Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

I pellegrinaggi patriottici nell’talia liberale. Linguaggi e luoghi

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Abstract
The article aims to analyze the phenomenon of "secular pilgrimage", or the number of trips and parades that during the first fifty years of Italian unity, saw the places of memory as the protagonists of the Risorgimento as ossuaries, battlefields, monuments and tombs of the fathers of the fatherland. Although the number of "pilgrims lay" is not never approached the numbers involved from the far more deep-rooted traditions and religious organizations, from many sources found emerges as the involvement of patriots, the number of sponsoring organizations, the "places of worship" and anniversaries (official or not) they have been, as a whole, particularly significant. Necessary starting point to introduce the topic will be the examination of the element vocabulary, borrowed from the religious. The rest of the text will have as its purpose the creation of a map - on a national scale - of the places of pilgrimage divided according to the "utilities". Correspond to different destinations, in fact, different types of pilgrimage, mirrors the realities of liberal policies.

Il linguaggio

Il culto civile degli Eroi dell’Umanità, non meno di quello dei Santi della Chiesa, degenera in ipocrisia a misura che la fede sincera operosa s’intiepidisce nel cuore degli uomini. Il culto vero consiste nella imitazione degli esempi che ci lasciarono, nella continuazione del loro apostolato, nel compiere la Santa opera loro, interrotta dalla morte, sovrapponendole il coronamento con cui pensavano di darle fermezza e perfezione di forma [Caprera 1907, 1].

Queste parole – apparse in un opuscolo distribuito a ricordo del Quinto Pellegrinaggio Nazionale a Caprera il 4 luglio 1907 – possono introdurci allo spirito, alle simbologie e al linguaggio che accompagnarono gite e cortei patriottici lungo i luoghi della memoria risorgimentale durante il periodo liberale.

La definizione di “pellegrinaggio patriottico” fu utilizzata – congiuntamente da organizzatori e partecipanti – per definire un viaggio che, mosso da sentimenti di devozione alla Nazione, aveva come destinazione i luoghi in cui si morì per essa, le tombe dei suoi padri e gli ossari dei suoi martiri.[1] A questa pratica va aggiunta quella del “pellegrinaggio” a fini educativi, costituita da gite scolastiche promosse da istituti primari e secondari in quegli stessi luoghi. Si trattava, dunque, di una tipologia di escursionismo distante, concettualmente, dalle più classiche pratiche turistiche, estranea allo svago offerto dai luoghi di villeggiatura che anche in Italia si stavano aprendo al turismo borghese.

Caratterizzati da pratiche e rituali simbolici, i pellegrinaggi patriottici avevano, come destinazioni, mete oggi dimenticate ma che un tempo – quantomeno per i ristretti gruppi che percorsero le loro vie – si consideravano luoghi di culto non meno dei santuari per i credenti. A questo riguardo, l’analisi dell’elemento lessicale, mutuato anch’esso dalla sfera religiosa, può ritenersi utile alla comprensione dello spirito che mosse i visitatori sin dagli anni Sessanta dell’Ottocento. Caratterizzò, infatti, appellativi di eventi, programmi e relazioni ufficiali, espressioni della memorialistica privata e perfino di souvenir e brochure realizzati in ricordo delle celebrazioni istituzionali o delle escursioni patrocinate da associazioni di carattere patriottico. Benché nei più celebri dizionari (religiosi e non) dell’epoca, a fianco delle parole “pellegrinaggio”, “pellegrino”, “martire”, “santo” e “santuario” non compaia alcuna accezione di carattere laico, appare evidente come questa terminologia fosse entrata nell’uso comune dell’aneddotica di tali escursioni. Un esempio significativo compare nell’edizione del Dizionario della Lingua Italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini pubblicata nel 1865, dove all’espressione Fare pellegrinaggio si associa il solo atto di «visitare i luoghi santi» [Tommaseo e Bellini 1865, vol. VIII, 196] e a quello di Pellegrino, un ben più complesso richiamo di carattere esclusivamente religioso.

Per quanto le opere moderne oggi prevedano un significato estensivo di tali vocaboli, il patriota ucciso nell’atto di redimere la propria Nazione dal giogo dello straniero, all’epoca non rientrava tra le categorie proprie del martire religioso stilate nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastico da S. Pietro sino ai giorni nostri (1840-1861) e, anzi, ne viene perentoriamente escluso [Moroni 1848, 180-198]. Un utilizzo “improprio” del frasario è confermato dal Calendario della Chiesa cattolica, secondo il quale l’appellativo di Martiri d’Italia non appartiene ai caduti nelle guerre d’indipendenza nazionale ma a quei «fedelissimi servi di Gesù Cristo […] spietatamente trucidati verso l’anno 579 dai Longobardi» dopo essersi rifiutati di cedere ai culti pagani loro imposti [Moroni 1848, 193; Cappelli 1998, 176].

Spingendosi oltre, in questa rappresentazione metaforica le stesse mete acquisiscono, come s’è accennato, un valore mistico. Nell’interpretazione di coloro che presero parte alle comitive, le tombe dei patrioti e dei padri della Nazione, non meno di quelle dei santi per i cristiani, erano di fatto considerate «sacre», «venerande», «venerate» e «immacolate» [Siciliani 1902, 3-4; Il centenario 1904, 416], così come “sacri” erano ritenuti gli oggetti (“offerte votive”) depositati al loro cospetto[2]. Un discorso analogo è valido per gli ossari dei caduti, simbolicamente rappresentati come «santuari» o luoghi «benedetti», e gli stessi campi di battaglia in cui le «zolle sante sono bagnate dal sangue dei martiri» [Siciliani 1881, 1, 48; Del Grande 1881, 17; Brentari 1902, 329].

In quest’ambito, un discorso più approfondito merita Caprera che procurava ai visitatori vere e proprie esperienze mistiche. «Toccato terra la salutai, come il popolo d’Israello salutò la terra promessa» [Dolfi 1863, 136], scrive un pellegrino a ricordo di una visita al proprio eroe. Era una terra che a occhi disincantati appariva brulla, povera e ai limiti della civilizzazione ma che si trasformava, per effetto di un ideale, in «un’isola sacra», in un «paradiso terrestre» o, persino, in un’arcadia «rischiarata dal sorriso di Dio»[3] [Romussi 1892, 6; Cagnoni 1875, 92; Bettini 1892, 13]. Simili reazioni tuttavia non devono sorprendere, specie se messe a confronto con le rappresentazioni, all’interno degli stessi testi, del suo più illustre abitante, Garibaldi il quale, nel panorama di questa particolare aneddotica, ricopre il ruolo di protagonista assoluto. L’immagine e l’interpretazione che diedero di lui gli uomini e le donne che lo vollero incontrare personalmente, divergono sensibilmente da quelle di coloro che visitarono la sua tomba dopo il 1882. “Immortalato” in diverse occasioni come «apostolo» [Dolfi 1863, 136], l’accostamento più ricorrente da parte di chi gli fece visita sin dagli anni Sessanta dell’Ottocento, fu al «serafico San Francesco» ritiratosi nella vita eremitica [Pellegrinaggio Operai 1861, 10; Romussi 1892, 31; Toliverova 1993, 35]. La più alta consacrazione giunse a Garibaldi dopo la morte, quando fu addirittura assimilato a una divinità [Caprera 1907] o a un messia capace di illuminare le vite di coloro che vollero seguirlo:

Garibaldi è un tipo umano scomparso; egli è stato unico nella storia degli uomini […] Nessuno lo seguì, ne potrà seguirlo imitandolo. Tutti gli uomini, più o meno egoisti, che lo seguirono nelle imprese e gli furono d’aiuto, dopo la separazione dall’uomo grandioso, batterono le vie più comuni, e vi fu chi seppe giungere agli onori e alle ricchezze, e chi cadde nel delitto volgare. Senza Garibaldi cotesti uomini sarebbero restati nell’ombra; con lui rifulsero, illuminati della luce immensa che egli emanava e gettava su tutti [Terzo Pellegrinaggio 1897, 5].

Nell’ambito di un simile immaginario dalle chiare tinte mistiche, gite e cortei verso i luoghi della memoria risorgimentale si trasformarono agevolmente in pellegrinaggi ai quali, nei resoconti ufficiali o nella memorialistica privata, si accostarono aggettivi quali «pio», «pietoso», «devoto» [Del Grande 1881, 30; Emiliani 1882, 57; Siciliani 1881, introduzione], oltre al più classico appellativo di «patriottico» [Trasatti 1906], una terminologia che portò a definire gli stessi escursionisti, «apostoli dell’italianità», uomini «devoti al culto della patria» e «pellegrini mossi da santo scopo» [Abba 1909, 1; Ravenna a Garibaldi 1907, 1; Del Grande 1881, 15].

Nel panorama di questa particolare esperienza di viaggio, sono da segnalare le trepidanti attese e le atmosfere che caratterizzavano i tragitti, nonché le vere e proprie “sensazioni mistiche” provocate – in alcuni casi – dall’apparizione, in lontananza, di cimiteri, ossari e storiche dimore di patrioti. A questo proposito, lo sfoggio retorico (che spesso si accompagnava all’impatto emotivo) si mostra, in vari casi, del tutto simile a quello dedicato alla “visione” dei panorami italiani così consueto nell’aneddotica di viaggio, dai diari del Grand Tour sino alle guide turistiche ottocentesche [Brilli 2006].

Il linguaggio in questione è comparso in una fase storica in cui la retorica post-risorgimentale ha prodotto e istituzionalizzato una fitta rete di simboli e miti, all’interno della quale solamente alcune figure, e non altre, sono state santificate al culto della patria.

Già prima dell’unità, scrive Alberto Mario Banti, le analogie tra figure cristologiche ed eroi della narrativa nazionale apparivano piuttosto impressionanti [Banti 2000, 125]. Quali antecedenti vanno riconosciuti gli scritti pubblicati da Giuseppe Mazzini durante il suo esilio, nei quali egli adottò in modo ricorrente un frasario di derivazione religiosa in funzione di un ideale e di un dovere patriottico [Mazzini 1848; 1860 e 1861]. Il pensatore genovese fu tra i primi a legittimare tale linguaggio quando definì missione divina la redenzione nazionale. Partendo dagli assiomi che la Patria avesse assunto il simbolo di casa «donata da Dio», che Roma fosse considerata il «tempio della Nazione» [Mazzini 1848, 92, 93] e che l’unità nazionale fosse concepita come disegno divino [Mazzini 1860, 55], conseguenza diretta per Mazzini era la possibilità che chi, come i fratelli Bandiera, fosse morto in «una missione fidata da Dio, […] traditi da uomini e cose, nell’avvenire d’Italia» [Mazzini 1844, 91], potesse essere riconosciuto quale martire.

L’accostamento del termine ai due patrioti cosentini appare tra i primi esempi di una “acquisizione linguistica” che lentamente secolarizzò il termine. Se, infatti, solo dalla seconda metà degli anni Cinquanta il “canone risorgimentale” utilizzò in modo ricorrente le espressioni sin qui citate, nei testi del Mazzini esule le stesse appaiono di frequente con dieci anni d’anticipo.

Questa breve sintesi si è resa necessaria per argomentare e poter giustificare un termine – “pellegrinaggio” – utilizzato nella presente analisi per descrivere viaggi e cortei “lontani” dall’origine etimologica del termine.

I luoghi

Prima di definire le principali destinazioni e i rituali messi in atto dai partecipanti, occorre fare una precisazione. Dall’analisi delle fonti si può notare che il termine pellegrinaggio non veniva conferito a ogni esperienza di viaggio presso i luoghi della memoria risorgimentale. Inoltre, non tutte le destinazioni possedevano la stessa forza attrattiva e suscitavano le medesime emozioni. Vi furono destinazioni ciclicamente protagoniste di escursioni devozionali e siti in cui la testimonianza di un corteo patriottico compare nella sola occasione dell’inaugurazione di un obelisco, di un monumento o per la commemorazione dell’anniversario di una battaglia[4]. Alcuni luoghi si configurarono principalmente come tappe occasionali all’interno di percorsi che andavano alla scoperta di campi di battaglia e dei rispettivi ossari, per la prossimità a più celebri mete. Allo stesso modo, non tutte le tombe dei padri della patria o i luoghi a essi cari (come dimore private) furono oggetto di pellegrinaggi patriottici. Occorre aggiungere che, a differenti sentimenti politici, riflessi delle realtà pubbliche dell’Italia liberale, corrisposero mete diverse. Vi furono luoghi prettamente monarchici, altri prediletti dai reduci delle patrie battaglie, altri ancora da garibaldini e irredentisti. Tale suddivisione su base ideologica può essere un primo – per quanto sintetico – approccio all’individuazione e alla classificazione dei pellegrinaggi patriottici.

Se la longevità del fenomeno premia, senza ombra di dubbio, il pellegrinaggio religioso, quello laico – quantomeno in territorio italiano – sembra poter vantare un numero maggiore di mete, specie se rapportate a quelle ufficialmente riconosciute nello stesso periodo dai rigidi canoni della Chiesa. Quali, dunque, le principali destinazioni?

Iniziando l’analisi dai luoghi cari ai pellegrini di fede monarchica, non c’è dubbio che il Pantheon, in qualità di tomba di Vittorio Emanuele II e Umberto I, abbia rappresentato per essi il luogo devozionale per eccellenza. Costruito per volontà dell’Imperatore Adriano, il tempio fu protagonista del più maestoso pellegrinaggio realizzato nell’Italia liberale. Rimandando il lettore ai testi che hanno argomentato l’evento [Tobia 1991, 100-159; 1993, 227-247; Fujisawa 2004, 65-81], basti qui ricordare che, per quell’occasione (suddivisa, per motivi di ordine pubblico, nelle tre distinte giornate del 9, 15 e 21 gennaio 1884), si stima siano accorsi a Roma 76.000 partecipanti provenienti da ogni città italiana. Si trattò di un vero e proprio “giubileo laico” organizzato, con tanto di statuto e di rigido regolamento, da un comitato nato ad hoc per commemorare il 25° anniversario del Risorgimento nazionale. Il termine “Primo pellegrinaggio nazionale”, utilizzato in quell’occasione, non confonda. Ogni associazione sorta nel tempo per patrocinare analoghi cortei o gite in luoghi diversi dal Pantheon, usò sempre la stessa denominazione.

La monumentale tomba del monarca fu, a decenni di distanza, protagonista di altri due importanti pellegrinaggi tenutisi rispettivamente nel luglio 1901 [De Leonardis 1901; Gallotti 1902] e nel gennaio 1903 organizzato dal Comitato centrale per il pellegrinaggio nazionale al Pantheon [1902; 1903]. Quest’ultimo, sebbene abbia coinvolto un numero minore di partecipanti, presenta caratteristiche analoghe a quello svoltosi nel 1884, in riferimento a regolamenti, all’istituzione di comitati, sottocomitati, gerarchie, apparati di controllo ed eventuali meccanismi sanzionatori. Solo il percorso – come accennato da Tobia [1991, 155-156] – fu differente. Tenutosi in occasione del 25° anniversario della morte del Re Galantuomo, il terzo pellegrinaggio al Pantheon diveniva l’implicita occasione per venerare anche la tomba del figlio Umberto I, ucciso tre anni prima. E proprio al successore di Vittorio Emanuele II, in occasione del primo anniversario della morte, il 29 luglio 1901 fu dedicato un altro pellegrinaggio nazionale. L’omicidio del Re lasciò un segno indelebile in questo panorama escursionistico: a conflitto europeo già in corso (luglio 1914), la rivista turistico-patriottica «Italia Bella» diede la notizia della proclamazione di un Primo pellegrinaggio nazionale alla cappella espiatoria di Monza [1914].

Accanto al Pantheon vi furono, dunque, mete “minori” care esclusivamente agli italiani di fede monarchica, tra le quali spiccava la basilica di Superga, dove si potevano commemorare le tombe dei sovrani del Regno di Sardegna[5] [Petiti 1898, Crispolti 1909].

Nati “dal basso” e in seguito fortemente caldeggiati e sostenuti dalle rappresentanze politiche e sociali più influenti del periodo [Tobia 1991; 25° anniversario 1903], lo scopo dei citati cortei appare «esplicitamente diretto sia all’esaltazione del valore patriottico dell’unità nazionale, sia al ribadimento della fedeltà alla monarchia costituzionale» [Tobia 1991, 109]. Lontani dalle classiche gite di piacere, tali eventi sembrano conservare in loro due elementi caratteristici del solo pellegrinaggio monarchico: la pianificazione e la ricorrenza.

Le processioni alle tombe dei reali furono promosse, nella grande maggioranza dei casi, da associazioni nate ad hoc, costituitesi per regolamentare l’evento e scioltesi alla sua conclusione. Nonostante questo, le fonti documentano come i pellegrinaggi organizzati a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, per quanto numericamente esigui, fossero in grado di coinvolgere ampie masse di gitanti grazie alle capacità finanziarie e di ramificazione sul territorio delle società patrocinanti.

Una maggiore concentrazione di mete e pellegrinaggi e un minor numero di partecipanti per ogni singolo evento, contraddistinsero i cortei e le escursioni patriottiche ai principali campi di battaglia e agli ossari di memoria risorgimentale. L’aneddotica di viaggio attesta che sin dagli anni Settanta dell’Ottocento, singoli reduci o gruppi di patrioti, non riconducibili a società private, avessero eletto gli ossari di San Martino e di Solferino a santuari simboli del martirio per l’indipendenza italiana. Nessun cippo, obelisco o cimitero commemorativo di uno scontro armato fu altrettanto protagonista, sino alla Grande guerra, di un tale numero di escursioni o pellegrinaggi organizzati. A promuovere questi ultimi (approfittando spesso di ricorrenze) non furono però associazioni nate ad hoc ma società di ex combattenti prima e patriottiche dai primi anni del Novecento in poi.

Per quanto queste destinazioni fossero le più celebrate, anche altre mete furono protagoniste di escursioni devozionali. Sino alla fine del XIX secolo, gite e cortei a Belfiore, Custoza, Curtatone e Montanara ebbero solo un carattere locale o regionale [Pierfranceschi 1882], mai videro l’allestimento d’imponenti cerimonie di carattere nazionale come, al contrario, Porta Pia in occasione del 25° anniversario della sua presa. Società congiunte di reduci delle patrie battaglie (con l’adesione di associazioni di ex garibaldini) organizzarono, per il 20 settembre 1895, un imponente pellegrinaggio denominato Primo Giubileo di Roma italiana. La descrizione datane in un opuscolo divulgativo promosso dalla Società Garibaldini e Reduci di Livorno, dimostra però che non fu riconosciuta, dagli stessi promotori, l’importanza dell’evento al Pantheon del decennio precedente, nonostante la tomba del monarca fosse inclusa, anche in questo caso, tra le principali destinazioni[6]. Il programma generale della cerimonia, suddivisa tra il 17 e il 23 settembre, oltre a ospitare un nutrito numero di eventi (tra cui convegni, gare di tiro, premiazioni e fuochi pirotecnici), ebbe per protagonista un itinerario nel quale luoghi simbolici della “conquista” di Roma – su tutti Porta Pia – s’intrecciarono a luoghi commemorativi dei padri della Nazione. La scelta di includere il Pantheon appare, con tutta probabilità, una sorta di compromesso che, oltre a mobilitare verso Roma un maggior numero di persone, riportava nuovamente il monarca al centro della “paternità” politica della rinascita nazionale.

Agli inizi del Novecento, la graduale scomparsa o l’indisponibilità degli ex combattenti e delle associazioni di riferimento, contribuì a una diversa concezione del pellegrinaggio lungo i campi di battaglia risorgimentali. Una nuova utenza, rinnovati rituali e mete differenti contraddistinsero le escursioni organizzate dai club ciclistici e dai sodalizi “dal sentimento nazionale” sorti nel frattempo e attivi nel nord del Paese. Società come il Touring Club Italiano (Tci), il Club Alpino Italiano, la Società Dante Alighieri e l’Audax Nazionale, accanto alle più classiche e numerose gite lungo le più famose città della Penisola, non di rado inserirono nei loro programmi sociali escursioni che, poi, si trasformarono in strumenti di aggregazione e di propaganda politica. Qui i partecipanti non erano più, nella grande maggioranza dei casi, i superstiti delle battaglie stesse, bensì i soci delle società promotrici. Si trattava, dunque, di un cambio generazionale. Escursionista divenne la nuova élite borghese, le cui origini liberali (come nel caso del Tci) o massoniche e irredentiste (Dante Alighieri), spingevano le direzioni centrali ad aggregare i loro iscritti attorno a luoghi considerati sacri per la nascita della Nazione. Oltre alle località sinora citate, furono così riscoperte dalle associazioni ciclistiche destinazioni quali Mortara, Melegnano, Palestro, Magenta – come nel caso delle sottosezioni lombarde e venete della Dante Alighieri – e Belfiore[7]. Rispetto ai più imponenti pellegrinaggi nazionali, le gite sociali del Tci e della Dante appaiono decisamente più ricorrenti e, anche se solitamente non erano in grado di avere vasta eco o di mobilitare altre associazioni patriottiche, furono capaci di coinvolgere un discreto numero di partecipanti, come documentato nelle relazioni delle gite inserite in bollettini e riviste delle stesse associazioni.

Non va dimenticato, infine, che luoghi come Solferino, l’ossario di Palestro, Curtatone, Montanara, Legnano, Forte d’Osoppo e alcune tombe dei patrioti come quella di Daniele Manin, furono anche protagonisti di gite scolastiche a scopo didattico [Gita a Solferino 1885; Bonomi 1904; Jäger 1898; Quaroni 1903; Battistella 1914; Quadu 1868].

Il fattore “generazionale” sembra avere inciso, più che altrove, sui pellegrinaggi che ebbero come protagonista la figura di Giuseppe Garibaldi.

Due distinte tipologie di viaggio avevano quale destinazione Caprera, il luogo al quale si riferisce il maggior numero di testimonianze di pellegrinaggi laici nell’Italia liberale. Già dai primi anni Sessanta, numerosi testi – molto simili alle classiche impressioni di viaggio ottocentesche – documentano che Garibaldi riceveva spesso visite da ex sottoposti, nonché da ammiratori italiani [Sacchi 1860; Carletti 1882; Guarniero 1882; Tocalli 1882; Dossena 1887; Meazza 1888; Locatelli 1901] e stranieri. Se non è un mistero l’ammirazione inglese nei suoi confronti [Campanella 1962], sorprende il fatto che l’Isola (che a occhi disincantati si presentava come una landa sperduta, difficilmente raggiungibile e priva pressoché di qualsiasi attrazione) venisse di frequente inserita all’interno di complessi viaggi storico-artistico-culturali compiuti da stranieri lungo l’Italia [Recollections 1860; Melena 1862; McTear 1865; McGrigor 1866]. Non più presenti, nella seconda metà dell’Ottocento, itinerari predefiniti come quelli che avevano contraddistinto l’esperienza del Grand Tour, fu l’ammirazione per Garibaldi a conferire a Caprera l’onore di divenire destinazione di numerosi “viaggi in Italia”. Chi tra gli anni Sessanta e Settanta si recò sull’Isola, testimoniò a quali sacrifici si fosse dovuto sottoporre per incontrare il proprio beniamino. L’unico mezzo per raggiungere il luogo era un traghetto destinato principalmente al trasporto delle merci che, partendo settimanalmente da Livorno, costringeva la forzata permanenza in loco per almeno sette giorni [Toliverova 1993].

Il pellegrinaggio a Caprera mutò le sue “formule” con la morte di Garibaldi. Da esperienza individuale il cui scopo era l’incontro personale, divenne allora viaggio collettivo, organizzato da associazioni private e con destinazione la casa e la tomba del proprio eroe [Fujisawa 2004]. A cavallo tra Ottocento e Novecento, con cadenza quinquennale (1887, 1892, 1897, 1902, 1907), l’Isola fu protagonista di cinque pellegrinaggi nazionali (organizzati ciascuno da associazioni private non strettamente collegate tra loro) dal pubblico alquanto eterogeneo. Questo è ciò che emerge dalle relazioni ufficiali dei primi pellegrinaggi che parlano di

veterani coperti di medaglie e di cicatrici più gloriose: gli ultimi e men vecchi volontari dell’Eroe; gli avanzi dell’assedio di Roma del 1849, dei cacciatori delle Alpi del 1859, dei Mille, superstiti a tante lotte eroiche, […] dei fedeli di Aspromonte che divisero il Martirio del Duce – di volontari del Trentino – dei devoti di Mentana, disperati del vincere, dei volontari del Volsgi che affermarono col sangue la fratellanza dei popoli della libertà – e infine la pleiade che amò Garibaldi perché fu l’incarnazione di quanto era di grande, di virtuoso, di eroico, di benefico, di bello al mondo [Cavallotti 1887, 7].

Tra le “pleiadi” non vanno poi sottovalutate le componenti antimonarchica e anticlericale (più sottesa) e quella irredentista, le cui rappresentanze di società trentine, triestine e istriane, al contrario, ebbero in ogni occasione un ruolo di primissimo piano. La loro partecipazione ai cortei si distinse non meno di quella dei veterani, come testimoniato nella dedica ufficiale del primo evento (1887) alla figura di Guglielmo Oberdan, considerato l’esempio del giovane eroe di una nuova “generazione garibaldina italiana” [Cavallotti 1887, 30].

La morte di Garibaldi non modificò soltanto le abitudini del pellegrinaggio a Caprera ma portò alla creazione di una serie di nuove mete. Santuario divenne l’intera Isola, e reliquie tutti gli oggetti appartenuti al Generale. Al centro di una rinnovata “via crucis” furono lo spazio antistante la sua abitazione, gli interni (in particolare la camera da letto) nonché la tomba dove fu sepolto, accanto a quella delle figlie.

Due curiose testimonianze (entrambe fornite da distinte relazioni sul secondo pellegrinaggio) offrono l’immagine di quanto la partecipazione e il fermento del pubblico fossero propri di queste cerimonie. La prima narra di una calca formatasi per ascoltare un’orazione di Felice Cavallotti (1842-1898), tale da far cedere il pavimento della casa. Nell’occasione, oltre a sprofondare al piano inferiore la biblioteca del Generale e il teatrino del suo ultimogenito Manlio, caddero diversi ex garibaldini che riportarono ferite gravi [Bettini 1892, 11-12].

La seconda testimonianza parla della presenza di ambulanti e venditori di souvenir lungo la strada che portava alla casa di Garibaldi, un fenomeno che non pare essere stato particolarmente gradito dai gitanti[8], i quali avevano l’abitudine di procurarsi da sé qualche reliquia da portarsi a casa:

tutti si avviavano alla spiaggia portando via fiori, erbe, bastoni tagliati dagli alberi di pino. Alle loro case tornati, i pellegrini mostreranno ai figliuoli quelle umili memorie di Caprera, semplici come era Lui, sdegnoso d’ogni fasto: reliquie della religione, della patria e della libertà [Cavallotti 1887, 29]

A differenza del passato, dopo il 1882 Caprera divenne un percorso a tappe giornaliero. Ad attendere i gitanti per il ritorno in serata, vennero sempre mobilitati traghetti sui quali, non di rado, proseguivano rituali patriottici quali brindisi, banchetti, orazioni e canti.

Oltre a destinazione di pellegrinaggi nazionali in grande stile, l’Isola fu meta di gite scolastiche e di viaggi organizzati da società minori [Dossena 1888], sede di convegni o punto di partenza per tour patriottici che coinvolsero l’intera regione. È il caso, questo, dell’Escursione Nazionale in Sardegna organizzata dall’Audax Italiano, un’associazione in grado di vantare (nonostante la ben più prestigiosa concorrenza del Tci) oltre 5.000 soci [Società Audax 1908].

L’atto simbolico di iniziare il convegno/escursione rendendo omaggio alla tomba di Garibaldi, per quanto, di fatto, comportasse notevoli problemi sotto l’aspetto logistico, fu fortemente voluto da un Comitato d’onore che tra i suoi 38 membri poteva vantare cinque ministri[9], undici deputati e due senatori. A questi si aggiunsero presidenti nazionali di associazioni di categorie turistiche, direttori generali delle industrie dei trasporti e di periodici e riviste, la già celebre Grazia Deledda nonché Luigi Vittorio Bertarelli e Federico Johnson. La presenza dei fondatori del Tci, in qualità di rappresentanti del sodalizio, non deve stupire. Fu proprio l’intensa propaganda della società milanese [Vota 1954; Raccagni 1994; Pivato 2006] a promuovere, nel primo decennio del Novecento, una serie di “itinerari garibaldini”, pubblicizzandoli e riportandone la cronaca a gita avvenuta.

Una spedizione del tutto particolare, a questo proposito, fu quella organizzata dalla stessa società in Sicilia nel 1910 inconsueta agli occhi degli stessi organizzatori per due elementi: il dettagliatissimo – quantomeno per il Tci – programma e il fatto che fosse aperta a mezzi alternativi alle classiche due ruote. L’evento ebbe un successo imprevisto. Rispetto ai 300 posti messi a disposizione alla vigilia, si accolsero 600 adesioni e, tra queste, quelle di ben 101 reduci che causarono non pochi problemi logistici. Nonostante le difficoltà (in una Sicilia priva di mezzi di comunicazione adeguati a una spedizione del genere e non sempre pronta a ospitare un numero così alto di gitanti) il pellegrinaggio, che vide nello scoglio di Marsala, nell’ossario di Calatafimi e in Palermo i punti nodali del programma, non registrò particolari inconvenienti se non la dispersione della comitiva in luoghi diversi e in più occasioni. Un così elevato numero di partecipanti alla carovana del Tci stupisce non solo per la distanza della destinazione rispetto al punto della domanda turistica, ma anche per il fatto che, esattamente un anno prima, all’interno delle Celebrazioni delle feste del 50° anniversario della Rivoluzione siciliana, fosse stata indetta, dalla sezione palermitana del Club Alpino Italiano, un’analoga «serie di gite patriottiche, intese a far conoscere i luoghi memorandi dove si svolsero le operazioni» [Merenda 1910, 133]. A questo proposito, fu in ricordo di quest’ultima spedizione che l’irredentista Ottone Brentari (1852-1921) scrisse quello che oggi può apparire come il manifesto dello spirito che mosse il pellegrinaggio patriottico, definendolo

quello di chi va sui monti a cercare le memorie delle nostre glorie e sventure, a baciare i sassi e le zolle che furono bagnate dal sangue di tanti eroi morti per darci una patria, a rifare le strade che furono sparse di bianche ossa dei nostri caduti [Brentari 1911].

Il tour, tenutosi nel maggio 1910 ebbe, tuttavia, oltre a quello più classico della rievocazione del percorso militare, molteplici scopi. A muovere i promotori contribuì anche una serie di polemiche rivolte alla cittadinanza, perché ignara della storia e del valore dei luoghi, alle istituzioni locali, colpevoli di non avere degnamente valorizzato i siti delle battaglie con obelischi, lapidi e monumenti, e a cartografi, scrittori e compilatori di guide turistiche e materiali geografici, considerati troppo spesso inclini a errori di toponomastica e omissioni. Obiettivo della comitiva fu infatti quello di partecipare all’inaugurazione di lapidi e monumenti (rispettivamente sei e uno): un “corredo testimoniale”, a detta degli organizzatori, colpevolmente ancora assente [Merenda 1910].

Dissapori e polemiche politiche si presentarono, poi, in successivi “pellegrinaggi garibaldini”. Salendo verso nord è opportuno segnalare come, per quanto alcuni rifugi utilizzati da Garibaldi nella sua fuga da Roma nel 1849 fossero meta di spontanee visite di curiosi, il solo luogo in cui si ha la testimonianza di un avvenuto pellegrinaggio a commemorazione dell’eroe fu Ravenna e, più precisamente, il rifugio dove morì Anita.

Tenutosi nel 1907 presso “lo storico capanno della Pineta” (sito che si prefigura come il più classico dei “luoghi da contatto”), organizzato da alcune rappresentanze democratiche, il pellegrinaggio, per quanto riuscito, passò alle cronache perché denso di forti tensioni e dissapori politici [Il pellegrinaggio 1907; Ravenna a Garibaldi 1907]. A muovere la polemica furono i partiti repubblicani e socialisti dell’area ravennate, contrari alla presenza di rappresentanze parlamentari e governative. Fu così che, a poche ore dall’inizio del pellegrinaggio, le due delegazioni locali per protesta non soltanto ritirarono la loro partecipazione – come riferito dai giornali locali, «gettando una fredda ombra di diffidenza sulla manifestazione» e pubblicando articoli «antipatici e ingiuriosi» [Il pellegrinaggio 1907] – ma organizzarono nello stesso giorno una sorta di improvvisato “contro-pellegrinaggio” e un comizio, congiuntamente agli anarchici. L’esempio appena citato confermerebbe un tentativo di strumentalizzazione politica nei confronti di eventi che, anche per questo motivo, si prefiguravano quanto di più distante da gite di piacere.

Non dalla strumentalizzazione ma da un forte e preciso messaggio politico sono caratterizzate le escursioni patriottiche ai luoghi della memoria italiana situati fuori dai confini nazionali. Superare la “fastidiosa” dogana austriaca [Brentari 1901; Per l’esenzione 1902; Pel passaggio 1902], racchiudeva in sé due importanti motivazioni: la sfida alle autorità austriache – non certo favorevoli a questo tipo di carovane – e la non meno celata protesta contro i contenuti della Triplice. È questo il simbolico intento delle diverse comitive ciclistiche che si recarono a Bezzecca, Trento e Trieste [La gita in onore 1901; Una gita ciclo-alpina 1903; Un convegno ciclistico 1902; Il convegno di Cavalese 1905; Trasatti 1906; Tonezzer 2006]. Il sentimento irredentista diveniva motore di una serie numerosa di gite (e non, per ovvi motivi, di cortei) definite dagli stessi organizzatori “pellegrinaggi patriottici”.

Ma Bezzecca o, per “entrare” in territorio giuliano, San Giusto, per quanto possano apparire – in questo contesto – tra le destinazioni simbolicamente più pregnanti, non furono tuttavia le mete che coinvolsero il maggior numero di carovane italiane. Club ciclistici del nord Italia e, naturalmente, il Tci, organizzarono ripetute visite alla statua di Dante a Trento [Bagnaresi 2010], monumento interpretato dai gitanti come uno dei più alti simboli d’italianità oltreconfine. «Oggetto di gentile e commovente tributo di venerazione» [Il convegno del Touring 1908; Festa 1908], la statua rappresentò l’animo della città irredenta, davanti alla quale farsi fotografare e, al contempo, ripartire per il ritorno in Italia.

Anche la pratica di organizzare convegni generali della propria associazione a Trento o a Trieste non fu estranea da simili intenti. Se numerosi furono i pellegrinaggi patriottici compiuti da italiani del Regno nelle terre irredente, altrettanti furono quelli degli “italiani d’oltreconfine” lungo la Penisola. Attesi dalle rappresentanze e dalle bande cittadine, acclamati dalla popolazione festante [A Mantova 1903; I ciclisti 1903], ciclisti trentini scesero a più riprese lungo la Penisola per cortei mossi da un evidente ideale politico. Un nutrito gruppo di trentini, nel giugno 1903, giunse in città simbolicamente importanti come Mantova, patria di Sordello da Goito, e Verona [Bagnaresi 2010] e nel settembre 1908 un gruppo di triestini si recò a Ravenna non per visitare il Capanno di Anita, ma per depositare un “dono votivo” (tuttora presente) alla tomba di Dante Alighieri. L’evento venne immortalato in un interessante album-ricordo fotografico[10] dove le immagini documentano, passo per passo, l’intera cerimonia nel corso della quale un notevole corteo di patrioti giuliani e di rappresentanze locali percorse il centro storico dal porto di Ravenna al mausoleo in cui fu deposta la “sacra ampolla delle provincie irredente”.

L’interesse manifestato dalla Società Dantesca Italiana patriottica nei confronti del sepolcro del poeta toscano, è la prova di come certi luoghi della memoria non appartenessero esclusivamente a un solo ideale politico quanto, piuttosto, fossero compatibili con diversi sentimenti dell’epoca. Nei ricordi del pellegrinaggio organizzato nel 1902 dal sodalizio, anche se l’amore dei gitanti verso la Patria e la loro devozione verso i martiri sono rimarcati in più occasioni, il riferimento alle condizioni di popolazioni e terre italiane usurpate dal nemico austriaco non fu certo al centro del resoconto [Siciliani 1902].

La stessa fonte documenta che nella stessa occasione – l’evento si svolse in concomitanza con il convegno nazionale tenuto dalla stessa associazione nella città romagnola – si ebbe l’opportunità di visitare il vicino Capanno di Anita: una pratica, quest’ultima, che appare, alla luce dei fatti, molto comune. La Dante Alighieri non di rado organizzò le proprie riunioni in città italiane care al patriottismo, coniugandovi la visita ai luoghi storici sacri alla Nazione. Fu il caso, ad esempio, del XX Congresso tenutosi a Brescia nel settembre 1909 (quando «a Congresso finito, una commissione si recò in devoto pellegrinaggio a deporre una corona nell’Ossario di San Martino» [Società Nazionale Dante Alighieri 1910, 72]) e quattro anni più tardi a Pallanza (Verbano Cusio Ossola), dove gli intervenuti approfittarono dell’occasione per una patriottica gita a «Cannero dov’è la casa di Massimo d’Azeglio così piena di nobili memorie» [Società Nazionale Dante Alighieri 1914, 30].

In un’epoca in cui il turismo lungo i confini che separavano il Trentino dal Tirolo e il Garda italiano da quello austriaco fu protagonista di tentativi di boicottaggio, polemiche e contese tra ristretti gruppi di nazionalisti italiani e tedeschi [Bagnaresi e Wedekind 2011], la Dante e associazioni consimili, approfittando della vicinanza tra Solferino, Peschiera e l’Alto Garda in terra austriaca, a partire dai primi anni del Novecento promossero gite annuali che, sconfinando in modo “rumoroso” a Riva e ad Arco, infastidirono non poco le autorità asburgiche. Scopo non troppo celato dei partecipanti – gli «apostoli dell’italianità», come ebbe a definirli il celebre garibaldino Giuseppe Cesare Abba [1909] – non fu quello di approfittare del clima salubre delle rinomate stazioni climatiche presenti, bensì far sentire la loro vicinanza[11] a coloro che consideravano fratelli in una terra straniera invasa dal nemico [Bagnaresi e Wedekind 2011].

Se con la nascita dei sodalizi patriottici mutarono i canoni e le pratiche ma non gli ideali politici che mossero i loro viaggi, con gli anni Dieci del Novecento si assistette a un primo, profondo, cambiamento delle rotte pellegrine. Per quanto il periodo in esame (si parla del solo quadriennio 1910-1914) possa apparire limitato, dal versante escursionistico provennero nuovi indicativi segnali. Il viaggio devozionale in onore dei padri della patria e dei suoi caduti lasciò spazio al pellegrinaggio nelle nuove terre italiane d’Africa.

Con quali motivazioni, dunque, la commissione esecutiva del Primo pellegrinaggio nazionale alle tombe dei valorosi caduti in Tripolitania e Cirenaica [1912] giustificò un termine così significativo per promuovere una carovana in Libia? Benché lo scopo ufficialmente dichiarato fosse il doveroso omaggio alle tombe dei caduti nell’impresa coloniale, rimane il sospetto – tutt’altro che infondato – che il vero obiettivo della spedizione consistesse nel creare aggregazione e consenso popolare attorno alle scelte di politica estera del Regno. E non solo. Continuazione ideale del Risorgimento italiano, risveglio della patria, funzione educativa, monito per le future generazioni sono i principali “ingredienti” che emergono dalla lettura del manifesto ufficiale che promuoveva il viaggio nelle nuove terre dell’Impero.

Un linguaggio meno retorico e uno spirito più avventuroso contraddistinsero l’interesse del Tci verso le nuove terre italiane. Se già dal 1912 il Touring iniziò a inviare ai propri soci una Carta della Tripolitania («completamente incisa in pietra e colla finezza e la precisione grafica e stampata colla impeccabile sicurezza cui l’Istituto Geografico De Agostini ha da lungo abituato i suoi soci» [Bertarelli 1912, 175]), saranno ricorrenti, per il biennio successivo, gli articoli dedicati a impressioni di viaggio o descrizioni geografico-antropologiche della Libia. La conferma di come il Touring agli italiani (per parafrasare una celebre frase) non abbia fatto conoscere solo l’Italia, ma anche le sue colonie, è riscontrabile nei grandiosi preparativi messi in atto per una escursione nelle nuove terre. Costata due anni di sforzi organizzativi, la carovana, che viaggiò tra l’aprile e il maggio 1914, coinvolse 430 persone per le quali il Tci riuscì a garantire il superamento di ogni vincolo di sorta. La società milanese fece richiesta al Ministero delle Colonie per le facilitazioni sul rilascio del passaporto; offrì a ciascun partecipante delle buste corredo (contenenti cartine, guide, materiale d’imbarco); garantì un servizio sanitario (composto da soci medici partecipanti alla gita), pagliericci e coperte per uomini, brande per signore, un comodo cappello a protezione del sole per tutti, offerto in dono da una ditta milanese. Fu questa, per tanti motivi, una gita inedita per le consuetudini del Tci, composta di divieti, regolamenti e avvertenze, a testimonianza di come, a fianco del consueto entusiasmo pionieristico, non mancarono le dovute preoccupazioni.

Numerosissimi e di grande interesse appaiono gli elementi presenti nelle due relazioni ufficiali dell’evento [Pasi 1914; Tedeschi 1914] che per questioni di sintesi non saranno oggetto di quest’analisi. Basti qui evidenziare che fu una Tripoli antica e nuova quella che i gitanti percorsero: antica nell’esaltazione della sua romanità, nuova nei suoi “destini”. Gli elementi appena citati ci aiutano a comprendere un itinerario molto “italiano” in cui tappe obbligatorie furono le celebrazioni delle antiche testimonianze romane ma, soprattutto, trincee, campi di battaglia, cimiteri e monumenti che «ricordano i figli d’Italia caduti eroicamente» [Pasi 1914, 39]. Una visita non meno ossequiosa fu poi quella destinata a infrastrutture e palazzi costruiti o riconvertiti per scopi civili o culturali dal governo italiano: azioni – afferma il relatore – che si pongono come continuum delle «millenarie opere di colonizzazione […] dei nostri proavi» [Pasi 1914, 24].

Una finalità più liturgica e un itinerario meno dettagliato due anni prima avevano accompagnato i 64 partecipanti, soci della Dante Alighieri, che tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre (scesi da Catania dove si teneva un congresso nazionale dell’associazione), aiutati dal Governatore di Tripoli, visitarono i forti e depositarono fiori nei cimiteri italiani sparsi lungo la colonia[12] [Società Nazionale Dante Alighieri 1912, 29-31]. Processioni, messe, parate di alunni di scuole italo-libiche diedero dunque all’evento un carattere più religioso rispetto a quello del Tci, ma del tutto simile alle pratiche che avevano contraddistinto la ritualistica del periodo precedente di fronte ai campi di battaglia del Risorgimento.

Appare evidente come le scelte in politica estera prima e l’entrata italiana nel primo conflitto mondiale in seguito, abbiano decretato in modo definitivo la conclusione di un’epoca per il pellegrinaggio patriottico. Nuovi luoghi, nuovi martiri, nuovi rituali caratterizzano i viaggi devozionali d’epoca fascista.

Conclusioni

Fatto cenno, dunque, alle principali destinazioni di quello d’età liberale e a come queste siano andate mutando nel tempo, rimane ora da elencare sinteticamente quali luoghi, al contrario, furono esclusi. Eccettuate le cerimonie annualmente organizzate dalle amministrazioni locali presso cippi, tombe e monumenti, da una prima lettura delle testimonianze emerge che un potenziale santuario simbolico come il cimitero di Staglieno a Genova (dove è presente la tomba di Mazzini), non sia mai stato meta di un pellegrinaggio nazionale ufficiale ma solo di visite individuali.

Riguardo i campi di battaglia, invece, nell’elenco dei luoghi scelti dalle associazioni di reduci o turistico/patriottiche ebbero un ruolo di secondo piano località come Goito, Novara, Mortara, Montebello, Volturno, Gaeta, Montebelluna, Villafranca, Santa Lucia nonché – come lecito attendersi – l’area dell’Aspromonte[13]. Mancano all’appello alcuni luoghi simbolici che videro azioni militari contro l’esercito pontificio. Se Mentana o Castelfidardo furono esclusi, Porta Pia ebbe un ruolo di primissimo piano. A questo elenco vanno poi aggiunte le località in cui avvennero insurrezioni precedenti il 1848 e i siti più rappresentativi della Repubblica Romana.

Appare evidente come, sebbene la geografia dei grandi pellegrinaggi veda protagonista l’Italia centrale (Roma e Caprera), sia tuttavia quella del nord a vantare un più alto numero di mete e la maggior frequenza dei viaggi. Un discorso differente merita il meridione, raramente percorso per diversi motivi. Scartando l’ipotesi che il sud fosse privo di luoghi altrettanto simbolici, le problematiche maggiori consistettero in difficoltà logistiche nel raggiungere i siti, data anche la lontananza dalle sedi delle associazioni più attive nella promozione di cortei e pellegrinaggi patriottici, radicate sull’asse Piemonte-Lombardia-Veneto. A complicare le cose contribuì l’arretrata condizione dei mezzi di trasporto e delle vie di comunicazione meridionali, che difficilmente permetteva agevoli trasferte su lunghe distanze.

Per quanto i finanziamenti dei primi governi unitari avessero dato impulso a un miglioramento delle strade, la ramificazione della rete ferroviaria era, a fine Ottocento, tutt’altro che compiuta [Maggi 2003 e 2009]. Se nei programmi dei cortei è evidente la difficoltà di far coincidere gli orari dei diversi mezzi di trasporto, nelle relazioni non mancano lamentele per disservizi e pesanti critiche all’organizzazione che, in più occasioni, rischiarono di compromettere la corretta riuscita dell’evento. I ritardi dei treni creavano gli unici imprevisti nello stretto controllo dei rigidi regolamenti di viaggio; nonostante ciò, si rendeva indispensabile per ovvi motivi ricorrere ai mezzi ferroviari quando a viaggiare erano reduci e scolaresche, sino almeno all’“invenzione” (o, meglio dire, alla diffusione) della bicicletta. Per quanto le carrozze a cavallo potessero poi completare il tragitto, la distanza tra stazione ferroviaria e “santuario” sancì – quantomeno per i luoghi di minore interesse – il successo, o l’insuccesso, della destinazione. A rivoluzionare la pratica del pellegrinaggio patriottico fu, dunque, la bicicletta e l’ideale da cui venne improntata [Pivato 1992; Porro 1995]. In modo più agevole, questa permetteva di raggiungere più destinazioni non troppo distanti tra loro in una sola giornata, dando la possibilità ai gitanti di compiere soste a proprio piacimento e, al contempo, di praticare quello che veniva considerato uno sport salutare: un binomio, quello tra patriottismo e tempra del corpo, che rafforzò, qualche anno dopo, la percezione che la bicicletta potesse divenire un potenziale mezzo militare. Ma la pratica ciclistica (assieme all’incremento del tracciato ferroviario e al progressivo aumento di corse di treni e traghetti garantito dalle compagnie nazionali) non ebbe il solo merito di rivoluzionare la mappa geografica dei siti, aggiungendo luoghi altrimenti irraggiungibili, e di aumentare la frequenza di tale fenomeno. Essa contribuì in maniera incisiva a modificare pratiche e rituali che per lungo tempo caratterizzarono il pellegrinaggio laico.

La bicicletta permise soste, diede la libertà di allontanarsi dal gruppo e di reintegrarsi in un secondo momento, di contemplare le bellezze del territorio e di fare, al contempo, sport: elementi “banditi” dai regolamenti dei pellegrinaggi monarchici e dei reduci delle patrie battaglie.

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Note

[1] L’utilizzo del termine “pellegrinaggio”, della cui origine qui si fa solo un accenno, verrà indagato più estesamente nelle pagine seguenti.

[2]  cfr. l'album fotografico Sacro documento ricordo del pellegrinaggio dei triestini alla tomba di Dante Alighieri per consegnare accanto alla lampada di Firenze l'ampolla delle provincie irredente: Ravenna, 13-14 settembre 1908, s. l., s.n.

[3]  Non è dunque un caso se la costruzione di fortilizi militari all’entrata dell’isola, nel 1892, abbia suscitato lo sdegno dei gitanti: «L’isola della fratellanza dei popoli è profanata: oggi non è più che un fortilizio preparato da una cattiva politica di offese fratricide» [Romussi 1892, 19].

[4]  Esclusi da questa analisi sono anche i cortei istituzionali che annualmente, durante le ricorrenze, commemoravano il singolo evento. Queste pratiche, comuni alla maggior parte dei luoghi della memoria risorgimentale, non saranno oggetto del presente studio.

[5]  Tra le escursioni più riuscite si segnalano quelle del 10 agosto 1898 e del 9 settembre 1906. Alla basilica di Superga sono sepolti Vittorio Amedeo II, Carlo Emanuele III, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele I.

[6]  Museo del Risorgimento di Bologna, Archivio Società dei veterani e reduci della città e provincia di Bologna, b. 6, f. 56.

[7]  Basti qui accennare come la Società Dante Alighieri nel giugno 1909 organizzò due distinte gite a Magenta (4 giugno) e Melegnano (6 giugno) [Società Nazionale Dante Alighieri 1909]. Nell’aprile dell’anno successivo la sottosezione bergamasca portò a Belfiore «400 pellegrini e le rappresentanze di tutte indistintamente le associazioni liberali della città […] un pellegrinaggio all’ara dei martiri che riuscì grandioso per l’immenso concorso di vari comitati lombardi e veneti» [Società Nazionale Dante Alighieri 1911]. Ancora nel 1910, la Dante promosse una gita patriottica a Mentana [Società Nazionale Dante Alighieri 1910]. In merito alla testimonianza di una gita del comitato bolognese sui campi di battaglia cfr. Touring e Patria 1902; Brentari 1902; Sangiorgi 1992.

[8]  «Nessuno guarda le brutte baracche disposte lungo questa nuova via militare, dove vi sono piramidi d’uova sode dipinte di rosso, e dalle quali i venditori vi invitano a bere; nessuno si ferma ai merciai ambulanti che offrono i ricordi di Caprera, i bastoni di pino e le conchiglie raccolte fra i sassi della spiaggia, e perfino i rosai. Ma perché non si mantenne a questo convegno solenne il suo carattere decoroso?» [Romussi 1892, 20].

[9]  Questa la lista: Agricoltura Industria e Commercio (Presidente del Comitato stesso); Guerra; Marina; Pubblica Istruzione; Poste e Telegrafi.

[10]  cfr. n. 2.

[11]  Ricorrenti erano, lungo il percorso, le grida a Trento irredenta o le intonazioni dell’Inno a Garibaldi.

[12]  I pellegrini, oltre Tripoli, proseguirono per Ain-Zara, Zanzur e Tagiura.

[13]  Questi luoghi furono comunque protagonisti di cortei a seguito di inaugurazioni di obelischi e monumenti o di cerimonie annuali.