Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Il «Medioevo contraffatto» di Emma Perodi. L’ombra del Sire di Narbona

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Premessa

Nell’ambito del dibattito sulla dialettica fra la letteratura e la storia e sull’opportunità di utilizzare i testi letterari anche come fonti storiche, l’analisi di un’opera come le Novelle della Nonna. Fiabe fantastiche di Emma Perodi, pubblicata nel 1893, implica il ricorso a un triplice piano interpretativo: da un lato, occorre considerarne il valore di testimonianza del contesto storico, politico, culturale e sociale nel quale essa fu concepita – l’Italia post-unitaria, con la sua imprescindibile esigenza di fondare solidamente l’identità nazionale attraverso specifiche strategie di acculturazione rivolte, tramite l’editoria e la letteratura scolastica e dell’infanzia, al numero crescente di ‘neo-alfabetizzati’ che formavano un pubblico sempre più ampio [Porciani 1989, 173-191] –; dall’altro, è opportuno verificarne l’effettiva capacità di reinvenzione storico-letteraria del passato ben definito di un luogo ben definito: nello specifico, il Casentino toscano fra XIII e XIV secolo. Infine, è necessario ribadirne la natura letteraria, seppur rivestita, anche per l’ambiguità della duplice denominazione di Novelle/Fiabe, dell’allure di una tradizione in apparenza folklorica e popolare.

Ritratto di Emma Perodi. Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi, 1974 (I ed. 1893), frontespizio.
Ritratto di Emma Perodi. Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi, 1974 (I ed. 1893), frontespizio.

Emma Perodi, nata a Firenze nel 1850 da una famiglia della borghesia medio-alta, giornalista, scrittrice per l’infanzia, traduttrice, romanziera, dopo avere compiuto i suoi studi a Pisa, a Berlino e a Torino, dal 1877 iniziò a scrivere per la Gazzetta d’Italia; al 1883 risale la sua collaborazione con l’editore Edoardo Perino, lo “stampatore del popolo”, promotore di una produzione letteraria di grande successo popolare che comprendeva romanzi d’appendice, periodici, dispense illustrate sui temi più svariati, storici, edificanti, politici e, anche, licenziosi[1]. Nel 1883 divenne collaboratrice del Giornale per i Bambini, diretto da Carlo Lorenzini, il Collodi di Pinocchio, che di fatto sostituì nei suoi compiti di direttore[2]; dopo la morte del Perino, avvenuta nell’agosto del 1895, si trasferì a Palermo – dove morì nel 1918 -, per coordinare i programmi della casa editrice di Salvatore Biondo[3].

La Perodi, dunque, portò avanti in parallelo la duplice attività di giornalista e scrittrice, riprendendo un’attitudine diffusa, volta a mantenere il nuovo pubblico di lettori attraverso il circolo virtuoso di una familiarità sempre maggiore con gli autori più in voga, che i lettori ritrovavano appunto nelle diverse forme della dispensa divulgatrice, dell’articolo edificante, del romanzo, del testo scolastico. In tal senso, ella si colloca appieno in una temperie culturale e politica che, nel timore di una lettura ‘indifferenziata’ e inconsapevole da parte del neonato pubblico di massa, portò alla creazione di libri ‘autosufficienti’ e ‘totali’ [Faeti 1974, XXXIII]. In essi, gli autori definivano una dimensione assoluta, non limitata a una parte o a un settore della realtà, ma comprendente il mondo intero, all’interno del quale le categorie universali di ‘male’ e di ‘bene’ ricevevano un’opportuna e mediata catalogazione. Il libro totale per eccellenza fu il Cuore deamicisiano, pubblicato nel 1886, forte di quarantuno nuove edizioni nei due mesi e mezzo successivi alla sua prima uscita, modello invincibile per almeno mezzo secolo, autentico "Vangelo" che, come tale, conobbe un vasto fiorire di apocrifi, secondo la bella definizione di Antonio Faeti[4].

Il Casentino delle fiabe fantastiche

Nel 1893 a Roma, nella collana “Biblioteca fantastica” del Perino, uscirono i cinque volumi delle Novelle della Nonna: fiabe fantastiche, articolate sul doppio registro della vita della famiglia Marcucci, contadini nel podere di Farneta presso Camaldoli, nel Casentino della fine dell’Ottocento, ciò che costituisce la cornice ‘realistica’ dell’opera, e delle quarantacinque novelle, narrate dalla Nonna Regina durante le veglie invernali e le belle serate estive a figli, nuore e nipoti, ambientate tutte, tranne una, nel Casentino medievale.

Il Casentino si pone, dunque, come insopprimibile costante territoriale cui è affidato il compito di unificare il doppio binario della narrazione, e dalla cornice trapela l’ impegno istituzionale, con una cura particolare per l’istruzione dell’infanzia animata da precisi intenti educativi e moralizzanti, riflessi anche nella cronologia dipanata lungo lo scorrere delle stagioni sul modello del ‘lunario’, del calendario agricolo tuttora assai diffuso nelle campagne italiane [Faeti 1974, XX-XXII, XXXI e ss.].

Nella biografia della famiglia Marcucci si colgono, infatti, vari elementi funzionali a legittimare un idealtipo toscano/italico di vita contadina seria, operosa e industriosa, fondata in primo luogo su di un’etica del lavoro rivolta nei momenti di difficoltà anche oltre il guscio rassicurante del podere mezzadrile – il figlio minore di Regina, Cecco, accetterà un lavoro come cantoniere sulla via provinciale lasciando i campi; la piccola Annina, figlia del capoccia Maso, andrà a servire presso la casa dei signori Durini, mentre l’idea della locazione estiva del podere prefigura in una sorta di agriturismo ante litteram l’attuale destino delle piccole proprietà rurali toscane[5]. Ugualmente fondativi di tale idealtipo risultano essere la concordia familiare, la forza dell’amore coniugale – il giovane Cecco sposerà la bella Vezzosa, e Annina finirà per maritarsi con Carlo Buoni, figlio del direttore dell’albergo di Camaldoli e direttore a sua volta di un albergo a Firenze, in una mésaillance che la purezza, la grazia, il garbo e la freschezza della giovane permetteranno di superare -, il rispetto per gli anziani e la Patria da poco unificata: Cecco, artigliere per due anni, l’unico capace di leggere e il primo ad avere servito nell’esercito nazionale e ad avere visitato Piemonte e Sicilia, durante la malattia di Regina leggerà alla famiglia riunita Le Mie Prigioni, di Silvio Pellico, «perché non è di quelli che mettono grilli in testa» [Perodi 1974, 11, 122, 135, 538-539, 590].

Anche da questi accenni, è evidente la funzione della cornice, dove la celebrazione del modello toscano riflesso nella microstoria della famiglia Marcucci rivela gli intenti didattico-pedagogici cui si è accennato, ponendosi come rappresentazione del contesto contemporaneo orientata da precise esigenze politiche e sociali.

In modo analogo, al signor Durini, il funzionario che nella sua qualità di nuovo ispettore forestale della vallata rappresenta lo Stato appena sorto, è affidato il compito di esaltare la conduzione mezzadrile come massima espressione di una civiltà contadina fondata sul rispetto e il mantenimento di un antico sistema di valori sociali, economici, produttivi:

Questi sono paesi che vantano un’antichissima civiltà; e poi il sistema di divisione della terra fa sì che il contadino si affezioni al podere che coltiva. In Calabria, in Basilicata…le vaste distese di terreno appartengono ai signori che vivono lontano e non si curano di farle fruttare. Basta loro ritirare il fitto, e se i contadini non le coltivano, peggio per loro. Qui il proprietario non affitta i poderi; li dà a mezzadria al contadino, il quale ha interesse di farli fruttare senza esaurirli, e questa cura del lavoratore per la terra, che è sempre rimuneratrice, si traduce in belle raccolte e dà al paesaggio quell’aspetto gaio, gentile, ridente. Siamo sui greppi di alti monti; la neve copre per più mesi queste terre, i venti impetuosi vi dominano, eppure l’uomo è riuscito a dare a questi terreni l’aspetto di un verde giardino non interrotto. Oh, se tutta l’Italia fosse così. Quanta meno miseria e quanti meno malati di pellagra![6].

Il professor Luigi, suocero del Durini e affittuario estivo in casa Marcucci, rappresenta invece l’escamotage con il quale l’autrice evidenzia, accanto all’ambiguità della doppia intitolazione novelle/fiabe, la fittizia dimensione folklorica della sua opera. Così, infatti, il professore si rivolge a Regina: «Se mi permettete, la prossima volta che voi racconterete una novella, io la scriverò, e in seguito darò alle stampe la narrazione raccolta dalla vostra bocca, senza cambiarvi una parola» [Perodi 1974, 473].

Dalla metà del XIX secolo, i cosiddetti demopsicologi – di cui la Perodi fornisce qui una precisa descrizione – condussero, infatti, lungo il territorio nazionale una paziente opera di raccolta e trascrizione delle fiabe popolari dalla viva voce di coloro – di solito le donne più anziane – che nelle diverse comunità erano deputati alla narrazione. Sono gli anni delle raccolte di novellistica locale dell’Imbriani e del Pitrè, sulla falsariga di quanto accadeva in Europa a partire dall’opera dei fratelli Grimm[7]. Emma Perodi conobbe il Pitré e conobbe certamente a fondo le ricerche contemporanee volte a raccogliere e fissare nello scritto la ricchezza della cultura popolare orale. D’altra parte, però, malgrado la sua abilità nel mascherare le novelle dell’abito del folktale, ricorrendo alla cornice, alla novellatrice rituale, agli oggetti, alle funzioni dei personaggi, alle situazioni-tipo delle fiabe tradizionali [Thompson 1967, Propp 1972, 1985; Cardini 2000, 69-72, 78 n. 5], è opinione ormai condivisa dagli studiosi che in realtà l’opera non abbia legami certi con la tradizione orale, rielaborata molto liberamente dall’autrice in una dimensione letteraria in cui la cultura 'alta' si intreccia alla 'bassa' secondo modalità di composizione e narrazione tipiche del pastiche, del mosaico, quasi del bricolage.[8]

La doppia intitolazione dell’opera[9] nel proporre come sinonimica la coppia novella/fiaba[10] adombra, dunque, fin dall’esordio, una sorta di ‘ambiguità’ di fondo delle novelle, da un lato racconti radicati in un passato medievale verosimile, – seppur reinventato secondo i moduli della riscoperta romantica del Medioevo inteso come fase primitiva, eroica e popolare della civiltà europea [Artifoni 1997; Porciani 2004], riflessa in ambito letterario e artistico in un’estetica fondata sul gothic revival e sul ‘pittoresco’ e diffusa in modo trasversale a ogni livello della società[11], – grazie a una messinscena topografico-paesaggistica e cronistica che anche quando gli elementi magici e leggendari sembrano prevalere mantiene il contesto riconoscibile e ancorato in un tempo comunque ‘storico’, non nell’illud tempus della fiaba [Cardini 2000, 70]; dall’altro e al tempo stesso fiabe fantastiche, popolate di santi, diavoli, madonne, oggetti magici, grotte, fonti sacre, nani, lupi mannari, streghe, befane, barbagianni, scheletri, teschi e lunghe file silenziose di spettri, ora supplicanti ora minacciosi ora rassegnati.

L’ambiguità semantica prosegue nel delineare la figura di Regina quale prototipo/archetipo della novellatrice popolare, depositaria di un sapere aurorale e primitivo che rischia di essere perduto per sempre se non raccolto, rinarrato e riscritto: Regina decide di narrare tutte le fiabe – «fiabe meravigliose che ella aveva udito a sua volta dalla propria nonna e dalle vecchie del vicinato» [Perodi 1974, 6] – nel corso di un anno poiché teme di morire senza avere tramandato il suo sapere, e il testimone viene raccolto idealmente da Annina, protagonista dell’elevazione sociale della famiglia Marcucci, e in modo più ‘istituzionale’ dal professor Luigi, incarnazione dello studioso che, paternamente, si preoccupa di recuperare le memorie popolari, nella consapevolezza della forza identitaria della storia e delle storie passate. L’efficacia narrativa e mimetica della Perodi fu tale che, in Casentino, si mostrava anni or sono il focolare intorno al quale Regina avrebbe narrato ogni sera le sue novelle: la nonna è celebrata, dunque, come se fosse davvero esistita e, come nota il Faeti, un prodotto letterario è divenuto parte della memoria collettiva dalla quale, in realtà, avrebbe dovuto essere ricavato, malgrado la natura del linguaggio di Regina, colto e raffinato, si ponga in palese contraddizione rispetto all’ipotesi di un’autentica origine popolare delle fiabe fantastiche[12].

Il compromesso tra oralità a scrittura, tra cultura del popolo e cultura delle élites, è utilizzato dall’autrice per educare i fanciulli italiani attraverso la memoria del passato e la coscienza dell’identità storica, sociale e culturale, in nome di un ethnos regionale fatto di una memoria storica di gruppo, di norme, di istituzioni sociali e di una lingua condivise, estendibile all’intero territorio italiano inteso come novella madrepatria [Agostini-Ouafi 2005, 70 e ss.].

Il Casentino – la regione montuosa che occupa l’alta valle dell’Arno dalle sorgenti alla piana aretina, delimitata a nord dal monte Falterona, a ovest dalla catena del Pratomagno, a est dalle alpi di Serra e di Catenaia. – è, come già accennato, il luogo di elezione di questo Decameron rustico, nel quale i piani narrativi della cornice e dei racconti si compenetrano continuamente proprio in virtù della comune collocazione entro un microcosmo in cui nomi, cose, luoghi appartengono sia al pubblico sia ai protagonisti[13]. Divenuto custode di una storia nella quale immergersi anche per legittimare il presente il Casentino è, in effetti, raffigurato con amore e competenza e, soprattutto e nuovamente, con una straordinaria abilità mimetica, quasi di contraffazione: non si sa, infatti, se Emma Perodi vi abbia mai soggiornato, mentre sono note fra le sue fonti geografico-letterarie il Calendario Casentinese (1837-1841) e la Guida al Casentino del Beni, del 1881[14].

La geografia ‘reale’, teatro del quotidiano dei Marcucci, contiene, però, nello stesso quotidiano una dimensione altra, fantastica e soprannaturale, dovuta al coesistere del mondo storico e terreno con l’ultraterreno e soprannaturale. In effetti, la precisione del racconto, l’accurato disegno dei luoghi e della topografia, il richiamo agli eventi storici salienti del basso Medioevo toscano permettono all’autrice, accostando termini credibili e domestici a frammenti incongrui e remoti, di fruire dei moduli del fantasticare nell’ambito di un ininterrotto processo di ridefinizione immaginativa: quasi che l’acribia descrittiva e didattica le consentisse poi un libero uso delle paure, del diverso, dell’oscuro, dell’indefinito [Faeti 1974, LII.].

Nonna Regina e Stephen King: le novelle ‘horror’

Regina Marcucci «racconta fiabe che avrebbero impaurito Stephen King» [Faeti 2001a, 117] e, da questo punto di vista, la Perodi riesce a superare l’abisso che in Italia separava l’alta e la bassa cultura letteraria e che ostacolò a lungo ogni tipo di mediazione, a differenza di quanto si andava verificando nel resto dell’Europa[15]: vi riesce inserendo la dimensione fantastica, gotica, medievaleggiante in un genere a sua volta minore, la letteratura per l’infanzia, e attraverso la coerenza narrativa e gli ammaestramenti contenuti in ogni novella, che attenuano e mascherano il preponderare degli elementi fantastici.

«In quel momento però giunse il ragno e tessè sopra di lui una rete...» Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi, 1974 (I ed. 1893), p.
161.
«In quel momento però giunse il ragno e tessè sopra di lui una rete...» Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi, 1974 (I ed. 1893), p. 161.

In tal senso, le Novelle possono essere definite una sorta di romanzo-fiaba poiché, pur in sé compiute, si susseguono come capitoli coerenti di una lunga “saga appenninica” giocata sulla contrapposizione di due universi, paralleli e distinti ma attraversati da varchi che permettono talora la reciproca comunicazione: da un lato l’hic et nunc del podere dei Marcucci, il tipo ideale della famiglia contadina di età umbertina, individuato, scandito e storicamente riconoscibile anche attraverso il calendario che ritma i tempi del cosmo contadino; dall’altro, l’Altrove del «Sopramondo» e «Sottomondo» di un Casentino in cui Cristo scende a tentare di riprendersi le anime che il diavolo gli ha rubato, il conte Guido Selvatico, con l’aiuto della moglie Manentessa combatte a Campaldino una tenzone contro un’orda di scheletri insepolti, i massicci casolari dei poderi nascondono al loro interno favolosi tesori orientali e oggetti fatati, turbe di spettri condividono lo spazio di chi è ancora in vita, mentre i santi più blasonati, come San Giuseppe, San Francesco, insieme alla Madonna e a Gesù percorrono con instancabile naturalezza le strade delle campagne affiancati spesso e con analoga naturalezza dal demonio[16].

Accanto alla dimensione del fantastico gotico, cimiteriale, buio e tempestoso, si pone, infatti, l’elemento religioso, basato sugli schemi letterari e il preciso registro degli exempla delle vite dei santi, cui sono riconducibili le sacre apparizioni che costellano le Novelle: il fantastico della novella/fiaba e il religioso confluiscono, intrecciandosi in una commistione carnevalesca di rovesciamento. I doni magici, assai frequenti nei racconti e di solito attribuiti dai santi all’eroe/eroina protagonista, infatti, spesso sono tipici oggetti fatati, un campanellino, un coltello, un bastone, un anello [Faeti 1974, XXXVIII-XLIII; Montesano 2000].

D’altra parte, è innegabile un prevalere della dimensione soprannaturale declinata in senso horror, come se la Perodi avesse fatto proprio l’assioma riportato da Franco Sacchetti nelle Trecentonovelle: Gnuna cosa fa trottare quanto la paura [17] .

Spettri, scheletri e defunti affollano le sue pagine, in un continuo passaggio fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti che rappresenta una delle componenti dell’immaginario medievale meglio rielaborate dall’autrice. Accanto a essi, le potenze malefiche paiono le vere forze motrici della narrazione e il Diavolo, raffigurato spesso con il tradizionale piede caprino e la coda, accompagnato da gatti e barbagianni, mai però ridotto al ruolo di demone beffato e irriso, risulta il vero protagonista della raccolta [Faeti 1974, XXXII-XXXVII]. I santi faticano spesso a vincere il male e lo stesso Gesù è costretto ad ammetterne la superiorità: nella novella Il diavolo che si fece frate, ambientata

Al tempo dei tempi, quando il nostro Signor Gesù Cristo scendeva ancora in terra per aiutare i bisognosi, avvenne che tornando un giorno da una piaggia vicina alla Verna dov’era stato a piantar certe querce per una povera vecchia, affinché crescessero subito e facessero ghiande per i maiali di lei, che non avevano da mangiare, egli s’imbattesse, sopra una via costeggiata da siepi, in un uomo che cavalcava un asino e aveva un sacco davanti a sé. Quell’uomo aveva un fior di papavero in bocca e cantava una canzonaccia, come soglion cantare quelli che non hanno timor di Dio. Gesù Cristo, credendo che costui non fosse altri che un contadino che portasse il grano a macinare al mulino sull’Archiano, si tirò da parte, poiché egli evitava sempre d’imbattersi con i cattivi, e costui era un uomo cattivo di certo, altrimenti non avrebbe cantato quella canzonaccia; ma quando il finto contadino si avvicinò, il Signore riconobbe in lui il Diavolo in carne ed ossa.

Dopo una serrato dialogo, i due antagonisti giungono a un accordo: Satana lascerà il sacco, pieno di anime di dannati, a Cristo, in cambio della possibilità di vivere per un giorno intero sulla terra senza provare sofferenza e conservando il suo potere, a patto di servirsene solo per avvantaggiare gli uomini. In realtà il Maligno, assunte le sembianze di Leonardo, frate in odore di santità, si reca presso le tre famiglie di Bibbiena più care al Cristo causandone l’eterna dannazione con l’ausilio di oggetti rituali: un tagliere di legno di cedro in grado di riempirsi magicamente delle pietanze più squisite con il quale egli tenta, riuscendovi, una coppia di vecchi virtuosi nel giorno di magro; un anello di ferro capace di fare innamorare chiunque del suo possessore, che distrugge la vita di una giovane contadina; un dentale magico per l’aratura per il quale tre fratelli si scontrano fino a uccidersi. Al termine della giornata, Gesù è costretto a chinare il capo davanti all’insegnamento del Satanasso – «Tu saprai un’altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli» – , poiché gli oggetti erano in apparenza vòlti ad avvantaggiare gli uomini, e non può che esclamare piangendo: «Il Diavolo è più potente di me»[18] .

>Un Diavolo potente, dunque, che nelle Novelle protegge chi si allontana dall’ordine stabilito, per i suoi istinti o la ripugnanza del suo aspetto, nelle sue collocazioni silvane e rupestri, nel retroterra boscoso, metafora di un altrove (forse segreto e pagano) già collocato, però, in una vicenda trascorsa. È Maso, il capoccia, a farsi garante dell’ordine e del prevalere della cornice tranquillizzante del Qui negando recisamente la possibilità effettiva di comunicazione con l’Altrove, se non nelle Novelle/fiabe che diventano però «fole», quasi menzogne: «Non lo sapete che le son fole! …Né Diavolo né Santi bazzicano nel mondo e i morti non risuscitano» [Perodi 1974, 165].

: «...mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava all'indice...». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della
nonna, Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 91.
: «...mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava all'indice...». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 91.

Il Medioevo di Emma Perodi

Accanto alle potenze malefiche variamente declinate si stagliano poi altre apparizioni soprannaturali, sempre ancorate al realismo dell’ambiente descritto e della storia: la novella Il Barbagianni del diavolo si basa sulla notizia, tratta dalla Cronica di Giovanni Villani, di una frana avvenuta nel 1335, quando la notte del 15 maggio rovinò una falda della montagna della Falterona, per attribuirne la responsabilità al demonio e descriverne gli effetti sui membri dell’Arte della Lana, rovinati dall’impossibilità di lavare i prodotti nell’Arno[19].

La Perodi esercita le proprie capacità di narratrice di storia delineando un suo Medioevo, nello specifico il basso Medioevo delle lotte fra guelfi e ghibellini toscani, richiamandosi al mito dei comuni medievali, centrale nella costruzione dell’identità postunitaria, qui declinato piuttosto nella dimensione negativa della lotta fratricida.

Giovanni Cherubini [2000] ha individuato nella ricostruzione perodiana alcune sviste, errori, anacronismi: l’onnipresenza del castello, signum fondamentale nell’invenzione ottocentesca del Medioevo [Bordone 1993; 1996], quando fra XIII e XIV secolo prevaleva invece il villaggio sparso e quando i castelli, certamente, non avevano sempre la fisionomia merlata che l’immaginario diffuso attribuiva e attribuisce loro; i frequenti campi di granturco, introdotto però in Toscana dopo la scoperta dell’America; i conti Guidi, definiti ghibellini, quando già nel XIII secolo la famiglia si era divisa in un ramo guelfo e uno ghibellino. Nel momento in cui ne sottolinea i limiti, però, lo stesso Cherubini evidenzia la straordinaria qualità della prosa perodiana nell’evocare atmosfere medievali, intrise della religiosità, del meraviglioso, delle credenze, delle paure, di ciò che, ben più dell’esatta appartenenza dei conti Guidi a uno dei due schieramenti, tuttora attrae del Medioevo inteso come contenitore di luoghi comuni dell’immaginario.

Un altro elemento fondamentale del Medioevo perodiano è la presenza di Dante in Casentino: il sommo poeta nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino, uno degli scontri più sanguinosi fra guelfi fiorentini e ghibellini aretini e, fra il 1302 e il 1311, soggiornò presso i conti Guidi. In effetti, Campaldino è ricorrente, simbolo e teatro delle lotte fratricide, così come lo è il profeta dell’unità nazionale, che nel De Vulgari Eloquentia aveva celebrato la purezza dell’eloquio toscano. A una scala minore, Emma Perodi si fa a sua volta narratrice dei principi sacri alla base dell’unità della grande patria e garante, nella figura del professor Luigi che raccoglie le novelle perché è convinto che in quelle vallate si siano mantenute le caratteristiche originarie della tradizione e della lingua, di un primato linguistico della vallata e della Toscana [Agostini-Ouafi 2005, 73 e ss.].

A Campaldino, peraltro, è ambientata una delle novelle più famose, L’ombra del Sire di Narbona [Perodi 1974, 31-44], dove il doppio registro del Qui e dell’Altrove è sapientemente articolato nel continuo passaggio dal realismo della precisione storica, toponomastica e onomastica al fantastico soprannaturale. La novella narra della scommessa sacrilega stipulata una sera fra il signore di Pratovecchio, Guido Selvatico, e un cavaliere. Il giovane signore accetta di percorrere a cavallo per dieci volte di notte la piana di Campaldino, sede della battaglia, dove giacciono insepolti migliaia di scheletri, fra cui quello di Amerigo di Narbona, «capitano dei cavalieri», in cambio dell’armatura sottratta allo stesso Amerigo dal cavaliere. La moglie Manentessa cerca invano di trattenerlo dall’evidente sacrilegio, ma il

conte Selvatico galoppò fino al piano di Campaldino; ivi giunto accese la torcia di resina, e spinse il cavallo nel campo bagnato del sangue di tanti combattenti.

Ma aveva fatto poco cammino quando udì un grido ripercosso da mille bocche, e da quei monti di ossami, che spiccavano nella notte buia, vide alzarsi a centinaia gli scheletri dei guerrieri insepolti, e tender tutti le mani per afferrare chi la coda, chi la criniera, chi le briglie del suo cavallo. Selvatico ficcò gli sproni nel copro dell’animale e raddoppiò la corsa; ma per quanto facesse per evitare di essere abbrancato da quelle mani scheletrite, ogni tanto sentiva sfiorarsi il volto, la nuca o le spalle, e rabbrividiva tutto. Il Conte correva come un pazzo, e il cavallo, nel suo impeto, rovesciava gli scheletri, li calpestava, e le imprecazioni dei morti giungevano al suo orecchio. Egli non dieci, bensì venti volte percorse il pian di Campaldino, e avrebbe continuato ancora se, proprio sul limitare di esso, quando stava per voltare, non gli si fosse parata davanti un’ombra ravvolta in un bianco lenzuolo.-Conte Salvatico – disse l’ombra – qual barbaro diletto ti prendi turbando i morti …avevi nome di buon cristiano, ma ti dimostri più inumano degli stessi pagani, che non lasciano i morti, amici o nemici che siano, esposti alla voracità delle belve e degli uccelli di rapina ….

È Amerigo di Narbona che sorge a esigere dall’incauto conte una degna sepoltura indicandogli il luogo dove è caduto e la presenza di un bracciale d’argento per riconoscere le sue ossa. Da allora il conte ogni notte viene visitato dal sire e, creduto ammattito poiché appunto ogni notte torna a scavare nella piana, cade malato; la giovane moglie, disperata, ricorre all’aiuto di un santo romito, Celestino, assumendosi l’onere di assolvere al compito del marito, fino a ricomporre la salma di Amerigo, ma scatenando gli spettri degli altri insepolti, che la trascinano fuori ogni notte supplicando di essere a loro volta ricomposti. La ricomparsa di Amerigo, derubato dai predoni del suo bracciale d’argento, porta a risolvere attraverso una precisa ritualità la situazione.

«- Se non lo facessi, - rispose il Conte, - sarei un vile». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 33.
«- Se non lo facessi, - rispose il Conte, - sarei un vile». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 33.

Come si può notare, la massa degli spettri brancicanti che perseguitano il giovane conte e la moglie rende ragione dell’atmosfera noir più volte richiamata, assai singolare in un libro destinato a un pubblico infantile.

Anche La calza della Befana contiene elementi eccentrici rispetto al pubblico di riferimento [Perodi 1974, 71-83]; la Befana, personificazione dell’inverno e dell’anno nuovo di solito raffigurata con valenze positive, è qui tratteggiata sull’archetipo della strega malvagia e avida, che mangia animali ripugnanti, cavalca la scopa ed è attraversata da pulsioni sessuali. La sua calza rossa può contenere solo carbone ed ella tormenta i fanciulli, fra cui Bertino che, una volta cresciuto e spinto da un’invincibile curiosità verso la vecchia, va a spiarla spesso, decidendo di seguirla quando, come ogni anno, la Befana parte con il biroccino per una settimana. Arrivato a Badia Prataglia, la vede entrare con altre tre vecchie ripugnanti dentro un tronco girevole, simile alla casa con le zampe di gallina e i teschi come pomelli della Baba Jaga [Cardini 2000, 74], nel quale egli si infila a sua volta per scoprire che lo spazio familiare dei boschi casentinesi cela un antro orribile, con le scale tappezzate di pipistrelli morti «che parevan aquile», e una sala piena di gatti neri e di vecchie laide che fanno a gara a servirgli cibi ributtanti, come corvi ingrassati a carne umana. L’incauto Bertino accetta di infilare una calza rossa e diviene, così, lo schiavo delle streghe:

Bertino si sentì rivoltar lo stomaco e già imboccava l’uscio per scappare, quando tutte le vecchie gli furono addosso per trattenerlo.

-Birbante, ora che ti sei scaldato e hai la pancia piena, non vuoi mantener la promessa; ma dalle mie mani non sfuggirai. E intanto, con quelle dita che parevano artigli di belva, gli stringeva il collo tanto da soffocarlo.

- Pietà, misericordia – balbettava Bertino, facendosi bianco in viso come un cencio lavato.

La Befana schiuse le dita, ma a scappare non c’era più da pensarci, perché le altre vecchie avevano sbarrato la porta.

…Mentre Bertino volgeva supplichevolmente gli occhi intorno, due di quelle streghe lo legarono alla seggiola con una fune lunga lunga, che pendeva da un gancio del soffitto, e salirono sulla tavola per fare un nodo così alto che egli non giungesse a scioglierlo. Poi due di esse lo presero per la gamba destra, mentre la Befana gli infilava nella sinistra la calza rossa, pronunziando certe parole che Bertino non capì.

«Pareva che l'animale conoscesse la via, perché si fermò accanto a un abete più alto degli altre...». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna,
Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 76.
«Pareva che l'animale conoscesse la via, perché si fermò accanto a un abete più alto degli altre...». Fonte: Emma Perodi, Fiabe fantastiche. Le Novelle della nonna, Torino: Einaudi,  1974 (I ed. 1893), p. 76.

[Bertino si accinge a partire per portare il carbone ai bimbi la notte del 6 gennaio]

Ora Bertino mio, va’ tu a mangiare; devi rinforzarti lo stomaco per sopportare la fatica di stanotte!

Non c’è più nulla – osò rispondere Bertino

Non c’è più nulla? – ripeterono in coro le vecchie. – Ti abbiamo serbato tutti gli ossi nei piatti, e sono ossi squisiti di corvi ingrassati a carne umana!

Nonostante che quel cibo gli facesse schifo, non solo perché si trattava di ossi di corvo, ma perché erano stati biascicati da quelle bocche bavose, pure egli dovette sgranocchiare quegli ossi come un cane affamato, perché la sua padrona voleva così.

Mentre mangiava, sentì battere tre colpi sulla volta della cucina, e la vecchiaccia che aveva aperto a lui, prese il bastone e la lanterna ed andò ad aprire. Dopo poco essa ricomparve a cavallo a un bastone di granata e fece su quello tre giri per la stanza. Le altre vecchie pure vollero inforcare quel cavallo di legno e facevano le matte risate quando il bastone, passando veloce come il vento, batteva nelle gambe a Bertino.

– Ora basta! – urlò a un certo punto la Befana – Bertino, è tempo di partire; ma prima dammi un bacio.

E con la bocca bavosa gli sbaciucchiò tutto il viso.

Qua un bacio! Qua un bacio! – dicevano le altre vecchie.

Ed egli dovette abbracciarle tutte, compresa la vecchiona che gli aveva strappato la promessa e che era la più ributtante e bavosa.

Bertino sarà liberato grazie all’intervento di un contadino che riesce a togliergli la calza, e il fuoco purificatore farà giustizia del gruppo di streghe, ma ciò che rileva nuovamente è la dimensione gotica, fantastica, raccapricciante inserita nella fittizia struttura narratologica folklorico-popolare rivolta, in teoria, a un pubblico fanciullo.

Certamente, dunque, la Perodi si colloca in uno specifico contesto culturale e pedagogico, posto al servizio della monarchia sabauda e della patria testé riunita, rappresentato dall’agiografia laica della cornice; ma ella vi affianca, con apparente noncuranza, l’universo parallelo di un Casentino soprannaturale che, seppur addomesticato dalla forza della quotidianità dei Marcucci, pure si riaffaccia vigoroso dai varchi che gli sono consentiti. E tale Casentino soprannaturale e reinventato trova il suo tempo perfetto nel Medioevo, un Medioevo gotico, fantastico, nordico, fatato, la cui cifra di elezione è il castello, assieme al diavolo, ai santi, ai cavalieri, agli spettri, agli oggetti magici, a tutto ciò che sostanzia tuttora nell’immaginario collettivo l’età medievale, un Medioevo metastorico, riflesso «di quello specchio deformante che fu la fantasia ottocentesca» [Bordone 1993, 10].

L’apparente noncuranza con la quale Emma Perodi riuscì a fare interagire i piani diversi della sua narrazione fra storia contemporanea e storia ‘pseudomedievale’ non bastò a distogliere l’attenzione dal lato oscuro delle sue Novelle, che conobbero nella valutazione critica dei contemporanei e aldilà del loro successo di pubblico un sorta di «fastidio pedagogico», anche per la difficoltà di coglierne la vera natura, formale e di contenuto. Soccorre, in tal senso, l’efficace sottotitolo ‘periniano’ proposto da Antonio Faeti: «romanzo nero, d’ambiente appenninico, in 45 episodi, con alcuni necessari intermezzi di tono più lieve e una storia collaterale a puntate» [Faeti 1974, XIX].

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Note

[1] Cfr. Faeti 1974, VIII-IX, XI-XIX; su Perino, cfr. anche Vichi 1967. La Perodi collaborò anche con Bemporad, Treves, Paggi, Paravia e Salani.

[2] Il sommario del Giornale dei Bambini, che giunse a punte di 25000 copie, veniva riportato anche dai giornali politici,. Emma Perodi collaborò, inoltre, a Il Giornale Illustrato per i ragazzi, La piccola Antologia, La Ricreazione, Roma letteraria, La donna di casa, Il Giornalino della domenica e diresse Il tesoro dei Bambini, Il Messaggero della Gioventù, il Messaggero dei fanciulli, Scapecchi 2005, 29 e 42 nota 18; Marciano 2005, 47-49; De Paolis, Scancarello 2005.

[3] Cfr. Scapecchi 1993, 2005, 26 e ss; l’A. evidenzia anche la vicinanza della Perodi ai movimenti femminili della fine dell’Ottocento.

[4] Nel 1943 di Cuore erano state stampate due milioni di copie. Il Faeti richiama l’attenzione anche sulla struttura dell’abbecedario/lunario, poiché l’opera ricalca il calendario scolastico ed è scandita dagli eventi solenni dei racconti mensili, dagli exempla, e dalla presenza dei derelitti salvabili o meno: [Faeti 1974, XXV-XXIX].

[5] Perodi 1974, 444: «E ora che vi ho raccontata la novella… mi è venuto un pensiero, che voglio subito manifestarvi. I giorni difficili cui andiamo incontro me lo hanno suggerito. Noi abbiamo del buon vino; camere su, ce ne sono, e pulite; perché non cerchiamo una famiglia di città che venga nell’estate a respirare quest’aria buona?», cfr. Agostini-Ouafi 2005, 79.

[6] Perodi 1974, 393; Agostini - Ouafi 2005, 76-80. In realtà il modello di conduzione mezzadrile andava allora già declinando.

[7] Cfr. Faeti 1974, VIII e ss.; V. Imbriani, Novellaia Fiorentina, Firenze 1877; G. Pitré, Novelle popolari toscane, Firenze 1885; Sessanta novelle popolari Montalesi, Firenze, 1891.

[8] Faeti 1974, IX-XI; Agostini-Ouafi 2000a, 14, laddove si riferisce alle novelle come a un «tessuto variopinto di citazioni altrui, di origine colta o popolare, e un’ intersezione costante di codici e modelli letterari differenti»; Cardini 2000, 71, laddove è ricordata la natura ambivalente e folkloricamente falsificatoria delle novelle.

[9] Le Novelle furono ristampate da Salani nel 1906, nel 1948, nel 1960-61; nel 1974 furono inserite da Einaudi in una collana sul fantastico, ciò che giustifica rispetto alla prima edizione l’inversione fra titolo e sottotitolo (Fiabe fantastiche. Le novelle della Nonna); nel 1992 furono ristampate da Newton-Compton.

[10] La novella si caratterizza come narrazione di avventure a carattere in apparenza storico o comunque connotato in senso spazio-temporale, a ricreare l’apparenza del verosimile anche quando le vicende paiono trascolorare in leggenda; il termine fiaba indica la narrazione fantastica e meravigliosa popolare a trasmissione orale.

[11] Renato Bordone individua nell’invenzione ottocentesca del Medioevo un modello metastorico e polisemico da cui derivano i vari ‘Medioevo’ che scandirono l’Ottocento italiano ed europeo: un Medioevo della Restaurazione, uno risorgimentale, uno postunitario, accanto a un medioevo urbanistico, letterario, popolare, iconografico, lirico, nei tratti comuni del gotico, del fiabesco, del ‘romanesque’, dei castelli e delle rovine, dei cavalieri e delle dame, dei duelli e delle spade, declinati appunto in base alle diverse esigenze politiche, ideologiche, emozionali: Bordone 1996.

[12] Faeti 1974; Agostini-Ouafi 2000a, 38; Rengo 2000, 124: «Alcuni anni fa, quando fu chiesto ad un’anziana donna di Badia Prataglia di ricordare una vecchia fiaba tradizionale, essa prese a raccontare una delle Novelle della Nonna»; Testi 2000, 130: «la Perodi, con geniale antinaturalismo, mette in bocca alla vecchia Regina un linguaggio molto da ‘storico’ e pochissimo da contadina».

[13] Solo una novella, Il fortunato Ubaldo, è ambientata al di fuori del Casentino, nelle Marche: Perodi 1974, 368-380.

[14] Cfr. Agostini-Ouafi 2000b, 211, dove si sottolineano alcune inesattezze che rivelano una conoscenza libresca dei luoghi.

[15] Imprescindibile il riferimento alla Lettera sul Romanticismo di Alessandro Manzoni (1823) contro il guazzabuglio di streghe e spettri dei romantici gotici in nome dell’«utile per iscopo, vero per soggetto, interessante per mezzo»: Colin 2000, 89-91.

[16] Sull’affinità strutturale delle Novelle coi lunari, che affrontano un anno sistemandolo entro una coerente visione, sovrapponendogli la propria cronologia, nata dal succedersi degli episodi e interpretabile alla luce di precise finalità, cfr. Faeti 1974, XXIX-XXXI.

[17] Novella 166, Alessandro di Ser Lamberto, con nuovo artificio, fa cavare un dente da un suo amico dal Ciarpa, fabbro in Pian di Mugnone.

[18] Il diavolo che si fece frate: Perodi 1974, 84-96.

[19] Il barbagianni del diavolo: Perodi 1974, 341-353. La novella rivela anche l’ opposizione sostanziale, di cui il demonio è guida e depositario, tra gli artigiani, cittadini, consapevoli e civili e una foresta propinqua ma intoccabile, ancora capace di tentare la riscossa: nel confronto fra i due universi, quello di Rospo, custode di un mondo che sta per essere invaso, escluso e dunque in grado di stabilire un tramite con la realtà terrigna e animale, è il Diavolo: Faeti 1974, XLIV-XLV; Cherubini 2000, 147.