Storicamente. Laboratorio di storia

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M. Rospocher, Beyond the Public Sphere. Opinions, Publics, Spaces in Early Modern Europe, Bologna, Il Mulino – Berlin, Dunker amn Humblot, 2012, 304 pp.

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Pur riconoscendo il valore ermeneutico della categoria di «sfera pubblica», la storiografia della prima età moderna ne ha portati alla luce i limiti alimentando un dibattito che, se non ha ancora delineato un paradigma alternativo a quello offerto dalla Strukturwandel der Öffentlichkeit di J. Habermas, ha aperto una fase di «transizione storiografica» (Rospocher, pp. 9-28) della quale i saggi raccolti in questo volume rendono conto in maniera articolata.

Attraverso studi di caso dedicati alla Venezia delle Guerre d’Italia (Rospocher – Salzberg, pp. 93-114) e alla Bologna del XVII secolo (De Vivo, pp. 114-136), alla Spagna di Antico regime (Castillo Gómez, pp. 227-248) e all’Olanda del XVI secolo (van Dixhoorn, pp. 249-269), la sfera pubblica si amplia fino a includere spazi, mezzi di comunicazione e soggetti che non avevano trovato posto nel paradigma habermasiano. Spostando più in là i suoi confini fisici e temporali diventa così possibile rinvenire un’anticipazione dell’«opinione pubblica» in senso moderno anche nelle Istorie Fiorentine di Machiavelli, che con il termine «umore» sembra indicare una normatività capace di farsi valere nei confronti del potere pur essendo irriducibile a un atto linguistico coerente e intenzionale (Landi, 137-174). D’altra parte, la stessa «razionalità» imputata alla moderna opinione pubblica va considerata un costrutto che – come mostra l’analisi della Geometria di Descartes e della sua influenza su Philip Sidney – lega la genesi dell’individuo e quella del «pubblico» (Raman, pp. 167-190). Lungi dall’essere uno spazio istituzionalizzato e trasparente, quest’ultimo è un ambito che può essere «usato» anche attraverso l’anonimato per veicolare posizioni critiche – è il caso della diffusione del dialogo Iulius, di Erasmo da Rotterdam (Seidel Menchi, pp. 191-204) –, è un prodotto dell’azione individuale sebbene al contempo produca possibilità imprevedibili di scambio e comunicazione tra gli individui, come avviene per quella notevole anticipazione dei moderni social network che è l’Album Amicorum del XVI e XVII secolo (Wilson, pp. 205-223). Accanto a questa comunicazione «orizzontale» si apre il problema del rapporto tra opinione e potere: lo Stato non è solo la controparte della discussione critica, ma anche una forza trainante nello sviluppo della sfera pubblica, che deve essere addomesticata – con l’istruzione e la propaganda – per arginare la tensione tra l’opinione pubblica come fonte di sovranità, da una parte, e come oggetto di disciplina e controllo dall’altra (Walton, pp. 271-287). Una tensione sempre presente nella cultura illuministica, che l’aveva neutralizzata attribuendo all’opinione la capacità di suscitare, dall’oscurità del segreto, idee dotate di ragionevolezza e perciò capaci di svolgere nei confronti delle istituzioni una funzione antiautoritaria (Tortarolo, pp. 289-302).

La contrapposizione tra pubblicità e segreto riconduce a uno dei tratti salienti del paradigma di Habermas, che sulla scia della riflessione di Koselleck delinea il percorso progressivo che conduce al dispiegamento della modernità come epoca, a sua volta legato a una spoliticizzazione della società (Benigno, pp. 53-72). È qui che s’installa il tentativo di individuare un’alternativa analiticamente valida nella sociologia sistemica di Niklas Luhmann, per il quale lo Stato non è tanto la controparte della società quanto uno dei suoi sottosistemi funzionali, e si costituisce esso stesso attraverso la comunicazione al proprio interno e con gli altri sottosistemi (Gestrich, pp. 31-52). La concezione luhmaniana della comunicazione, d’altra parte, è svincolata da ogni teoria della trasparenza e della piena razionalità e permette dunque di concepire lo spazio politico all’intreccio tra la semantica colta e quella popolare come luogo nel quale a essere protagonista non è l’individuo privato ma una moltitudine di soggetti che si costituiscono come unità attraverso la comunicazione stessa (De Benedictis, pp. 73-90). Se pure non siamo di fronte a una compiuta «rivoluzione epistemologica», l’indicazione teorica contenuta nel volume è particolarmente fertile perché aspira a dare ragione di una complessità altrimenti oscurata dal paradigma habermasiano. Non è un caso che quest’ultimo sia messo in discussione proprio dalla storiografia della prima età moderna, sulla cui analisi Luhmann si era concentrato per elaborare una teoria dell’evoluzione sociale capace di dare conto delle variazioni semantiche intervenute con il passaggio da una società stratificata a una differenziata funzionalmente. In questo senso, l’indicazione teorica avanzata nella prima parte di questo volume potrebbe essere sviluppata proprio alla luce della funzione di legittimazione della società come ordine che Luhmann attribuisce alla semantica colta, e dunque nella direzione di mettere in discussione il paradigma giuridico della sovranità su cui riposa la concezione habermasiana della sfera pubblica, non meno che la modernità al cui interno quella concezione acquisiva validità.