Storicamente. Laboratorio di storia

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David McKitterick, Testo stampato e testo manoscritto. Un rapporto difficile, 1450-1830

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Il volume indaga un rapporto, quello fra testo manoscritto e testo a stampa, sottoposto negli ultimi anni ad un ripensamento profondo. Alla tesi della frattura improvvisa e irreversibile fra il mondo della scrittura a mano e quello della stampa, si è andata sostituendo una maggiore attenzione nel cogliere le diverse modulazioni di un fenomeno complesso: se la stampa segnò precise discontinuità rispetto al passato, le continuità costituiscono nondimeno un elemento importante e fondamentale per capire il mondo del libro nell’età moderna. A lungo, infatti, il testo manoscritto si affiancò a quello a stampa in un rapporto che variò dall’integrazione alla contrapposizione.
McKitterick amplia il campo di indagine nel tentativo di rispondere alla complessa e ambiziosa questione di «cosa intendessero per “stampa” le passate generazioni». Dietro la fitta trama dei rapporti fra testo stampato e testo manoscritto compare tutto il mondo della produzione e della ricezione del libro offrendo, in controluce, una storia della stampa in senso largo. L’intento centrale è di sfumare la definizione di “rivoluzione”, non tanto nella classica proposta di Elizabeth Eisenstein ma più che altro per come viene «recitata a memoria da certi storici». In luogo di un processo circoscritto e unidirezionale, che sortì effetti immediati, l’autore vede una rivoluzione «in parte tecnologica, in parte bibliografica e sociale» che si prolungò nel tempo e fu segnata da un processo irregolare, da «effetti variabili, perfino bizzarri».
Solo lentamente infatti, fra Cinque e Seicento, andò affermandosi la concezione secondo cui un testo stampato non solo garantiva una più ampia distribuzione, ma stabiliva anche un principio di autorità rispetto al manoscritto. In precedenza le stesse interpolazioni a penna che correggevano l’inadeguatezza tecnica del processo di impressione indicavano una commistione profonda: ad esempio il noto uso di ricorrere ad integrazioni a mano per testi che contemplavano la presenza di lettere greche o ebraiche, per le quali lo stampatore poteva trovarsi sprovvisto di caratteri. O ancora i testi musicali, o l’ovvia questione delle immagini. Agli inizi dell’età della stampa e in misura certo progressivamente minore, gli intrecci fra la scrittura a mano e il prodotto dei torchi furono complessi e variabili: «intestazioni, numeri di carte o di pagine, richiami, segnature, iniziali grandi (più o meno decorate), rubricazione e altri segni di evidenziazione nel corpo del testo, righe d’apertura, titoli di capitoli, decorazioni nei margini: alcuni o tutti questi elementi venivano interpolati dopo che era stata completata l’impressione del testo fondamentale». In tal modo «penna e carattere tipografico furono messi congiuntamente in opera insieme allo scopo di ottenere copie perfettamente funzionanti».
Le problematiche così finiscono con l’accumularsi e rimandare le une alle altre: per fare un solo esempio, le procedure censorie che prevedevano l’espurgazione dei libri mediante l’intervento degli stessi lettori, i quali sotto la guida di appositi strumenti bibliografici avrebbero dovuto porre mano ai testi in loro possesso per cassare o riscrivere frasi proibite, pongono questioni di rilievo non solo circa il rapporto fra testo stampato e testo manoscritto, ma circa la stessa stabilità di un testo nel momento in cui questo usciva dall’impressione. In fondo il procedimento non era concettualmente diverso dalle operazioni di errata corrige sollecitate dagli stessi stampatori. Ecco quindi profilarsi un nodo fondamentale dell’analisi di McKitterick, vale a dire l’idea di un rapporto che legava in un continuum autore, produttori materiali del testo e lettore: era il mondo tipografico a chiedere al lettore di diventare protagonista non solo nell’attribuzione dei significati al testo, ma anche nella variazione fisica del libro stesso. E nella percezione del prodotto finito appare evidente come il lettore non vedesse due mondi separati: nei cataloghi, negli scaffali, negli inventari, manoscritti e libri a stampa rimasero a lungo mescolati insieme, iniziando a separarsi solo fra Cinque e Seicento. Gli stessi stampatori adattavano le due tradizioni e «la loro natura complementare». Di qui l’impossibilità pratica e tecnica di ottenere un testo stabile: fra Quattro e Seicento quello che caratterizzò la produzione a stampa fu la variazione piuttosto che la standardizzazione. Tutti gli addetti ai lavori erano coscienti che il testo uscito dai torchi fosse necessariamente difforme da copia a copia.
In seguito, il superamento dei limiti tecnici – frutto di discussioni e sensibilità emerse nel corso del Settecento e affermatisi nel secolo successivo – portò ad una completa affermazione del libro stampato: la stereotipia, la meccanizzazione, l’aumentata velocità del processo di stampa, l’introduzione della litografia e di nuovi tipi di carta segnarono una frattura con l’antico regime tipografico. La produzione industriale standardizzata rese il libro più «stabile».
L’ampiezza e la portata delle tematiche affrontate rendono il volume una sintesi originale degli studi compiuti finora, capace di indicare percorsi d’indagine inediti o non ancora completamente sviluppati, finendo con l’interessare direttamente il mondo contemporaneo e le forme di trasmissione dei testi nell’età dell’informatica. Caratterizzato da un dialogo costante con le discipline storiche volte a ricostruire i processi sociali e culturali, costituisce un punto di riferimento aggiornato e completo per chiunque si avvicini alla storia del libro, dell’editoria o della comunicazione scritta in genere.