Storicamente. Laboratorio di storia

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Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Roma-Bari, Laterza, 2011, VII-207 pp.

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La storia di questa famosissima foto inizia nel 1943 con la liquidazione del ghetto di Varsavia. Non si tratta di uno scatto isolato, ma di una delle circa 115 fotografie che compongono l’album allegato al rapporto Stroop. Alcune sono facilmente databili, altre non forniscono indizi sufficienti a garantire una datazione precisa. Anche sulla foto del bambino, nel 1978 pesarono alcuni dubbi, legati principalmente all’identità del ragazzo che, per la prima volta, veniva rivendicata da diverse parti. La notizia non sfuggì ai negazionisti che tentarono di indirizzare i dubbi verso la negazione stessa dello sterminio.

Il primo uso pubblico del documento risale al 1945, quando il rapporto Stroop fu presentato davanti al Tribunale di Norimberga come prova a carico nel processo contro i nazisti. Tuttavia, l’immagine non aveva ancora acquisito un’autonomia rispetto al resto dell’album e, dopo il processo, cadde nell’oblio per circa un decennio. Negli anni ’50, conobbe una fugace apparizione nel film di Resnais Notte e nebbia, ma l’opinione pubblica non era ancora pronta a misurare le dimensioni e la specificità dello sterminio degli ebrei. All’indomani della guerra, lo spazio pubblico era infatti ancora dominato da una lettura generalizzante dell’universo concentrazionario e dal mito resistenziale che opponeva inesorabilmente alle vittime «resistenti» le vittime «passive». La stessa opposizione veniva rivendicata con forza dai fondatori dello Stato d’Israele che si appropriarono dell’eredità politica e morale dell’insurrezione di Varsavia per assimilare gli insorti ai combattenti sionisti e prendere le distanze da un modello diasporico dal quale, con la costruzione di Eretz Israel, ci si voleva emancipare. Numerose voci ebraiche contribuirono così ad accreditare la tesi della «passività» di fronte allo sterminio.

Nel panorama memoriale di questi anni, non sorprende allora che la fotografia abbia avuto molte difficoltà a trovare uno spazio. Nondimeno, per piccole incursioni successive, il bambino del ghetto non solo ha colmato il suo svantaggio, ma è riuscito addirittura a sostituire gli «eroi». Nel 1960, l’immagine compare ne La stella gialla di Gerhard Schoenberner. Lo storico ripercorreva le tappe dello sterminio equiparando tutte le vittime in quanto la loro sopravvivenza sarebbe stata di per sé una vera e propria forma di resistenza. La stella gialla apriva così una breccia in un racconto che per anni era stato egemonizzato dalle rappresentazioni marziali e eroiche. Nel 1969, il bambino conquistava la copertina dell’edizione inglese del libro. La sua iconizzazione iniziava ad avanzare. A partire dagli anni ’70 le riproduzioni si moltiplicano: gli autori di manuali scolastici non smetteranno più di riprenderla.

Negli anni ’80, la foto pervade tutte le forme di espressione, supera tutte le frontiere affrancandosi sempre di più dalla storia del ghetto di Varsavia e da quella degli ebrei d’Europa, tanto da poter essere usata a sostegno di cause che non hanno nessun legame diretto con la Shoah. Il libro di Rousseau racconta l’ascesa del bambino di Varsavia allo statuto di icona della Shoah e di figura universale della vittima spiegando come questo documento fotografico abbia conquistato la memoria collettiva per la sua capacità di mobilitare le memorie nazionali dell’Occidente. Secondo l’a., gli storici avrebbero dato un contributo decisivo nel processo di iconizzazione, ma solo perché le condizioni sociali, politiche e culturali furono favorevoli a tale processo. Oggi, la fotografia è diventata vittima della sua grande efficacia. Non è più un documento, non informa più: ha cessato di essere archivio. Con la sua sovraesposizione, la foto ha saturato la nostra memoria. Rousseau si chiede se non sia stata confusa la conoscenza storica con il consumo memoriale. Per rimanere documenti storici, le immagini devono essere contestualizzate. Grazie all’effetto cumulativo di inquadrature sempre più strette sul bambino si sarebbe invece giunti a una pedagogia dell’emozione e l’evento tragico sarebbe stato inghiottito dalla carica emotiva di un’immagine che non fa più appello alla conoscenza per mobilitare solo la commozione.