Storicamente. Laboratorio di storia
Niccolini temeva, come gran parte dei socialisti suoi contemporanei, che assegnare dei compiti politici ai Consigli di fabbrica portasse a deformazioni riformistiche e alla confusione sindacalista tra conquista della fabbrica e presa del potere politico. L’inviato della IC propose che l’attività dei Consigli di fabbrica fosse in stretto collegamento con le altre organizzazioni esistenti, sia quelle economiche (i sindacati e le camere del lavoro) sia quelle relative al consumo (le cooperative), ed assegnava dunque al Consiglio di fabbrica «un ruolo subalterno, integratore degli organismi tradizionali, uno strumento per ampliare la loro capacità di organizzazione e di controllo» [De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920, cit., 117].
Almeno fino all’estate del 1920, quando il II Congresso della IC cambiò le carte in tavola, Niccolini criticava duramente il gruppo ordinovista. Già sul numero del 15-31 dicembre di «Comunismo» l’articolo I Comitati di Fabbrica provocò la rabbia di Gramsci, per le dure critiche alle elaborazioni sui Consigli di fabbrica. Ancora nel marzo l’inviato bolscevico, rifacendosi all’autorità dell’esperienza russa, ribadì che era in fondo una concezione riformista il «masticare i Comitati di fabbrica in una specie di formula assoluta» [C. Niccolini, La costituzione dei Soviety, «Comunismo», 15-31 marzo 1920, 821-833], come stavano facendo i torinesi. Niccolini era allora vicino a Serrati, a cui faceva comodo il suo appoggio per ritardare l’avvio della rivoluzione in Italia, e non lontano da Bordiga, per quanto ne criticasse la radicalità e non fosse ancora favorevole ad una scissione della sinistra comunista dal grosso del PSI.