Storicamente. Laboratorio di storia

Tecnostoria

La verità del suolo. Breve storia del Critical GIS (1983-2007)

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Geografia automatica

Con l’uscita nel 1983 dell’articolo Automated Geography[1] di Jerome Dobson, si apre nella comunità scientifica dei geografi di lingua inglese un dibattito che avrà non poche conseguenze nei due decenni successivi.

L’autore afferma che la crescente applicazione delle tecniche informatiche alle pratiche della geografia, in particolare la rapida avanzata tecnologica di «computer cartography, computer graphics, digital remote sensing, geographical information systems, spatial statistics, and quantitative spatial modeling»,[2] avrebbe permesso ai geografi di porsi come attori sempre più “rilevanti” nei confronti dei centri decisionali, arrivando ad esprimere una disciplina “utile” alle decisioni amministrative, politiche e anche militari. A tale proposito Dobson cita l’utilità delle nuove tecniche geografiche nei sistemi di posizionamento missilistici e nelle scelte strategiche della Casa Bianca.

Sono anni di forte fermento nella disciplina: nel 1984, l‘uscita del romanzo Neuromancer[3] di William Gibson inaugura l’era del cyberspazio e della realtà virtuale come un nuovo modo di pensare le interazioni umane in una nuova spazialità, sfida che anche i geografi accetteranno, lanciandosi sempre più nella ricerca sulle implicazioni portate alla loro disciplina dai sistemi delle reti e dal mondo digitale.[4]

Poiché Dobson nel suo articolo dava la preminenza all’analisi piuttosto che alla descrizione dei fenomeni, l’elaborazione negli anni successivi di sempre più raffinati e potenti strumenti come i «sistemi informativi geografici», universalmente noti come GIS, acronimo di Geographic(al) Information Systems, dotati di forti potenzialità analitiche, è sembrata la più valida risposta alle necessità esposte in quello scritto.

L’avvento di una sorta di rivoluzione dell’automazione avrebbe trasformato tutto l’impianto della disciplina geografica. «Automated geography is already affecting the way we view our discipline, what we do, and how we do it (…) automated geography will be a major new extension to the discipline.»[5]

Ma questa visione non poteva che trovare dei critici fra coloro che, nell’ambito della geografia umana e sociale, avevano fortemente sostenuto l’interesse della disciplina per le dinamiche politiche e socioculturali del presente, inaugurando nuovi ambiti di ricerca riconosciuti nel mondo anglosassone sotto definizioni fra cui Radical Geography, Postcolonial and gender studies, Cultural turn in geography. Queste geografie si erano opposte al predominio esercitato in passato sulla disciplina dagli ambiti quantitativi e matematico-statistici, e vedevano le nuove tecnologie come il ritorno di un’ottica spaziale cartesiana, quando non anche positivistica, preoccupata più dei metodi applicativi che dei contenuti dell’indagine.

Riguardo l’antico confronto fra geografia umanistica e geografia matematica, non bisogna ricordare qui quelle che sono le ben note critiche dei geografi nei confronti delle rappresentazioni del mondo fondate sulla ragione cartografica, che non è stato certo il Critical GIS ad inventare per primo.[6]

Tanto più che, per mettere in chiaro una ulteriore questione,  il GIS non va confuso e non si risolve con una nuova forma di cartografia, perché la tecnologia inaugurata all’inizio degli anni ’60 dal Canadian Department of Forestry and Rural Development[7] è qualcosa di più. La cartografia computerizzata, o automatica, e il telerilevamento non necessariamente devono essere associati al GIS, e la finalità principale per cui si utilizza quest’ultimo non è quasi mai la semplice rappresentazione cartografica. «Computer Assisted Cartography systems, designed to create maps from graphical object combined with descriptive attributes, are excellent for display but generally lack the analytical capabilities of a GIS».[8]

La principale caratteristica di tale tecnologia è il poter associare ad una o più basi di dati georeferenziati quantità potenzialmente illimitate di attributi, con ampie capacità di operare incroci e confronti fra i database, permettendo manipolazioni e analisi sia topologiche sia quantitative. Dunque anche i problemi concettuali che tale ambito pone sono differenti. Il dibattito che per oltre un ventennio ha attraversato la geografia di lingua inglese ne ha individuato i caratteri peculiari, portando all’attuale definizione di Critical GIS. A questo percorso è dedicato il presente articolo.

Cosa c’è che non va nel GIS?

Sul versante dei critici della nuova tecnologia, si cerca in genere di integrare la questione in un quadro epistemologico che tenga conto delle novità ma non se ne faccia sconvolgere, più che assumere atteggiamenti apocalittici o passatisti. Scrive ad esempio John Pickles, commentando a dieci anni di distanza gli effetti dell’articolo di Dobson:

Its associated expansive claims to disciplinary significance have waned over time as the aura of the new has been transformed into the easy comfort of the useful. The attempt to ground a new mythos on a form of automated Cartesianism has been replaced by the integration of automated systems into the daily practices and workplaces of geographers.[9]

Dunque per Pickles il discorso della Automated geography, negli anni ’80, riguardava in realtà il rapporto dei geografi con le macchine, e non le questioni di contenuto che negli anni '80 sviluppava la geografia nel senso del produrre «contextual knowledge, contingency and necessity, society, space, and nature, the (social/political/gendered) construction of space, and the production of scale,» [10] come facevano ad esempio, le geografie del cambiamento, le geografie sociali, le geografie della comunicazione. I GIS si configurano qui per Pickles come strumento, non come scienza, e l’automazione come un moltiplicarsi di risorse ormai diffuse e non più “sconvolgenti”.

Mentre alla teoria della «geografia automatica» mancava una prospettiva critica anche sulle implicazioni sociali del suo oggetto, che la portava logicamente ad essere monopolizzata dai gruppi sociali dominanti senza preoccuparsi di «ethics and sociology of the appropriation of GIS techniques to systems of social surveillance and marketing principles by the military, the state, and business.»[11]

In quegli anni vengono poste all’ordine del giorno molte questioni sull’etica delle nuove tecnologie geografiche. Ad esempio un articolo di Neil Smith sull’importante rivista «Progress in Human Geography» mette in discussione l’eticità della collaborazione di quei geografi che avevano di fatto partecipato alla prima guerra del golfo del 1991, mettendo i sistemi GIS e le applicazioni cartografiche a disposizione dell’armata di George Bush senior impegnata in Iraq.[12]

Secondo Nadine Schuurman, che individua questa fase dei primi anni ’90 come il periodo degli “scontri” più aspri, questo dibattito si inquadra nell’ambito delle Science wars, che in quegli anni vedevano in molte discipline opposti i tecnici e gli intellettuali impegnati nei Science and Technology studies, proprio per il forte impatto delle sfide che la sempre più veloce evoluzione delle scienze e delle tecniche pone anche alle scienze umane. «This is not a phenomenon limited to the world of geography: it is the stock-in-trade of larger debates on the science wars».[13]

Nella geografia anglosassone si assiste con questo dibattito ad una vera a propria polarizzazione di posizioni, che esplode in maniera evidente proprio nella centrale “piazza” californiana, dove

L’Università della California di Santa Barbara si specializza nei GIS e tende a qualificare un nuovo tipo di professionalità geografica in connessione con l’abilità e la competenza nell’impiego delle tecnologie informatiche. L’Università della California di Los Angeles (UCLA) si orienta piuttosto verso la geografia umanistica e culturale.[14]

Nasce in questo clima la raccolta collettiva Ground Truth del 1995,  curata dallo stesso Pickles, che si pone come una svolta nel dibattito, perché partecipano a questa discussione anche geografi di Santa Barbara, specializzati sui GIS, come Michael Goodchild. Quest’ultimo, partendo dalle polemiche degli anni precedenti, che erano state dei veri botta e risposta fra geografi, puntualizza che il problema non è condannare o difendere a spada tratta il GIS in quanto tale, ma riflettere sul suo utilizzo, perché «a technology that can be used to promote democracy can also be used to deny it».[15] L’auspicio è che scienze umane e scienze fisiche possano riprendere a dialogare, in un ambito come la geografia che si ritiene del resto fra i più favorevoli a creare occasioni per tale incontro.

Naturalmente tenendo conto del fatto che i GIS, per la loro stessa natura di sistemi informatici finalizzati al trattamento di basi di dati, sono più adatti a trattare oggetti che concetti, e dunque non si possono applicare utilmente che ad alcuni degli ambiti su cui può spaziare la ricerca geografica. «Hence the danger arises that a geography that accept GIS too readily will become a discipline dominated by facts rather than by understanding».[16]

Anche altri autori partecipanti alla raccolta fanno notare che la stessa scelta del mezzo di comunicazione influenza molto i contenuti dell’analisi; nella fattispecie si tratta di capire cosa si può e cosa non si può fare con il GIS. Taylor e Johnston ne tentano una collocazione rispetto alla storia intellettuale della disciplina a partire dalla « rivoluzione quantitativa » degli anni ’50 e ’60. Cominciando proprio dall’aspetto statistico di tale tecnologia: poiché essa ha bisogno di un grande quantitativo di dati, c’è il problema di chi e come li raccolga, dunque serve una critica preventiva delle fonti da cui provengono. Nella fattispecie, «it should come as no surprise to our readers to discover that statistics and state come from the same root.»[17]

Poiché lo Stato è pressoché l’unico ente capace di raccogliere e mettere a disposizione grandi quantità di dati, nei casi in cui questo ne sia il fornitore unico il GIS, per gli autori in questione, diventa una geografia di Stato. Dunque non controlla autonomamente le proprie strategie conoscitive, perché ha una istituzione a monte che definisce, o comunque limita oggettivamente, quello che per essa è o non è in termini ontologici.

Questa considerazione si comprende meglio a scala planetaria, se si tiene presente  che dei circa 200 Stati presenti sulla superficie del globo oltre la metà sono retti da regimi che limitano la libertà dell’informazione e della raccolta dei dati, e che una percentuale analoga (ma non per forza corrispondente) di Paesi poveri rimane di fatto  esclusa da una geografia basata sulla raccolta statistica di dati quantitativi. «Hence a data-led GIS geography would neglect most of the world. Analysis dependent upon data sources produces a rich countries’ geography».[18]

Dunque, una serie di limiti agli ambiti di ricerca determinati dalla natura stessa della tecnologia. Più in generale, per Taylor e Johnston il GIS e i suoi sostenitori hanno scontato, almeno fino a quel momento, la mancanza di una teoria autonoma, che ha fatto sì che la tecnologia medesima acquisisse una caratterizzazione sociale e politica di segno conservatore.

Dal punto di vista della metodologia geografica, gli autori non negano l’utilità del grande potenziale di gestione di informazioni che possono fornire i GIS, restando dunque disponibili ad accettare « the possibility that quantitative procedures, and hence GIS, can provide illuminating material which poses important questions even if cannot produce substantial answers to the question – Why?»[19]

Ancora più radicale è Michael Curry, che sostiene la  presenza di una eteronomia nella ricerca basata sul GIS, tecnologia guidata da alcuni assunti indiscutibili come la «accuratezza»,  che tendono a portarla verso l’autoreferenzialità. In questi meccanismi, secondo Curry, si produce una «inconsistenza etica» proprio per tale loro natura, e perché all’interno del processo lo spazio per l’azione dell’individuo è particolarmente ristretto: anzi si crea una pericolosa frattura fra chi manipola questi strumenti, e gli «altri», che sono potenziale oggetto di indagine e di controllo. Insiste infatti sui sistemi di sorveglianza sociale e di possibile monitoraggio della sfera privata degli individui, scopi ai quali la tecnologia in questione ha fornito nuovi strumenti.

It is now possible to make educated guesses about any household’s political and religious views, as well as its shopping preferences (…) what is perhaps most disturbing about the surveillance system (…) is that it presumes a notion of closure, a view wherein there is a population of individuals, and where it is possible to obtain measurable knowledge about each. It implies a truly closed society.[20]

Fra i tanti punti di vista critici espressi nella raccolta, ricordiamo anche che una parte della geografia femminista ha visto nel GIS il rischio dello sviluppo di una «masculine technology»[21] ritenendolo una estensione dell’occhio maschile e dominatore che, per le esponenti di questo filone, caratterizza la visione cartografica.

Non a caso nell’articolo di Roberts e Schein, che analizza gli avvisi pubblicitari di vari software GIS come «spazio rappresentazionale» della comunità, figurano immagini che mirano a mostrare come la tridimensionalità del globo si possa catturare, o letteralmente inquadrare, sullo schermo piatto del proprio pc.

Figure 8.4. In J. Pickles (ed), Ground Truth: the Social Implications of Geographic Information Systems, New York/London, The Guilford Press, 1995,
176.
Figure 8.4. In J. Pickles (ed), Ground Truth: the Social Implications of Geographic Information Systems, New York/London, The Guilford Press, 1995, 176.
Figure 8.5. In J. Pickles (ed), Ground Truth: the Social Implications of Geographic Information Systems, New
York/London, The Guilford Press, 1995, 177.
Figure 8.5. In J. Pickles (ed), Ground Truth: the Social Implications of Geographic Information Systems, New York/London, The Guilford Press, 1995, 177.

Nello stesso anno di Ground Truth, esce un numero speciale di «Cartography and Geographic Information Systems»[22] curato da Eric Sheppard e Tom Poiker, che raccoglie i risultati della conferenza di Friday Harbor del 1993, organizzata proprio per dibattere delle stesse questioni sociali ed epistemologiche. La questione centrale, per lo stesso Sheppard, è «whether the logic of GIS, as result of design decisions (…) privileges certains views of the world over others.»[23]

Ground Truth e Friday Harbor hanno ovviamente suscitato reazioni da parte di quei geografi che, più impegnati nella diffusione della tecnologia del GIS, si sono sentiti in dovere di operarne una difesa. In particolare Stan Openshaw interviene con una «critica dell’opera critica». Openshaw, i cui articoli erano stati oggetto di vari appunti  in Ground Truth, da una parte sottolinea una svolta, dato che « perhaps the long  -phoney war- between the highly polarized views held by the pro-and con-GIS geographers has ended»,[24] anche riconoscendo che la raccolta curata da Pickles «presents a range of different and often conflicting views».[25]

Dall’altra parte però critica a sua volta in maniera aspra le parti che ritiene più «distruttive» del volume, proponendo una «decostruzione» dell’opera che fa un po’ il verso alle teorie del postmodernismo, nella fattispecie all’utilizzo di Derrida, molto frequente presso i geografi sociali e umanisti che si riconoscevano in quegli anni nel dibattito «postmoderno». In tale «decostruzione» individua sostanzialmente tre filoni di critica al GIS: la sua insufficienza come strumento della geografia umana; la necessità di una consapevolezza dei suoi impatti sociali; l’inclusione nella tecnologia di una teoria sociale.

Openshaw di fatto è disponibile a discutere solo l’ultimo dei tre, visto che non riconosce al GIS nessun carattere ideologico, né tantomeno lo considera uno sviluppo del positivismo o della geografia quantitativa, e passa in rassegna rapidamente i vari argomenti sviluppati da Pickles e soci, che accusa sostanzialmente di operare critiche non costruttive dall’esterno, visto anche che non solo pare alcuni non abbiano mai lavorato con un GIS, ma si dice che molti di essi «are living in the past».[26] L’aspetto forse un po’ paradossale di questo contributo è che dopo aver negato implicazioni ideologiche alla tecnologia in questione, Openshaw afferma che il successo del GIS lo porta ad essere molto di più di una semplice tecnologia, ma qualcosa di destinato a rivoluzionare la disciplina geografica, e il cui approfondimento viene prescritto come una sorta di obbligo anche per il geografo umanista. «GIS is an inescapable part of the environment of geography. Human geographers of the future might well be expected to know how to use it».[27]

Strumento o scienza?

Questo intervento di Openshaw oggi viene considerato piuttosto estremista anche da quei geografi che a partire dalla seconda parte degli anni ’90 cercano in qualche modo di conciliare i due campi dei critici e dei fautori del GIS. Come riferisce David O’Sullivan

I suggest that the more successful examples of critically informed GIS are those where researchers informed by social theory have been willing too engaged with the technology, rather than to criticize from the outside.[28]

Per il neozelandese la posizione di coloro che hanno visto in Ground Truth un attacco mirante a condannare il GIS espellendolo dalla geografia umana «seems in retrospect to have been rather paranoid»,[29] soprattutto in riferimento a quando Openshaw affermava di vedere inquietanti «narrow-minded, intolerant, ideological storm troopers assaulting everything that is map-related in human geography».[30]

Infatti è negli anni immediatamente successivi a Ground Truth in cui, anche secondo Nadine Schuurman, si inaugura una nuova fase del dibattito quando

the critical GIS had also moved from an antagonistic activity to a means of positively affecting a technology that was being widely adopted in other disciplines and in the commercial sphere.[31]

Già nel 1997 c’era stato uno scambio di idee fra Pickles e Goodchild sulla questione «tool or science»? Quest’ultimo, in un articolo firmato assieme a James Proctor e Dawn Wright, aveva parlato della possibilità di una «scienza del GIS», in contrapposizione all’idea del GIS come semplice strumento, tensione decisiva nel chiarire cosa significa «fare GIS», a partire da un dibattito che era passato su uno dei nuovi canali della comunicazione in rete, ossia una mailing-list, chiamata appunto «GIS-L».[32]

È significativo dal punto di vista delle «tecnostorie» che qui ci si ponga il problema della trattazione scientifica di un dibattito passato attraverso un mezzo di comunicazione come questa lista «non moderata». Ciò conferisce alla discussione  un carattere di oralità e informalità più simile al workshop che al convegno o alla raccolta di saggi; per sintetizzare questi materiali si è richiesta la disponibilità agli intervenuti ad essere citati, e si è fatto ricorso alla modellizzazione grafica.
Figure 1. Graphical summary of GIS-L postings on the topic “GIS
as a Science” during October and November 1993.
Figure 1. Graphical summary of GIS-L postings on the topic “GIS as a Science” during October and November 1993.

Bisogna chiarire, per gli autori, «why should one care whether GIS is science or not?»,[33] anche perché il problema di fondo è come si definisca la scienza medesima.

Le risposte ovviamente sono molteplici, e le posizioni sfumano in quello che per gli autori è un continuum di posizioni che vanno dallo strumento alla scienza raggruppabili in tre macroposizioni: «1) GIS as a tool; 2) Gis as a toolmaking; 3) the science of GIS.»[34]

Per la prima posizione, il GIS è uno di quegli strumenti la cui natura è separabile dalla sostanza dei problemi per i quali lo si utilizza, nel secondo caso invece esso è sostanziale nello sviluppo della disciplina che lo applica, che evolve di pari passo con la tecnologia. Tenendo conto però che il GIS si applica a più discipline, e i geografi sono solo una parte dei suoi utilizzatori, tra l’altro spesso esclusi oggettivamente dalla gestione applicativa dell’innovazione tecnologica. 

La terza posizione porta alla nascita di veri e propri ambiti disciplinari autonomi come la «geomatica», o la definizione, usata soprattutto nei Paesi anglosassoni, di Geographic Information Science. Questi campi, se non si esauriscono all’interno delle applicazioni GIS vere e proprie, non essendo necessariamente ristretti all’ambito dell’informatica, sono comunque basati su un modo di riflettere che è quello dei sistemi informatici. E a volte «tolgono la scena» alla geografia tout court, che è più difficile da definire ed «attualizzare» nel suo complesso di fronte ad un pubblico di non specialisti.

Gli autori concludono che tutte e tre le posizioni contengono elementi reali, e si tratta di ragionare criticamente di volta in volta sulle applicazioni della tecnologia, nelle quali  i loro contorni si fanno sempre più sfumati . «We find that GIS represents just such a continuum between tool and science.»[35] Fermo restando che nell’antico dibattito sulla natura della conoscenza geografica, il GIS entra per giocare, a detta degli autori, un ruolo decisivo.

GIS as a technology seems uniquely appropriate for geographic research and, more specifically, for transforming geographic knowledge of processes into predictions, policies, and decisions. In this sense GIS captures geography’s tensions between basic research and application, and between the geographically general and the geographically particular.[36]

Pickles interviene rispondendo a questo articolo, che gli sembra porre una serie di questioni che erano proprio quelle a cui la pubblicazione di due anni prima voleva dare fiato, e rimarca che le posizione prese da Wright, Goodchild e Proctor sarebbero state prese comunque come

heretical ideas for many in the field (GIS) whose output has been marked by a dogged avoidance of epistemological debate and refusal to engage the intellectual ferment that has characterized contemporary human geography in the past twenty years of post positivist social theory.[37]

Anche se restano per Pickles da approfondire le domande epistemologiche, al di là di una difesa affidata alla «ragione strumentale». Il vero problema non sono le etichette di scienza o strumento: «the heuristic categorization of tool use, tool making, and science mis-specifies the issue».[38] La scienza moderna, per Pickles, è tutta una tecnoscienza, perché la disciplina e il suo strumento sono sempre in mutua correlazione: la questione centrale è definire, di questa tecnoscienza, il rigore nella produzione concettuale, e se sia possibile cambiarne gli effetti sociali.

Sull’articolo esaminato Pickles nota ancora una volta che proprio l’attenzione posta ai diritti di riservatezza riconosciuti dagli autori ai partecipanti alla lista GIS-L, riguarda gli stessi problemi posti da tutte le tecnologie informatiche che, come i GIS, consentono la gestione e l’estrapolazione di dati individuali.

A questa e alle altre domande poste in Ground Truth, dunque, dovrebbe rispondere una scienza del GIS. Ma «how did it take the field of GIS thirty years to begin to ask fundamental questions about its own practice and intellectual and practical commitments?»[39]

Secondo il geografo la risposta sta proprio nel successo, in primo luogo commerciale, della tecnologia, che l’ha spostata dall’ambito dell’università e della ricerca all’ambito delle corporation e del big business, determinando l’orientamento della maggior parte degli studenti verso le prospettive professionalizzanti più redditizie, e meno sull’approfondimento epistemologico. Questo, e il massiccio utilizzo della tecnologia da parte di istituzioni come gli organismi dello Stato e della Difesa, «placed serious limitations on the kinds of questions that could be asked.»[40]

Ma per definire una scienza del GIS bisognerebbe andare molto più a fondo di quanto non faccia l’articolo in questione nell’analisi ed applicazione dei concetti delle varie filosofie e sociologie della scienza. Il problema è sempre il gap fra dibattito teorico e pratico della disciplina, per questo Demystifying rimane una chiamata all’inizio del dibattito teorico per chi non vi è ancora entrato; per Pickles è ora «that the practitioners of GIS accept the call to the hard theoretical work that will change their thinking, the forms and uses of their geographic information systems, and, we hope, the worlds in which they are deployed.»[41]

Metadati, partecipazione e trasparenza

Secondo studiosi come N. Schuurmann, che hanno rappresentato una sorta di posizione intermedia nel tentativo di trovare punti di contatto fattivo fra geografi umani e tecnici del GIS, in questa seconda metà degli anni ’90 siamo già in una ulteriore fase del dibattito, che vede incontri fra geografi umanisti e tecnici del GIS, come quelli previsti dalla «Iniziativa 19» del National Center for Geographic Information Analysis (NCGIA). [42]

Un elemento usato per tentare un riavvicinamento dei campi è stata la riflessione sui metadati: la tecnologia del GIS è basata interamente sulla qualità dei dati che utilizza, che non a caso sono spesso anche economicamente una voce più pesante di quella degli applicativi software e hardware necessari a mettere in piedi i sistemi.

I metadati sono tutte quelle informazioni sulla provenienza, l’aggiornamento, l’accuratezza, la comparabilità, i sistemi e gli standard utilizzati nel confezionamento  del dato: ma se nel mondo del GIS il dibattito riguarda soprattutto la qualità, l’interoperabilità, la precisione, il rispetto delle specifiche e delle soglie di tolleranza, geografi come appunto Schuurman hanno lavorato sulla proposta di modelli di dati che consentano di operare sul più ampio ventaglio possibile di contenuti.

Per introdurre il concetto di metadati non semplicemente geometrici si fa ricorso al concetto di «ontologie», che in questo caso stanno ad indicare le possibilità di applicazione della tecnologia, rispondendo anche alle domande di Ground Truth. Anche per questo tale concetto deve essere declinato al plurale. «Ontology in the philosophical tradition – the study of what it is possible for reality to be – is distinguished from domain-specific ontology (and its plural, ontologies) representing user-dependent, partial accounts of reality.»[43]

Ovviamente, il problema è come dare a tali concetti forma rappresentabile nel software; per questo nell’articolo citato Schuurman, e la collega Leszczynski propongono l’esempio di una griglia di otto campi per ognuno dei quali si individuano dei criteri che rendono possibili determinate funzioni. Ad esempio, se un GIS ha delle funzioni classificatorie è necessario che i dati contengano gli schemi peculiari, il lessico completo e tutte le varianti della specifica tassonomia di cui ci si dovrà occupare. La proposta è di interessare al problema chi progetta i software, e inserire  queste previsioni negli standard come ISO 19115, che sono appunto le specifiche ufficiali che certificano, entro certe soglie di tolleranza, la qualità e l’interscambiabilità dei dati.

Table 1. Metadata fields for capturing ontological information. In N. Schuurman, A. Leszczynski, Ontology-Based Metadata, “Transactions in GIS”, 10/5 (2006),
718.
Table 1. Metadata fields for capturing ontological information. In N. Schuurman, A. Leszczynski, Ontology-Based Metadata, “Transactions in GIS”, 10/5 (2006), 718.

Da questo contributo si può desumere come nel passaggio, a partire dalla seconda parte degli anni ’90, da «GIS and society» a «Critical GIS», l’approccio critico alla tecnologia non si esprima più con quel linguaggio « esoterico » (ossia filosofico e non tecnico) che i vari Openshaw rimproveravano ai suoi promotori. Permangono tuttavia, come vedremo in conclusione, perplessità su come si possano inserire concetti complessi in quella che rimane la rigida struttura logica dei database.

Uno degli ambiti in cui la scienza del GIS ha tentato di superare l’esclusione dei più dall’accesso ai dati è stata l’ambito del GIS partecipativo, o Public Participatory GIS (PPGIS), o PGIS for participatory GIS, ossia una serie di iniziative, spesso a base locale, con le quali si è tentato di utilizzare il GIS per rendere fattiva la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche. Ambito la cui nascita negli anni ’90 è stata stimolata proprio dalle pubblicazioni di cui ci stiamo occupando.

Ground Truth pointed to many weaknesses in the ways GIS was being used, particularly to the ways in which it further privileged those in power, who had easy access to it, and marginalized others. The field of Participatory GIS has emerged out of this critique, and in many ways owes its existence and its marching orders to the book.[44]

Sarah Elwood ha recentemente puntualizzato alcuni dei problemi e delle contraddizioni di questo percorso. Intanto la sempre maggiore disponibilità di software e hardware a costi più contenuti e con caratteristiche user-friendly non ha eliminato il digital divide fra cittadini e associazioni da una parte, istituzioni e corporation dall’altra. 

I would argue that technological developments in the past decade may widen the gap between the most advantaged geospatial technology users and the most disadvantaged (...) Comparatively, the geospatial technology and data resources of the public and private institutions with which these groups interact have dramatically increased.[45]

Anche le utilità WebGIS, che permettono di operare in rete senza necessariamente avere installato i software sul proprio pc, o i sistemi opensource come GRASS non hanno eliminato il problema, permanendo alla base la questione delle ampie fasce di popolazione escluse dalla rete, o da sue importanti funzionalità come la navigazione a banda larga.

Anche in quelle situazioni, secondo Elwood, in cui il PPGIS è diventato mainstream, non c’è sempre stata attenzione fattiva alle dinamiche di inclusione ed esclusione, e difficilmente le associazioni di base e i gruppi più marginali sono riusciti ad aumentare la propria forza, questione che era invece alla base dell’idea di GIS partecipativo.

Dieci anni dopo

A dieci anni da Ground Truth, Pickles registrava comunque il permanere di una certa separazione fra i due campi, e di una attualità del dibattito che proprio fra 2005 e 2006 ha suscitato, con gli articoli citati di seguito, un rinnovato interesse  presso le riviste geografiche. Problemi, secondo Pickles, rimangono nelle Università per il fatto che spesso gli studenti del GIS non frequentano corsi di storia ed epistemologia della geografia, mentre gli studenti di geografia umana non sono preoccupati di una preparazione tecnica. Nel frattempo la tecnologia ha lanciato nuove sfide non solo alla disciplina ma a tutta la società. E’ diventato ad esempio alla portata di tutti il sistema che era stato lanciato nel 1982 dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, il Navstar Global Positioning System (GPS), che a sua volta pone dei problemi sull’origine dei dati che fornisce, dal momento che le autorità militari hanno imposto un serio “divide” su due livelli di informazione:

a ‘robust’ one (nearly instantaneous and accurate within 30 m) and designed exclusively for US military use and a ‘degraded’ one (time-delayed and accurate within 100 m) designed for other users, including researchers studying on research grants from NASA and other US agencies.[46]

Le questioni che solleva lo studioso americano sono dunque di natura ancora politica, ma anche epistemologica: la necessità, per gli specialisti delle discipline geografiche come per il sempre più numeroso pubblico, di avere trasparenza e completezza nei dati. Rivendica comunque come risultato di Ground Truth, e di altri contributi dello stesso periodo come quello curato da Sheppard, il merito di aver contribuito a conseguire sia pur parziali

broader theoretical goals and a different institutional role for GIS in Geography and the broader academy, in turn transforming the role GIS now plays in research and education through a much more diverse set of approaches, theoretical concerns, and applied contexts.[47]

Sulla stessa rivista anche Goodchild ha riconosciuto di recente che molti dei problemi non hanno ancora trovato una risposta, perché a dispetto di quanti affermavano che la grande versatilità del GIS avrebbe permesso di superare la logica cartesiana ed indagare spazialità differenti, come quelle oggetto di studio della geografia culturale e sociale,

questions of representation remain high on the agenda in this new post-Ground Truth GIScience. We continue to work almost exclusively in Cartesian space, and to argue that positional accuracy within an absolute Earth frame is an essential characteristic of GIS.[48]

Questo come abbiamo visto continua a comportare varie questioni: per fare un esempio, conoscere con la massima accuratezza e con il minimo margine di errore possibile le coordinate geografiche ed altimetriche di un villaggio dell’Afghanistan potrebbe non servire a un geografo che ne debba studiare la cultura, la storia, l’economia e la società; può essere invece molto utile a un militare che debba bombardarlo.

Nello stesso articolo di Pickles, apparso per introdurre il numero monografico di  «Transactions in GIS», si fa riferimento a novità come Google Earth o le applicazioni RFID (Radio Frequence Identification). In particolare la prima, nata a sua volta come tecnologia militare, si pone come ultimo sviluppo delle forme di rappresentazione grafica del mondo, con i relativi problemi riguardo cosa, come e perché nella sua visualizzazione si veda o no, sia enfatizzato o meno. Riflessione ancora più importante visto che si tratta di un fenomeno che ha successo e diffusione fra numeri sempre più alti di utenti, spesso fino a quel momento estranei a questioni di geografia. Tutti argomenti che il geografo ha il compito di indagare.

Anche «Cartographica», a dieci anni da Ground Truth, esce con un numero dedicato all’argomento. Vi interviene ancora Sheppard che, tracciando un bilancio del percorso, battezza l’ambito del Critical GIS, come un «programma di ricerca», inteso nel senso di Imre Lakatos, che costituisce «the interface between geographic information science and geographical social theory.»[49] Questo nonostante la situazione sul campo faccia premettere ai curatori dell’opera che tuttora «critical GIS remains an oxymoron for many GIS users and critical social theorists.»[50]

Per definire questo programma di ricerca, si fa riferimento al paradigma della «geografia critica», includendo sotto questo ampio ventaglio, a partire dalla definizione di critical theory proposta dalla scuola di Francoforte, tutte quelle tendenze che dalla radical geography in avanti, stanno portando avanti un discorso scientifico in parallelo con una critica politica e sociale dell’esistente. Si sottolinea quindi la difficoltà a fare rientrare la tecnologia nei quadri ontologici delle geografie critiche e umanistiche, questione esemplificata da un doppio disegno.

Figure 2. Representing critical geography. In E. Sheppard, Knowledge production through Critical GIS: Genealogy and Prospects, 'Cartographica', 40/4 (2005),
11.
Figure 2. Representing critical geography. In E. Sheppard, Knowledge production through Critical GIS: Genealogy and Prospects, 'Cartographica', 40/4 (2005), 11.

Tuttavia per Sheppard la questione attira molta attenzione visti i numerosi interventi che hanno riguardato questo ambito di ricerca nel corso dei meeting della Association of the American Geographers (AAG) tenuti a Los Angeles nel 2002 e a Philadelphia nel 2004. In particolare, l’ambito del Critical GIS ha il potere di attrarre «a wide variety of scholars who do not approach it from a critical theory background.»[51]

La collaborazione fra questi e i «geografi critici», si osserva, potrebbe approfondire, oltre agli esempi già esposti sull’utilizzo dei metadata, il lavoro sulla progettazione di software più funzionali alle applicazioni sociali del GIS, dal momento che finora «critical GIS has found himself dancing more to the tune of GIS-as-we-know-it than was anticipated, rather than remaking or rethinking the technology.» [52]

I principali problemi che rimangono aperti, per Sheppard, sono la ridiscussione delle capacità democratizzanti del PPGIS anche alla luce della sempre maggiore diffusione delle Geographic Information Technologies (GITs), come appunto i GPS e le citate  funzionalità « geografiche » della rete; il superamento delle asimmetrie nella produzione culturale geografica, in particolare quella fra Università e comunità, e quella fra il Nord e il Sud del mondo; in questo senso questo programma di ricerca andrebbe inserito nei dibattiti sulla filosofia della scienza, cercandovi lo spazio per le sue «epistemologie locali».

Possiamo concludere notando che proprio nella presentazione dell’articolo che ha dato l’avvio a tutto questo dibattito, l’autore Dobson è presentato come operatore del laboratorio nazionale di Oak Ridge della Union Carbide.[53] Proprio la multinazionale  coinvolta nel disastro di Bhopal del dicembre 1984, che costò la vita a migliaia di persone. A riprova che oltre alla necessità di curare la qualità dei dati e delle tecnologie, resta l’urgenza di mettere in opera gli strumenti della critica e dell’etica nel dibattito scientifico, anche perché proprio questo campo ha sempre  amato rappresentarsi come vettore del progresso umano.

Note

[1] J. Dobson, Automated Geography, «The Professional Geographer», 35/2 (1983), 135-143.

[2] Ivi, 135.

[3] W. Gibson, Neuromancer, New York, Ace Books, 1984.

[4] Si veda ad esempio M. Castells, La nascita della società in rete, Milano, Bocconi, 2002.

[5] Dobson, Automated Geography, cit., 138, 141.

[6] F. Ferretti, La doppia voce di Brian Harley: immagine e potere nella storia della cartografia, «Storicamente», 3 (2007), http://www.storicamente.org/03ferretti.htm.

[7] M. N. Demers, Fundamentals of Geographic Information Systems, Hoboken, John Wiley & Sons, 2003, 6.

[8] Ivi, 7.

[9] J. Pickles, Discourse on Method and the History of Discipline: reflections on Dobson‘s 1983 Automated Geography, «The Professional Geographer», 45/4 (1993), 451.

[10] Ivi, 452.

[11] Ivi, 453.

[12] N. Smith, History and philosophy of geography: real wars, theory wars, «Progress in Human Geography», 16/2 (1992), 257-271.

[13] N. Schuurman, Critical GIS: theorizing an emerging science, «Cartographica» (Monograph 53), 36/4 (1999), 14.

[14] V. Guarrasi, Mappe digitali di un mondo polifonico: i GIS e la ricerca geografica, «Geomedia», 5 (2004), 6.

[15] M. F. Goodchild, Geographical Information Systems and Geographical Research, in: J. Pickles (ed.), Ground Truth: the Social Implications of Geographic Information Systems, New York/London, The Guilford Press, 1995, 32.

[16] Ivi, 36.

[17] P. J. Taylor, R. J. Johnston, Geographical Information Systems and Geography, in: Pickles (ed.), Ground Truth, cit., 58.

[18] Ivi, 59.

[19] Ivi, 61.

[20] M. Curry, Geographic Information Systems and the Inevitability of Ethical Inconsistence, in: Pickles (ed.), Ground Truth, cit., 80.

[21] S. Roberts, R. Schein, Earth Shattering: Global Imagery and GIS, in: Pickles (ed.), Ground Truth, cit., 183-184.

[22] E. Sheppard (ed.), GIS and society: towards a research agenda, «Cartography and Geographic Information Systems», 22 (1995).

[23] E. Sheppard, Sleeping with the enemy, or keeping the conversation going?, «Environment and Planning A», 27 (1995), 1027.

[24] S. Openshaw, The truth about Ground Truth, «Transactions in GIS», 2/1 (1997), 7.

[25] Ivi, 9.

[26] Ivi, 13.

[27] Ivi, 22.

[28] D. O’Sullivan, Geographical Information Science: critical GIS, «Progress in Human Geography», 30/6 (2006), 783.

[29] Ivi, 784.

[30] S. Openshaw, The truth about Ground Truth, cit., 9.

[31] N. Schuurman, Formalization Matters: Critical GIS and Ontology Research, «The Annals of the Association of American Geographers», 96/4 (2006), 727.

[32] D. J. Wright, M. F. Goodchild, J. D. Proctor, Demystifying the persistent ambiguity of GIS as “Tool” versus “Science”, «The Annals of the Association of American Geographers», 87/2 (1997), 347.

[33] Ivi, 351.

[34] Ivi, 352.

[35] Ivi, 356.

[36] Ivi, 357.

[37] J. Pickles, Tool or science? GIS, Technoscience, and the Theoretical Turn, «The Annals of the Association of American Geographers», 87/2 (1997), 363.

[38] Ivi, 364.

[39] Ivi, 367.

[40] Ivi, 369.

[41] Ivi, 370.

[42] Schuurman, Critical GIS: theorizing an emerging science, cit., 19.

[43] N. Schuurman, A. Leszczynski, Ontology-Based Metadata, «Transactions in GIS», 10/5 (2006), 712.

[44] M. F. Goodchild, GIScience ten years after Ground Truth, «Transactions in GIS», 10/5 (2006), 688.

[45] S. Elwood, Critical Issues in Participatory GIS: Deconstructions, Reconstructions, and New Research Directions, «Transactions in GIS», 10/5 (2006), 698.

[46] J. Pickles, Ground Truth 1995-2005, «Transactions in GIS», 10/5 (2006), 766.

[47] Ivi, 769.

[48] Goodchild, GIScience ten years after Ground Truth, cit., 690.

[49] E. Sheppard, Knowledge production through Critical GIS: Genealogy and Prospects, « Cartographica », 40/4 (2005), 5.

[50] F. Harvey, M. Kwan, M. Pavolvskaya, Introduction: Critical GIS, «Cartographica», 40/4 (2005), 3.

[51] Sheppard, Knowledge production through Critical GIS: Genealogy and Prospects, cit., 12.

[52] Ivi, 13.

[53] Dobson, Automated Geography, cit., 135.