Storicamente. Laboratorio di storia
Persistenze e cambiamento

Se il movimento dei lavoratori fosse un prodotto specifico del sistema di fabbrica, sarebbe scusabile ignorare il periodo antecedente al suo sviluppo. Ma poiché esso venne iniziato dagli artigiani, lavoratori impegnati in attività con una storia lunga e ricca, l’ignorare il periodo pre-industriale può avere soltanto effetti perniciosi (Sewell, Lavoro e rivoluzione in Francia, 10).

La nascita del movimento dei lavoratori, ma anche qualsiasi altro avvenimento storico, non è più visto come un qualcosa di estemporaneo e privo di radici storiche, ma ora è inserito in un percorso sociale, economico, politico e culturale; tentando di mettere in evidenza le conseguenze che esso produce a livello materiale e culturale nella vita dell’uomo. Se da un parte esso viene analizzato come prodotto di un fluido composito, in cui agiscono numerose forze sociali, dall’altra rappresenta la nascita di un qualcosa di nuovo. Dobbiamo sottolineare come entrambi i momenti non siano disgiunti tra loro, ma dialogano incessantemente assieme. Questa forma di dialogo si riflette nel rapporto che intercorre tra le “persistenze”, cioè tutto ciò che continua a rimanere nelle strutture mentali e nelle produzioni materiali dell’uomo, anche dopo fenomeni rivoluzionari o in generale di svolta sociale, ed il “cambiamento”, ciò che muta e che prima non si era affermato. «Pretendere che «ciò che segue» sia sempre una elaborazione o una estrapolazione di «ciò che precede» significa trascurare le discontinuità, e la dialettica di progressioni e regressioni nel processo sociale» (Thompson, Società patrizia e cultura plebea, 146). Questo aspetto lo ritroviamo anche in Agulhon, e in particolare nell’analisi del significato di repubblica democratica e sociale.

Il 1° marzo 1848, appena si diffuse la notizia dell’affermarsi del regime repubblicano, gli abitanti del villaggio in massa si riversarono sulla proprietà di campagna situata a qualche chilometro dal villaggio stesso, con l’intenzione di demolire il muro di cinta e sradicare gli alberi da frutto recentemente piantati; il fatto è che a guisa di anticipazioni ci si riteneva in diritto di recuperare l’utilizzazione della foresta prevedendo l’imminente proclamazione di un diritto, di cui ormai non si dubitava più, a beneficio della collettività comunale poiché – si diceva - «oggi siamo in Repubblica (La repubblica nel villaggio, 287).

Notiamo come queste azioni facciano parte di un universo mentale antico e consolidato all’interno della tradizione popolare. Esse tornano prepotentemente all’interno di quelle rivendicazioni, che solo in apparenza hanno lo scopo di riferirsi all’ideale repubblicano. Sopra questo sostrato tradizionale si sedimenterà la Repubblica, e solo una progressiva appropriazione dell’ideale repubblicano permetterà la nascita di comportamenti e sentimenti nuovi. In questo contesto di rivolgimenti socio-politici, vecchio e nuovo si intrecciano e dialogano.

La Buona Repubblica è la Repubblica vera, autentica. Il ragionamento implicito doveva essere pressappoco il seguente: la Repubblica ufficiale dei Cavigniac o dei Bonaparte non era la buona Repubblica (ne era d’altronde una Repubblica buona); la vera Repubblica doveva preoccuparsi del benessere dei poveri, del popolo, poiché essa si fondava su libere elezioni e sul suffragio universale e poiché i più poveri erano in numero infinitamente maggiore dei borghesi. Dunque la Repubblica doveva necessariamente comportare una buona maggioranza, buone leggi e il bene pubblico. […] Così la cosa «buona» serviva già ad indicare la cosa autentica e nello stesso tempo la cosa popolare e locale, in opposizione ad un’entità rivale, legata ad un tempo alla borghesia e al potere centrale (La repubblica nel villaggio, 287).