Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

La democrazia italiana: un percorso travagliato

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Siamo giunti ai centocinquanta anni dall’unità dell’Italia: dal momento in cui una nazione antica ha creato uno stato unitario che ci ha condotti prima al liberalismo, poi alla dittatura fascista e quindi a una repubblica democratica sempre in pericolo, attaccata da più parti e ancora in piedi, pur con molte ferite.

Ora un primo bilancio è necessario per andare avanti e aprire prospettive nuove a un futuro che si annuncia difficile ma che dovrebbe almeno superare il populismo autoritario di Silvio Berlusconi che ci ha dominato negli ultimi sedici anni.

Se guardiamo quel che è successo nel secolo e mezzo che ci divide dalla proclamazione del regno d’Italia retto da Vittorio Emanuele II di Savoia scopriamo che alcune caratteristiche del paese restano ancora in piedi e appesantiscono il nostro cammino. Penso all’assenza di un’educazione civile delle masse popolari, ai tratti di clientelismo e di egoismo personale e di gruppo che caratterizza i comportamenti delle nostre classi dirigenti, al divario netto tra le parti del paese, a cominciare dal Nord e dal Sud, alla presenza strabordante delle associazioni mafiose in molte regioni, e al centro, con il dominio dell’economia e della politica locale. E ancora alla scarsa divisione tra Stato e Chiesa e alla difficoltà di raggiungere oggi quella parola d’ordine generale di Camillo Benso conte di Cavour che recitava “Libera Chiesa in libero Stato.

Penso inoltre a una situazione che dispone di una Costituzione avanzata e moderna che è scritta ma è, in una parte molto ampia, lontana dall’essere attuata; uno Stato di diritto contemplato dalle leggi della Repubblica ma che non viene praticato dal governo e dalla maggioranza parlamentare.

Insomma a una crisi dello Stato e della società che non si riesce a superare per l’esistenza di una classe dirigente sempre più impari ai suoi compiti e a un’opposizione politica divisa, solo in parte decisa a lottare, costituita da personalità che, in parte, aspirano soprattutto alla conquista del potere e, in parte, sognano un’alternativa al populismo che deve essere elaborata e precisata prima dell’inevitabile scontro elettorale.

Il problema oggi non può essere soltanto quello di cacciare Berlusconi e al suo posto insediare un altro governo, ma piuttosto quello di indicare una prospettiva diversa sul piano del programma da attuare ma anche di costruire una classe politica di governo radicalmente diversa da quella attuale, che faccia politica per perseguire l’interesse generale piuttosto che quello privato di sé stesso o di gruppi più meno preminenti all’interno della classe dirigente di cui fa parte.

Se guardiamo da lontano il sessantennio liberale che ha caratterizzato i primi decenni dell’unificazione nazionale fino alla vittoria del movimento fascista e della dittatura di Mussolini, scopriamo che il regime liberale italiano ha avuto caratteristiche negative in grado, dopo la Prima guerra mondiale, di favorire la vittoria fascista.

In particolare i tratti autoritari e antidemocratici, le politiche sociali ‑ nella maggior parte dei casi chiuse alle esigenze delle masse popolari ‑ la presenza di una monarchia che oscilla sempre tra la democrazia parlamentare e quella dinastica e di un Vaticano che, per paura del comunismo e del socialismo, si allea proprio ai protagonisti del fascismo. E ancora le divisioni interne alle classi dirigenti, la difficoltà di adeguarsi alla modernità e alle esigenze dei nuovi partiti politici. Questi elementi sono alla base della debolezza della democrazia liberale italiana e del suo cedimento precoce all’assalto fascista nei primi anni venti del Novecento.

A differenza di quel che accade nella Repubblica tedesca di Weimar che soltanto un decennio più tardi si arrende all’assalto di Hitler e del suo partito nazionalsocialista. E, soprattutto, a differenza degli altri paesi europei retti da esperimenti democratici e liberali come la Francia e la Gran Bretagna che riescono a respingere i movimenti fascisti o simili ad essi negli stessi anni.

L’Italia fascista dura venti anni e assai più sarebbe durata, se la Seconda guerra mondiale e la sconfitta militare dell’Italia non avessero condotto alla ribellione dei gerarchi fascisti, collegati con la monarchia sabauda, il Vaticano e con gli imprenditori più attivi, che il 25 luglio 1943 abbandonano Mussolini.

Queste forze lo spingono per contrasto  a collegarsi con l’alleato tedesco e a fondare l’effimera Repubblica sociale italiana destinata a durare venti mesi in un’atroce guerra che attraversa e devasta il territorio italiano segnando la morte di decine di migliaia di persone e la deportazione non solo di novemila ebrei ma di quasi ventimila oppositori politici e perseguitati dal regime nei lager dell’Europa in guerra occupata dal Terzo Reich. La dittatura fascista ha prodotto una modernizzazione lenta e contraddittoria dell’Italia, ha risolto la crisi del 1929 con un’economia mista che ha salvato le imprese in difficoltà e addossato allo Stato le grandi perdite, concentrando nell’IRI le partecipazioni pubbliche.

L’Italia, negli anni della dittatura, si è trasformata in uno Stato che vede al potere una diarchia, formata dal presidente del Consiglio che è anche capo carismatico del movimento e del partito fascista e da un re che conserva il potere costituito dal giuramento che i militari gli devono e dal tradizionale ossequio che gli spetta come Capo dello Stato.

Grazie alla guerra e alla vittoria militare degli angloamericani nella seconda guerra mondiale, cui collaborano i partigiani sul teatro di guerra nazionale, gli italiani si liberano alla fine del fascismo e riescono a fondare una repubblica parlamentare, regolata dalla Costituzione del 1 gennaio 1948. Questa è la grande novità dell’ultimo settantennio. E non ha molto senso parlare di "prima" e "seconda" Repubblica visto che in questo periodo c’è stata e c’è tuttora, malgrado i tentativi avversi, una sola Costituzione repubblicana a cui far riferimento. Ma settanta anni sono un periodo lungo di storia e nei decenni che l’hanno caratterizzata le cose sono notevolmente cambiate.

I primi venti anni hanno segnato il periodo più intenso della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e di vicende interne che hanno visto il dominio del partito cattolico democristiano ‑ prima da solo, poi con il partito socialista come partner di governo ‑ e la collocazione del partito comunista italiano all’opposizione ma con un ruolo di indubbia importanza politica.

I venti anni successivi hanno visto tentativi vari di superare l’alleanza di centro-sinistra che hanno condotto alla crisi e poi alla fine del sistema politico repubblicano nei primi anni novanta del Novecento. E a questo punto si è aperta la crisi decisiva della Repubblica e l’ascesa, per la seconda volta nel Novecento, di un capo carismatico, Silvio Berlusconi, che ha raggiunto con le elezioni il potere nel 1994 e lo ha lasciato nel 1996 e nel 2006 ma riconquistandolo nel 2001 e nel 2008 e, soprattutto, conservando una egemonia culturale e politica acquisita negli anni settanta e ottanta grazie alla sconfitta del Partito comunista. Così è avvenuta l’importazione nel nostro paese, attraverso la televisione commerciale e poi quella pubblica, di una visione della vita sociale che ricalca quella statunitense ma con alcuni tratti propri dell’ideologia italiana più antica e che mette insieme la spregiudicata ricerca del denaro e del profitto con il clericalismo ottuso e un culto del clan e della famiglia primitiva che si lega più o meno direttamente ai metodi mafiosi come ideologia emergente, al di là degli orpelli più nuovi e moderni che vengono sbandierati dalla propaganda del populismo.

Gli ultimi sedici anni sono caratterizzati dal degrado della vita pubblica in ogni sua espressione, dall’attacco ripetuto, e a volte efficace, a principi fondamentali della Costituzione cui corrispondono articoli base del dettato costituzionale come l’articolo 3 messo in discussione dai vari lodi e dai legittimi impedimenti, l’articolo 21 che indica regole generali per la libertà di pensiero e di espressione e ancora gli articoli 33 e 34 che riguardano la libertà di insegnamento e i diritti degli italiani di raggiungere i gradi più alti del sapere a prescindere dalla condizione sociale ed economica dell’individuo. La Repubblica è ferita in maniera piuttosto grave ma non è ancora morta.

È questo il momento decisivo per gli italiani. O saranno in grado in maggioranza, magari attraverso un’alleanza inedita tra nuove e vecchie generazioni, di rovesciare l’attuale equilibrio e crearne uno nuovo che veda protagoniste le forze più sane della nazione, o il populismo al potere lo riconquisterà e affosserà, in una maniera che potrebbe essere quasi definitiva, la Repubblica democratica e le libertà costituzionali.

Altra via non esiste e non può realizzarsi. Ed è questa contingenza che chiama a raccolta forze diverse ed eterogenee che non si richiamano tanto  all’antiberlusconismo quanto ai valori della Costituzione, della democrazia sociale moderna, delle libertà individuali e collettive previste (e attualmente conculcate nella crisi italiana) nelle costituzioni più avanzate del ventesimo secolo.