Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Premessa a "Antisemitismo e chiesa cattolica (XIX-XX sec.)"

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È probabile che Marc Chagall abbia portato a termine uno dei suoi quadri più suggestivi e di difficile interpretazione, la crucifixion blanche (White crucifixion – Art Institute of Chicago) poco dopo la Kristallnacht, nel novembre del 1938. Se fissiamo lo sguardo sul dipinto la prima cosa che colpisce ancora oggi, e, suppongo abbia colpito maggiormente nel 1938, è l’immagine del crocifisso, un Gesù inusuale, sia nei tratti fisiognomici che negli abiti che gli avvolgono il corpo sulla croce: un manto di preghiera ebraico gli cinge i fianchi, il capo è coperto da un panno bianco, forse, come indicherebbero alcuni interpreti, un sudario. Il Gesù ebreo di Chagall non indossa la corona di spine, e sembra osservare, col capo declinato, stanco e sofferente, non i personaggi classici cristallizzati in una lunga tradizione iconografica come la madre, Maria, la Maddalena, o l’apostolo prediletto, ma è circondato da momenti, o meglio, da eventi particolari che sono ritratti in forma simbolica e che sono collocati attorno alla figura sulla croce. Le immagini – su cui non posso soffermarmi in questa sede – sono accomunate dal fatto di rappresentare eventi traumatici della storia ebraica, in particolare quella russa [Cohen 2007; Massenzio 2007]. I riferimenti all’antisemitismo nazista sono ritratti nell’immagine in alto sulla destra e forse in quella in basso sulla sinistra. Nello specifico, però, quasi tutte le altre immagini tendono a ricordare e a rappresentare la violenza dei pogrom e non esclusivamente quelli di età zarista (si veda l’immagine in alto a sinistra, gli uomini con le bandiere rosse).

Il dipinto riflette un interesse profondo di Chagall per la figura del Gesù ebreo [Cohen 2007, 164], ma anche una particolare predisposizione della intellighenzia di cultura russa a riedificare in forme culturali diverse i risultati della ricerca scientifica ottocentesca sul Gesù e la sua ebracità. Il quadro di Chagall si inserisce quindi in una specifica sensibilità culturale russa – che è attestata, per altri ebrei, dalle opere di Uri Zwi Greenberg o Mark Antokolskij, tra quelli più noti [Roskies 1984; Cohen 2007] – ma anche, più in generale, nel complesso ordito di un universo culturale europeo all’interno del quale circolavano ricerche, immagini e concezioni sul Gesù ebreo [Heschel 1998; Jaffé 2009] e non ebreo [Heschel 2008; Gentile 2010] che ebbero un notevole influsso sulle percezioni incrociate delle rispettive “comunità” religiose.

Lasciando a futuri contributi la ricostruzione di questo contesto ebraico e cristiano sul Gesù ebreo, vorrei ora attirare l’attenzione su questo dipinto che può suscitare una serie di diverse interpretazioni: la più immediata vede il Gesù ebreo, imponente e sofferente e immerso nella luce bianca, ergersi sulla drammaticità della storia ebraica che lo avvolge in un infinito susseguirsi di violenza e distruzione. Inesorabilmente connessi, la drammaticità e la violenza della storia ebraica si riflettono nella sofferenza del Gesù ebreo che emana dalla croce. La sofferenza del Cristo e quella del suo popolo sono collocate allo stesso livello di senso.

Una seconda lettura, che merita di essere approfondita e che riflette meglio il conflittuale e complesso rapporto tra cristiani ed ebrei nei primi decenni del Novecento, è più contestuale e affronta anche il tema dell’antisemitismo: a cinque anni dalla nascita del regime nazista e in periodo di crescente antisemitismo razziale, quell’opera potrebbe anche rappresentare un altro discorso, meno noto, ma non per questo meno rilevante. La sofferenza della storia ebraica, iscritta nella secolare tradizione dell’antisemitismo europeo, è il frutto di un conflitto e di un equivoco millenari: colpire gli ebrei significa colpire Gesù, uccidere l’ebraismo significa minare e distruggere il cristianesimo; un cristianesimo però che nel suo costituirsi è divenuto la fonte principale dell’antisemitismo. È una interpretazione, questa, che riflette le intenzioni chagalliane se le sue affermazioni sono veritiere. Infatti, reagendo ad una critica che proveniva dagli ambienti ebraici e che gli rimproverava di essere offensivo e dissacrante nei confronti delle persecuzioni antiebraiche in corso, l’artista ebreo russo commentava, di fronte ai resoconti della distruzione delle sinagoghe e dei negozi degli ebrei tedeschi e all’entusiasmo dei cristiani che osservavano uscendo dalle chiese, affermando che:

Vedete – […] – non hanno mai capito Gesù, uno dei nostri rabbi più compassionevoli. Quando escono dalla messa mattutina non hanno compreso ciò che hanno visto, hanno confuso tra il crocifisso e il vitello d’oro. Il mio dipinto intende aiutare i cristiani a fuggire dalla idolatria del nazionalismo cristiano o dalla ideologia dei crociati [Gol'dmann 1996].

Non posso commentare questa interessante frase di Chagall in questa sede, ma intendo utilizzare questo dipinto come spunto introduttivo, punto di partenza simbolico del progetto che è contenuto in questo dossier.

Nel contesto europeo del periodo, l’immagine veicolata dal dipinto riflette tutta una serie di questioni complesse del rapporto tra la tradizione antisemita cristiana e la persecuzione degli ebrei dell’Europa continentale che si è conclusa con la Shoah.

Penso che sia opportuno sottolineare che, per lo meno agli occhi di coloro che vivevano quelle vicende, e in particolare forse proprio per gli ebrei di varia fede (religiosi di vario tipo, laici, agnostici o atei) era il cristianesimo a costituire la fonte profonda e tangibile dell’ostilità antiebraica. Forse solo Freud, in una illuminante lettera del 1938, aveva intuito la diversità dell’antisemitismo nazista e i suoi peculiari tratti e, con triste ironia, individuava nella chiesa cattolica, fonte della secolare ostilità antiebraica e continuo oggetto di ansia per Freud, un possibile argine contro la tragedia che si stava abbattendo sul mondo ebraico europeo.

La percezione di una forma diversa di antisemitismo, quella variante razziale e biologica espressa dal nazismo, incorporata in varie tradizioni culturali del pensiero europeo, se pure nota, era tutto sommato elitaria e forse più esoterica per coloro che vivevano l’esperienza della ripresa della discriminazione. Negli anni Trenta, negli ambienti cattolici ecclesiali, l’operazione di differenziazione tra antisemitismo völkisch, di ispirazione nazionalista radicale, e antisemitismo cattolico, venne attuata nell’intento non di abbandonare o criticare la tradizione dell’antisemitismo cattolico tradizionale, il quale rimaneva solidamente ancorato – con l’eccezione di esperienze sporadiche e voci individuali – al ricco bagaglio concettuale tradizionale e al suo progetto normativo. Infine, occorre ricordarlo, durante gli anni della guerra, tra collaboratori e bystanders di diversa provenienza nazionale, molti, se non moltissimi, furono cristiani di varia appartenenza – protestanti, ortodossi, cattolici. Se la chiesa cattolica, ad un certo punto, vide nel nazismo l’impronta del “neopaganesimo”, gli ebrei continuarono a vedere nei cristiani i loro carnefici.

Ogni ricerca sull’antisemitismo produce una sensazione di frustrazione, perché sembra condurre in un vicolo cieco: soprattutto lo studio delle tradizioni antiebraiche di matrice cristiana e cattolica rischiano di offrire un continuo dejà vu, senza riuscire a produrre nuove risposte; le fonti non ancora analizzate presentano spesso temi e problemi noti, pochi i nuovi elementi, anche se rimangono da rileggere con attenzione molti di quei dati, alla luce di studi di taglio teorico e metodologico diverso. Eppure è proprio la ripetizione di certi temi che dovrebbe attirare l’attenzione e le pratiche con cui nuovi elementi vengono introdotti nei discorsi tradizionali, perché proprio quelli costituiscono i tratti di una grammatica dell’ostilità antiebraica radicata e diffusa. Infine, sembra essere proprio la tradizione antiebraica di matrice cattolica, e più estesamente cristiana, ad alimentare molti preoccupanti fenomeni di antisemitismo contemporaneo.

Al di là della proliferazione di siti cristiani ispirati ai classici temi dell’antisemitismo cattolico, afferenti alla costellazione del cattolicesimo intransigente, sono altri i fatti di cronaca che richiamano l’attenzione verso questo problema. Ne elenco alcuni, quelli che ritengo essere i più significativi, che partono dalle vicende e dal successo del film di Mel Gibson, alla più recente questione del vescovo negazionista Williamson, alle polemiche innescate dalle carmelitane a Auschwitz, fino alle controverse reazioni all’assedio della chiesa della natività durante la seconda Intifada; a questi si aggiungono numerosi casi di diffuso antisemitismo, ampiamente documentato, sia per l’Italia che per l’Europa, e il riutilizzo, nella polemica anti-israeliana proveniente dal mondo musulmano, di immagini, tòpoi, discorsi non solo di provenienza culturale europea, ma principalmente cristiana (il caso più eclatante è quello dell’utilizzo dei Protocolli dei Savi di Sion).

Il “dossier” è stato ideato con l’intento di proporre una riflessione sull’antisemitismo di matrice cattolica concentrando lo sguardo sull’Italia, nell’arco di tempo che va dagli ultimi due decenni dell’Ottocento fino agli anni più recenti. Gli articoli che sono qui presentati sono il frutto di ricerche concluse di recente, in fase di stesura e, in qualche caso, prime analisi di possibili temi e tracce da approfondire e si inserisce nel tentativo di ricostruire una mappatura articolata e complessa delle forme dell’ostilità antiebraica nella storia d’Italia. Ogni articolo affronta, indipendentemente, il problema dei termini che definiscono il proteiforme oggetto di ricerca – l’odio antiebraico di matrice cattolica – rubricabile nei lemmi non neutri di antigiudaismo e antisemitismo, fino agli slittamenti semantici attuali tra antisemitismo e antisionismo. Ogni autore ha mostrato una certa sensibilità nell’affrontare la questione di carattere terminologico, ma non abbiamo optato per una definizione comune, consapevoli del fatto che sia necessaria una riflessione approfondita su questo problema tutt’altro che nominalistico [Facchini 2010].

I saggi di A. Di Fant e della sottoscritta sono dedicati a pubblicazioni periodiche cattoliche di area intransigente e raccolgono interventi dedicati alla “questione ebraica” dai tratti più tradizionali, ossia l’accusa di omicidio rituale e quella del deicidio che, assieme alla polemica economica, costellano con ossessiva presenza il discorso cattolico delle ultime decadi dell’Ottocento.

Di Fant ha dedicato il suo studio al battage sull’omicidio rituale che Don Albertario, sacerdote-giornalista “militante”, lancia nel quotidiano milanese da lui diretto, “L’Osservatore cattolico”, nel biennio 1891-92. Il quotidiano, monitorato dal Vaticano, fu ampiamente coinvolto nella battaglia contro gli ebrei, variamente descritti come “assassini”, ”bevitori di sangue”, “jene”, “vampiri”, un linguaggio così ricorrente che invita lo storico a riflettere sul campo semantico e sull’impianto retorico utilizzato dai propagandisti cattolici, i quali non disdegnano, peraltro, le polemiche di matrice economica che in quegli anni sono diventate il cavallo di battaglia dei movimenti antisemiti d’oltralpe, sostenuti dai piccoli artigiani e coltivatori.

Nell’altro caso invece, la pubblicazione periodica che viene proposta come punto di osservazione, la “Palestra del clero” di Roma, negli articoli pubblicati negli anni ’80 dell’Ottocento, serve da spunto per elaborare un’ipotesi di lettura innovativa degli insegnamenti più classici e topici della polemica antiebraica, come quello del “deicidio” che è veicolato nelle immagini della “passione di Cristo”. Il tema religioso classico è declinato nel linguaggio di una teologia politica anti-liberale e anti-moderna che, pur riproponendo lo schema polemico del discorso patristico nel quale si combinano due ordini di discorsi, l’ostilità contro la religione ebraica e il progetto de-emancipativo di carattere giuridico, usufruisce dei mezzi di propaganda più efficaci e tradizionali – quelli della predicazione della parola di Dio - con i quali l’antisemitismo si diffonde tramite la manipolazione delle emozioni e delle passioni che solo il racconto della “passione” è capace di suscitare.

Il saggio di T. Catalan affronta un tema ancora poco studiato, ossia l’atteggiamento della chiesa cattolica, attraverso i suoi organi di stampa, nei confronti del nascente movimento nazionale ebraico, il Sionismo. L’analisi tenta di ricostruire le reazioni agli eventi del 1897 (primo congresso sionista), del 1904, coincidente con la visita di Herzl al papa e del 1917, anno della dichiarazione Balfour e della visita di Sokolow al papa. In questo, come in altri casi, la presenza della polemica contro gli ebrei si manifesta più diffusamente negli organi della stampa locale, che pare essere permeata da una presenza cospicua di discorsi e immagini antiebraiche, che aspettano di essere ricostruite e interpretate.

Il saggio di R. Perin si addentra invece nell’analisi dell’atteggiamento antiebraico della stampa diocesana di aerea veneta a partire dall'ascesa del nazionalsocialismo in Germania al fine di ricostruire le interpretazioni e i commenti alle prime avvisaglie di antisemitismo tedesco, per constatare l’indifferenza nei confronti della legislazione tedesca fino al momento in cui la prospettiva del razzismo di stato comincia a profilarsi come concreta opzione politica anche in Italia.

Agli anni del dopoguerra, alle lente e contraddittorie prese di posizione del mondo cattolico nei confronti della Shoah, la cui memoria peraltro rimane ancora confinata all’esperienza personale dei sopravissuti e ignorata per lo più nella maggior parte d’Europa, è dedicato il saggio di E. Mazzini, la quale affronta la questione ricostruendo e interpretando le reazioni all’opera teatrale di Diego Fabbri, Processo a Gesù, messa in scena a Milano nel 1955. L’opera, emblematica nel suo intrinseco messaggio di mettere in scena una sorta di “moderno processo a Gesù”, costituisce un momento interessante per comprendere i primi commenti provenienti dal mondo cattolico in riferimento alla Shoah. Ma non solo: essa riflette anche la centralità, nell’immaginario culturale italiano di diversa fede politica, della figura di Gesù, luogo fondante del discorso e delle rappresentazioni sugli ebrei.

Infine, i saggi di A. Marzano e M. Faggioli, sono dedicati a casi specifici di attualità politica.

Marzano affronta le reazioni della stampa italiana alla crisi della Basilica della Natività durante la Seconda Intifada, in cui sono analizzate anche alcune notorie vignette (come quella di Forattini) che apparvero in quel particolare frangente. Non sorprendono – e richiederebbero forse una riflessione più approfondita – la persistenza e la forza delle immagini religiose a veicolare un imperituro antisemitismo o antigiudaismo che chiamar si voglia, anche dopo i mutamenti che il Concilio Vaticano II ha faticosamente introdotto all’interno del mondo cattolico.

M. Faggioli affronta, invece, altro tema che mi sembrava piuttosto centrale per la comprensione di alcuni snodi significativi della storia dell’antisemitismo cattolico, ovvero la riflessione storiografica cattolico-tedesca sulla Shoah. Il saggio percorre le tappe della storiografica cattolica in Germania occidentale registrando non solo i ritardi ma anche l’ipoteca politica determinata dalla situazione post-bellica e dall’assunzione, quasi immediata, del paradigma “vittimale”, che presenta i cattolici (tedeschi, ma non esclusivamente) come le vittime designate delle politiche del regime nazista. A questa visione si accompagna anche quella “resistenziale”, che fa del cattolicesimo una delle poche isole di resistenza nei regimi totalitari. A complicare il processo di una presa di coscienza storiografica sulla Shoah – e in ultima istanza delle responsabilità del cattolicesimo – si aggiunge il crollo del muro di Berlino e la conseguente unificazione del paese che, paradossalmente, avrebbero bloccato un processo di revisione storiografica il quale, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, andava lentamente delineandosi in direzione più critica.

Mi preme notare che il tema “vittimale” e quello “resistenziale” svolgono una funzione centrale non solo nella Germania del dopoguerra, ma sembrano delinearsi nel discorso cattolico fin dagli anni Trenta e influire, seppure in modi diversi, anche sui percorsi storiografici dell’Italia post-bellica.

A conclusione del dossier appare un saggio di carattere bibliografico, redatto dalla sottoscritta e da E. Mazzini, che renderà contro delle ricerche italiane degli ultimi due anni su questi temi, in cui tenteremo di svolgere alcune riflessioni di carattere storiografico.

Il dossier intende offrire una mappatura, seppure molto parziale, dei temi e dei problemi relativi alla ricostruzione della storia dell’antisemitismo cattolico in Italia, una ricognizione che riflette il senso delle ricerche in corso e che al contempo offre approfondimenti su percorsi storiografici inaugurati dagli studiosi di generazioni precedenti. Ai temi che vengono qui proposti se ne dovrebbero aggiungere altri, sempre più urgenti, tra cui ad esempio una seria riflessione sulle concezioni del razzismo in rapporto al cristianesimo e al cattolicesimo, e non esclusivamente negli anni Trenta; sui rapporti culturali e simbolici tra nazionalismi e cattolicesimo dalla seconda metà dell’Ottocento fino al periodo tra le due guerre; sull’immagine di ebrei ed ebraismo nella scienze delle religioni, negli studi biblici e nella teologia; nella letteratura di finzione alta e middle brow, o di massa; una ricostruzione della figura di Gesù nelle scienze storiche, bibliche, nella letteratura e nella cultura generale; sui dispositivi di semplificazione dei discorsi antisemiti in slogan, immagini, e altri strumenti di propaganda. Infine, ritengo sia necessario compiere uno sforzo aggiuntivo di collegamento tra la storia della chiesa e delle sue istituzioni con la storia della cultura/e cristiane, al fine di comprendere meglio le dinamiche di circolazione, produzione e fruizione dei discorsi antiebraici o le diversità dei livelli culturali del cattolicesimo in riferimento alla elaborazione e assimilazione dei medesimi discorsi.

Il tema dell’antisemitismo cattolico – i due termini sono raramente accostati nella storiografia italiana che preferisce utilizzare il lemma “antigiudaismo” [Facchini 2010] - costituisce non solo argomento complesso e dibattuto, ma è anche oggetto di rinnovata polemica storiografica e pubblica, nazionale ed internazionale. Al contempo, il medesimo tema è fonte di ricorrente preoccupazione per diverse ragioni – molte delle quali legate ad eventi di attualità e alla riemersione, non solo in Italia, di culture antisemite ancora fondate sugli insegnamento cristiani.

Se da un lato il processo di beatificazione di papa Pio XII costituisce uno nodo centrale all’interno della polemica storiografica in corso, non sono di minore rilievo le affermazioni del documento vaticano del 1998 il quale configura una netta presa di distanza dall’atteggiamento critico che le chiese cristiane, tra cui quella cattolica, avevano intrapreso rispetto alle responsabilità di un secolare “insegnamento del disprezzo”, ritenuto, in parte, responsabile di aver contribuito alla Shoah. Il processo di deresponsabilizzazione innescato dalla chiesa cattolica in questi ultimi decenni non ha fatto che acuire i rapporti tra chiese cristiane ed ebrei, producendo tra l’altro anche una serie di contributi interessanti – alcuni provenienti dal mondo anglosassone, altri invece frutto di un decennale processo di ricerche in questa direzione - che costituiscono una sorta di contrappunto, tanto più necessario in una società democratica, alle posizioni ufficiali dei documenti vaticani e, in ultima istanza, a contesti altamente ideologizzati come sembra essere quello italiano. Esemplare, in questo caso, la lettura che David Kertzer ha fatto di Pio XI, figura sulla quale pendevano ben altri giudizi storiografici.

È innegabile che la crescente mole di ricerche sull’ostilità antiebraica della chiesa e delle sue culture risenta delle aperture e delle esigenze culturali del Concilio Vaticano II. Gli effetti di quella particolare stagione e i cambiamenti instaurati da quella vicenda nei rapporti ebraico-cristiani sono visibili, ma i risultati rimangono ambivalenti, poiché la permanenza di immagini inerenti alle conformazioni discorsive dell’ostilità antiebraica di matrice cattolica (e più latamente cristiana), che qui abbiamo riprodotto solo in alcune delle sue molteplici manifestazioni, sembra porsi come “segnalatore d’incendio” della presenza, in Italia così come in Europa, di culture antiebraiche ancora radicate, le quali stanno ad indicare, da un lato, le resistenze cristiane verso quell’apertura, e dall’altro segnalano la capacità di quelle stesse immagini di alimentarsi e alimentare sia le società post-cristiane che quelle non-cristiane.

Bibliografia

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