sostanzialmente risanate, mentre la rete stradale venne razionalizzata, pur rimanendo fedele, anche dopo l’allargamento delle arterie principali, ai tracciati d’anteguerra.

Nel cuore di una Varsavia che si stava facendo rinascere come una città spiccatamente funzionalista, l’area medievale della Città vecchia venne ricostruita fedelmente, perché giudicata uno degli esempi più alti di manifestazione della cultura polacca a cui non era possibile rinunciare. La ricostruzione di Varsavia era anche, infatti, l’orgogliosa ricostruzione della tradizione nazionale [34].

La fase rivoluzionaria della ricostruzione non durò, tuttavia, a lungo. Nel dicembre del 1948 durante il congresso di fondazione del Partito operaio unificato polacco (PZPR), Bierut, già presidente della Repubblica, venne nominato anche segretario del Partito. Per la Polonia ebbe inizio una nuova fase politica, lo stalinismo polacco, che ebbe delle conseguenze dirette e immediate anche sull’opera di ricostruzione della capitale.

A seguito della conferenza del Partito operaio polacco unificato del giugno 1949 [35], l’attività di progettazione architettonica e l’urbanistica vennero messe al completo servizio dell’ideologia, nel senso che furono vincolate ai principi ideologici del marxismo-stalinismo: conseguentemente, la ricostruzione della capitale venne concepita come un’operazione ideologica. D’ora in avanti sarebbero stati i vertici politici del Partito a guidarla, non più gli architetti o gli urbanisti, secondo quanto enunciato da Edmund Goldzamt, il teorico del realismo socialista polacco, formatosi a Mosca presso l’Istituto di architettura [36]. L’esempio da seguire divenne il piano di ricostruzione di Mosca di Semenov e Cernyšev del 1935 [37], in base al quale, sotto l’egida di Stalin, la capitale sovietica era stata completamente ristrutturata secondo i canoni del realismo socialista, la nuova dottrina estetica neo-classicista che aveva sostituito le tendenze moderniste sviluppatesi nella Mosca di Lenin degli anni Venti [38].

Nelle relazioni di Goldzmant, presentate ai vertici del Partito nello stesso anno, gli «influssi disurbanizzanti delle tendenze urbanistiche anglossassoni» e «lo schematismo delle dottrine urbanistiche lecorbusierane» vennero solennemente condannati, come era già stato fatto a Mosca negli anni Trenta. Sempre nelle stesse relazioni si legge:

noi non vogliamo spingere l’industria al di fuori della città, anche se lì le condizioni di sviluppo sarebbero le più adeguate e le più favorevoli [...] Gli operai non dovrebbero ritrovarsi nella periferia della vita della capitale. I grandi impianti industriali devono essere invece uno degli elementi basilari del paesaggio della capitale anche nei suoi quartieri centrali [39].

Di conseguenza l’industrializzazione venne rilanciata in maniera massiccia. Tale processo, che comportava l’espansione numerica delle masse operaie residenti in città, avrebbe avuto anche una precisa valenza ideologica, quella di far rivivere la città operaia d’anteguerra e di contrastare il costante aumento degli impiegati e dei burocrati, la categoria professionale in più rapida ascesa nella Varsavia dei primi anni del secondo dopoguerra.

Nel 1949 Bierut pose la propria firma in calce al Piano sessennale di ricostruzione della capitale [40], presentando ai propri concittadini le linee-guida di una modernizzazione socialista che, rifiutando la concezione del decentramento delle funzioni e degli insediamenti, avrebbe dovuto creare una città che fosse un centro di grande dimensioni demografiche ed economiche. I piani per la creazione della città-regione di Varsavia – nei quali il decentramento funzionale e amministrativo avrebbero dovuto legare la città alla regione circostante secondo i progetti che Chmielewski stava elaborando nell’Ufficio generale per la pianificazione territoriale (GUPP) dal 1945, secondo delle linee abbastanza simili a quelle utilizzate in Inghilterra nella costruzione delle New Towns e nell’implementazione del piano per la Grater London [41] – vennero abbandonati dopo la svolta del 1948, dal momento che Varsavia doveva diventare un grande centro urbano socialista, non una città-regione funzionale.

In tale ottica, nel 1951, l’ampliamento della superficie amministrativa di quasi quattro volte, realizzato su iniziativa del Consiglio dei ministri [42], era collegato alla definizione dei nuovi ruoli che città e campagna avrebbero giocato nel processo di industrializzazione socialista. Il Partito operaio polacco unificato stabilì, in maniera del tutto simile a quanto già fatto dal PCUS nei primi anni Trenta [43], che l’estensione dell’industria pesante avrebbe inevitabilmente causato la crescita di Varsavia. La proposta degli urbanisti funzionalisti di disperdere i complessi industriali nella regione circostante venne ritenuta inadeguata, se non impossibile, a causa delle dimensioni, giganti, di tali strutture produttive [44].

Oltre che un grande centro di produzione industriale, la capitale polacca doveva diventare, come era già accaduto per Mosca, una città socialista monocentrica, capace di infondere nei suoi abitanti la nuova sensibilità dell’uomo nuovo socialista, diffondendo nel paese intero i nuovi modelli di vita e i nuovi valori. In questa nuova prospettiva di sviluppo la centralità della capitale all’interno dello stato doveva essere rinvigorita. Le piazze e le arterie centrali di Varsavia [45] vennero appositamente ridisegnate in modo tale da rendere visibili i luoghi e le sedi dei nuovi centri di potere, connettendoli in un percorso lungo il quale le masse proletarie avrebbero potuto sfilare durante le più solenni occasioni di celebrazione. In un periodo in cui l’urbanistica divenne «ingegneria delle anime»[46], si volle fissare, non senza una certa dose di determinismo ambientale, come ha giustamente scritto l’inglese David Crowley, docente di storia del design al Royal College of Art di Londra, «un reticolato che propagasse l’elettricità ideologica attraverso la città» [47] e, conseguentemente, nel resto del paese.

Note

[1] Vedi K. Morawski, Warszawa. Dzeje miasta (Storia di Varsavia), Warszawa, Trio, 2003.

[2] Memorial Ludwiga Fischera z poczatku 1944 r. w sprawie Warszawy (Il memoriale di Ludwig Fischer sulla questione di Varsavia), Warszawa, 1960, I: 314-15, cit. in K. Dunin-Wasowicz, Warszawa w latach 1939-1945 (Varsavia negli anni 1939-1945), Warszawa, PWN, 1984

[3] Max du Prel, Das General-Gouvernement, Würzburg, 1942, 333.

[4] J. Gorski, Warszawa w latach 1944-1949: odbudowa. Wybor dokumentow i materialow (Varsavia negli anni 1944-49. documenti e materiali scelti), Warszawa, 1977, 82-83.

[5] W. Gomulka, Pamietniki, Warszawa, 1994, II: 502-503.

[6] Sprawozdanie stenograficzne z posiedzenia KRN (Sesja VI) w dniu 31 XII 1944 oraz 2-3 I 1945 r., lam. 136-38 (1946).

[7] Archiwum Akt Nowych (d’ora in avanti AAN), Urzad Rady Ministrow (Segreteria del Consiglio dei ministri, URM), 5/1097, Protokol posiedzen Rady Ministrow z dnia 21.I. 1945 (Protocollo della seduta del Consiglio dei ministri del 21.01.1945), k. 2.

[8] Ivi, k. 35.

[9] Ibidem. Considerazioni simili vennero espresse, grossomodo nello stesso periodo, anche da alcuni esponenti radicali del Towarzystwo Urbanistow Polskich w Zjednoczonym Krolestwie (Associazione degli urbanisti polacchi nel Regno Unito), come Zbigniew Dmochowski e Witold Klebowski, che, quando la seconda guerra mondiale non era ancora finita, si chiedevano se fosse giusto ricostruire Varsavia, o se non fosse piuttosto la ricostruzione una scelta errata, fatta in nome del sentimento.

[10] Ivi, k. 36.

[11] Ivi, Protokol posiedzen Rady Ministrow z dnia 25.I.1945 r. (Protocollo della seduta del Consiglio dei ministri del 25.01.1945), k. 38.

[12] Ivi, Protokol posiedzen Rady Ministrow z dnia z dnia 22.II.1945 r. (Protocollo della seduta del Consiglio dei ministri del 22.02.1945), k. 84.

[13] Nel maggio del 1946 il numero degli abitanti aveva già superato il mezzo milione, mentre nel gennaio del 1945 a Varsavia erano rimasti solo 150.000 persone.

[14] Referat kierownika BOS, R. Piotrowskiego, o stratach oraz programie i kolejnosci prac, in Sprawozdanie stenograficzne z posiedzen Krajowej Rady Narodowej (Sesja VII) w dniach 3,4,5,6 V 1945 r., lam 241-283 (1946).

[15] Dekret z dnia 28 lutego 1945 r. o odbudowie m. st. Warszawy (Decreto sulla ricostruzione di Varsavia), «Dziennik Ustaw Rzeczypospolitej polskiej» (d’ora in avanti DURP), n. 21, poz. 124 (1945).

[16] AAN, URM, Odbudowa Warszawy (La ricostruzione di Varsavia), 5/430, k. 70.

[17] A scrivere sulla ricostruzione furono tutti i giornali della capitale, ovvero «Zycie Warszawy», «Rzeczpospolita», «Glos Ludu», «Robotnik», «Gazeta Ludowa», «Kurier Codziennie», «Dziennik Ludowy», «Express Wieczorny», «Wieczor», oltre alle riviste specialistiche di architettura e di urbanistica. La rivista «Skarpa Warszawska», invece, trattava esclusivamente dei problemi riguardanti l’opera di ricostruzione della città.

[18] Dekret o powszechnym obowiazku swiadczen osobistych na rzecz odbudowy m. st. Warszawyn (Decreto sull’obbligo generale del servizio personale nell’opera di ricostruzione della capitale), «DURP» n. 8, poz. 39, (1945).

[19] AAN, URM, Odbudowa Warszawy, 5/430, k. 74.

[20] Si veda S. Rychlinski, Warszawa jako stolica Polski (Varsavia capitale della Polonia), Warszawa, 1936.

[21] Cfr. C. Tonini, I movimenti di popolazione nella Polonia del dopoguerra: 1944-1948, «Rivista di storia contemporanea», 4 (1987).

[22] M. Kaczorowski, Mobilizacja sil dla odbudowy kraju. Przemowienie ministra Odbudowy na zebraniu Towarzystwa Urbanistow Polskich dnia 6.III.1946 r (La mobilitazione delle forze per la ricostruzione del paese. Discorso del ministro per la Ricostruzione in occasione della riunione della Compagnia degli urbanisti polacchi del 6.3.1946), p. 1, «Skarpa Warszawska», 11 (1946), 1-2.

[23] B. Domoslawski, Organizacja i wyniki odbudowy w latach 1944-48 (L’organizzazione e i risultati della ricostruzione negli anni 1944-8), Warszawa, 1967, 172.

[24] O. Czernier, H. Listowski, Avant-garde polanaise. Urbanisme, architecture, Paris-Wroclaw, Moniteur-Interpress, 1981.

[25] Si fa riferimento al progetto di piano regolatore presentato al Consiglio nazionale di Stato nel maggio del 1945 e al piano di ricostruzione di Varsavia terminato dal BOS nel febbraio del 1946.

[26] Le Corbusier, La Carta di Atene, Milano, Comunità, 1960 (ed. or.: La Charte d’Athènes, Paris, 1943).

[27] J. Chmielewski, S. Szyrkus, Warszawa funkcjonalna (Varsavia funzionale), Warszawa, 1934.

[28] Sprawozdanie stenograficze z posiedzen Krajowej rady narodowej (Sesja VII) w dniach 3-6 V 1945 r. (Dichiarazioni stenografiche dalle sedute del Consiglio nazionale di Stato), lam. 241-83 (1946).

[29] Ivi, lam. 65-7

[30] Unità amministrativa polacca dalle dimensioni paragonabili a quelle di una provincia italiana.

[31] Fin dal 1946, infatti, il ministero per l’Industria dichiarò che l’apparato industriale varsaviese non sarebbe stato costruito ex-novo, ma piuttosto sarebbe stato ricostruito. Si voleva far rinascere la grande città industriale che Varsavia era stata prima del 1939.

[32] Referat ministra Odbudowa, M. Kaczorowskiego, wygloszony na posiedzeniu Komisji dbudowy KRN na temat projektu dekretu o wlasnosci gruntowej i uzytkowaniu gruntow na obsarze m. st. Warszawy (Relazione del ministro per la Ricostruzione presentata alla commissione per la ricostruzione del KRN), AAN, Dzial prac parlamentarnych, Komisja odbudowy 18.

[33] Dekret o wlasnosci i uzytkowaniu gruntow na obszarze m.st. Warszawy (Decreto sulla proprietà e l’utilizzo dei suoli nell’area della città di Varsavia), «DURP», n. 50, poz. 279, (1945).

[34] Odbudowa tradycji (La ricostruzione della tradizione), «Skarpa Warszawska», 15 (1946), 1.

[35] A. Basista, Betonowe dziedzictwo. Architektura w Polsce czasow komunizmu (L’eredità di cemento armato. l’architettura nella Polonia comunista), Krakow-Warszawa, PWN, 2001.

[36] Nel corso del suo soggiorno moscovita, sponsorizzato dal ministero degli Esteri polacco, Goldzamt si diplomò con un lavoro intitolato Varšava-projekt rekonstrukcij.

[37] A. Latour, Mosca 1890-1991, Milano, Zanichelli, 1992.

[38] Vedi G. Spendel, La Mosca degli anni Venti: sogni e utopie di una generazione, Roma, Editori riuniti, 1999.

[39] Tali relazioni vennero inserite nella pubblicazione O polska architekture socjalistyczna (Sull’architettura socialista polacca), Warszawa, 1950, 214.

[40] B. Bierut, Szescioletni plan odbudowy Warszawy (Il piano sessennalee di ricostruzione della capitale), Warszawa, Ksiazka i Wiedza, 1950.

[41] D. Calabi, Storia dell’urbanistica europea, Milano, Bruno Mondadori, 2004.

[42] Rozporzadzenie Rady Ministrow z dnia 5 maja 1951 w sprawie zmiany granic miasta stolecznego Warszawy (Decreto del Consiglio dei ministri del 5 maggio 1951 sul cambiamento dei confini amministrativi di Varsavioa), «DURP», n. 27, poz. 199 (1951).

[43] Si veda KPSS v rezolucijach i rešenijach s jezdov, konferencij i plenumov CK, t. II, Moskva, Gospolitizdat, 1953.

[44] Si veda O polska architekture socjalistyczna cit.

[45] E. Szwankowski, Ulice i place Warszawy (Le vie e le piazze di Varsavia), Warszawa, 1963.

[46] W. Tomasik, Inzynieria dusz: literatura realizmu socjalistycznego w planie "propagandy monumentalnej” (L’ingegneria delle anime: la letteratura del realismo socialista nei piani di propaganda monumentale), Wroclaw, FNP, 1999.

[47] D. Crowley, Warsaw, London, Reaktion Books, 2003, 32.