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Dibattiti

Benedict Anderson: lo sguardo che ti spiazza

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Come è possibile che un autore tradotto in tutto il mondo, adottato come testo ininterrottamente da trent’anni nelle più prestigiose università, sia trascurato e quasi ignorato in alcuni paesi, tra cui brilla l’Italia?

Che Benedict Anderson (Kunming 26 agosto 1936 – Malang, 13 dicembre 2015) abbia avuto una persistente e diffusa influenza dall’ultimo scorcio del XX secolo a oggi, non c’è dubbio: il suo Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, dal 1983 a oggi è stato tradotto in più di 25 lingue e il sito Worldcat ne censisce 127 edizioni (oltre a 56 della versione francese): nel 1996 ne ho curato la versione italiana presso la manifestolibri (Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi).

Ma tra i 12 volumi che ha scritto, vi sono, tra le altre, perle come The Spectre of Comparisions. Nationalism, Southeast Asia and the World (20 edizioni dal 1998) e Under Three Flags. Anarchism and the Anti-Colonial Imagination (19 edizioni dal 2005).

Perciò non cercherò di tracciare un ritratto a tutto tondo di Ben Anderson, impresa cui andrebbe riservato un intero volume, se è vero quel che di lui mi scriveva Franco Moretti che, come me, lo conosceva bene di persona: «Ben era un pensatore che nei singoli punti a volte sembrava troppo semplice, a volte esagerato [sia pure nel suo tipico stile modesto] – ma che poi, nel suo insieme, era miracolosamente calibrato e interessante. Un fenomeno raro, difficile da capire, e che è un vero peccato aver perso».

Mi concentrerò perciò nel cercare di capire perché la sua impostazione ha incontrato tanta resistenza in Italia, tranne tra alcuni studiosi come Mariuccia Salvati, e poi dalle ragioni di questa resistenza cercare di risalire brevemente ad alcuni problemi teorici di carattere più generale che ci riguardano tutti, anche noi italiani.

* * *

Il fatto è che nelle Comunità immaginate vediamo in azione una dietro l’altra varie mosse della ragione, tutte mosse del cavallo, se fossimo su una scacchiera. Nel 1983 il problema del nazionalismo non era certo inedito, era stato scavato, scandagliato, arato in lungo e in largo. Era quasi impensabile tirarne fuori qualcosa d’inedito.

Scrive Anderson nella sua autobiografia uscita postuma presso Verso, intitolata A Life beyond Boundaries:

Quasi tutti i più importanti lavori ‘teorici’ scritti sul nazionalismo dopo la seconda guerra mondiale erano scritti e pubblicati nel Regno unito [con l’eccezione dice Anderson di Miroslav Hroch del suo studio scritto in tedesco, a Praga, sotto il regime comunista, sui «piccoli nazionalismi»]. Quasi tutti erano scritti da ebrei, anche se da posizioni politiche molto diverse. Sull’estrema destra c’era Elie Kedourie, nato e cresciuto nell’antica comunità ebrea di Baghdad, trasferitosi a Londra da giovane, e influenzato da Michael Oakeshott, allora il più famoso filosofo politico conservatore. Sulla destra moderata c’era Anthony Smith, un ebreo ortodosso inglese che insegnò storia a Londra per tutta la sua lunga carriera. Convinto che gli ebrei fossero la più antica delle nazioni, continuò a sostenere che il nazionalismo moderno si era sviluppato da antichi gruppi etnici. Sulla sinistra liberal c’era il filosofo, sociologo e antropologo Ernest Gellner, un ebreo ceco nato a Praga che si era fatto largo a Londra subito dopo la seconda guerra mondiale. Risoluto liberal illuminista, fu pioniere della cosiddetta prospettiva costruzionista del nazionalismo, sostenendo che era un prodotto strettamente dovuto all’industrializzazione e alla modernità. Sull’estrema sinistra c’era il grande storico Eric Hobsbowm, di parziale origine ebraica, nato nell’Egitto coloniale, la cui educazione era in gran parte dovuta all’Austria prenazista. Hobsbawm era insieme un costruttivista e un comunista e dette un contributo eccezionale al crescente dibattito sul nazionalismo con The Invention of Tradition (1983). [Anderson 2016, 123-124]

È interessante sottolineare che la data di uscita di questo libro sia la stessa di Comunità immaginate. Il fatto è che, nei suoi termini tradizionali, almeno fino a questi due libri, la discussione sul nazionalismo era in qualche modo scissa dall’idea di nazione. Al primo si riconosceva l’essere apparso solo tardi, alla fine del ‘700, e solo sulla scena europea, mentre la seconda godeva di una sorta di eternità: l’idea era che le nazioni sono sempre esistite, ma i nazionalismi sono recenti.

La prima mossa del cavallo di Anderson consiste nel rompere con questa tradizione che, pur attribuendo al Romanticismo il “risveglio” (sottolineo la parola risveglio) dei nazionalismi, prendeva la nazione ancora nel modo in cui questo concetto chiedeva di essere pensato, e cioè come qualcosa di primordiale, di perenne, la coscienza della cui esistenza era semplicemente assopita, obnubilata, in lungo stato di letargo, e che bastava ridestare: non a caso il Risorgimento si chiama “ri-sorgimento”, perché c’è dietro l’idea di un risollevarsi di qualcosa che è sempre preesistito.

Una visione essenzialista, sostanzialista, del concetto di nazione, come se non solo esistesse, ma esistesse sin dall’inizio qualcosa che chiamiamo italianità, tedeschità, russità, che andrebbe rintracciata in fondo a quello che dal ‘700 in poi è stato chiamato «lo scuro abisso del tempo», come recita il titolo di un bellissimo libro del filosofo della scienza Paolo Rossi [2003]. Insomma pur facendo finta di parlare del romanticismo dal di fuori, di guardarlo dall’esterno, cadiamo sempre nell’illusione romantica sintetizzata dalla celebre triade di Herder, «Ein Volk, ein Land, eine Sprache».

Ora, la prima mossa del cavallo di Anderson consiste nello smontare la triade herderiana. E questa mossa viene attuata pensando non all’irredentismo italiano o polacco, ma a nazionalismi su cui non ci soffermiamo mai, il nazionalismo svizzero (quattro lingue, varie stirpi), quello ungherese (che si sviluppò quando il magiaro era parlato solo da una minoranza) o a quello indonesiano che si sviluppa su 14.000 isole in cui sono parlate più di 700 lingue diverse. Pensare a nazioni che non condividono né la lingua, né il popolo, e a volte neanche la terra, e che pure hanno sviluppato un nazionalismo, ti costringe a ripensare completamente il concetto.

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Soprattutto ti costringe ad abbandonare la prospettiva essenzialista, una concezione con cui noi andiamo a sbattere in continuazione. Mi riferisco qui alla filosofia scolastica, tanto spesso vilipesa come pura capziosità sillogistica e che invece aprì nuovi orizzonti del pensiero filosofico, proprio come, sotto traccia, il Medioevo produsse quegli incredibili progressi tecnici che resero possibili non solo i grattacieli del tempo – le cattedrali gotiche – ma anche le esplorazioni geografiche del ‘400 e del ‘500 (basti pensare all’introduzione della chiglia nelle navi, o all’invenzione della bussola). Lo stesso avvenne in filosofia, dove riflettendo sugli antichi testi, i vari Abelardo, Scoto, Occam, aprirono la via all’epistemologia moderna. Parlo del problema degli universali, discusso per la prima volta dagli scolastici. Il problema su che tipo di realtà hanno i prodotti del nostro pensiero. Molto spesso, senza accorgercene, noi ragioniamo come se i concetti fossero lì fuori, godendo di una vita indipendente dal fatto che li pensiamo o meno. Era quello che gli scolastici chiamavano la visione realista degli universali, cioè l’idea che i concetti fossero cose, immateriali sì, ma dotate di esistenza autonoma. Se gli universali non cambiano, cambia solo il modo in cui noi li pensiamo. Ma la prospettiva è completamente diversa se invece gli universali sono nomi, sono prodotti da noi e siamo noi che li facciamo nascere, morire, trasformarsi.

E infatti lo stesso Anderson racconta, sempre nell’autobiografia, l’episodio fortuito che contribuì a indirizzarlo verso l’impresa mentale di smontare il realismo (nel senso scolastico) dei concetti politici.

Un giorno, mentre ero seduto nel mio ufficio con la porta aperta, due professori ordinari passarono nel corridoio chiacchierando ad alta voce diretti al lunch. L’uomo che parlava di più era Allan Bloom che molto più tardi avrebbe pubblicato un best-seller intitolato The Closing of the American Mind. Lui era una figura decisamente affascinante e persino intimidente. Sfacciatamente effeminato, favoriva decisamente i suoi studenti maschi rispetto alle femmine, era tuttavia un carismatico professore conservatore e uno studioso eccezionale nel campo della teoria politica, da Platone a Marx. Alla University of Chicago era stato tra i migliori studenti di Leo Strauss, famoso emigrato politico dalla Germania nazista e filosofo del conservatorismo, tra i cui studenti molti, (specialmente brillanti e ambiziosi ebrei) finirono col guidare il movimento neo-con nella vita politica americana sotto Reagan e i due Bush, come anche nelle migliori università.

Quel che captai di quanto diceva Bloom era questo: ‘Certo tu lo sai che gli antichi greci, persino Platone e Aristotele, non avevano il concetto di ‘potere’ come lo intendiamo oggi’. Questo commento causale da pausa pranzo filtrò nel mio cervello e ci si impiantò. Non mi era mai passato per la mente che due colossi della filosofia, che eravamo stati insegnati a riverire come i fondatori del ‘Pensiero Occidentale’ non avessero in testa un’idea di potere. All’inizio dubbioso, mi precipitai nella biblioteca per consultare il dizionario di greco classico. Vi trovai “tirannia”, “democrazia”, “aristocrazia”, “monarchia”, città”, “esercito”, ecc., ma nessuna voce per un qualunque concetto astratto o generale di potere. [Anderson 2016, 114-115]

Ora, proprio su un concetto come “potere” si fa evidente l’illusione essenzialista, sostanzialista, poiché all’osservazione di Allan Bloom l’obiezione più istintiva, più ovvia è che il potere è sempre stato in gioco nelle società umane fin dall’inizio. Ma invece no, qualcosa in gioco che coinvolge i rapporti di forza tra le persone e i gruppi di persone ci deve essere sempre stato, forse anche nei branchi dei lupi, ma quello che noi chiamiamo potere è un concetto molto più articolato, altrimenti Foucault non ci avrebbe potuto filosofare sopra. Un altro tipico esempio dell’illusione realista, per usare i termini scolastici, lo vediamo nel concetto di identità.

Oggi sembra un concetto indispensabile, inaggirabile di ogni nostro ragionare, anzi è fonte di angoscia: “oddio mi sono perso perso l’identità”. Ma se andiamo a frugare un po’ nel suo uso, ci stupiamo per quanto è recente.

Per secoli, la parola identità è stata usata in senso puramente logico: così in Aristotele è un’identità la proposizione “A è A”; l’identico è cioè solo ciò che è sempre uguale a sé. E l’identità è l’attributo degli identici. «Solo all’inizio del XX secolo il termine identità è diventato di uso comune», scrive nella voce Identità il Concise Oxford Dictionary of Sociology (1994), grazie – in psicoanalisi – alla teoria freudiana dell’identificazione e – in sociologia – alla teoria formulata da Herbert Mead del come costruzione sociale. Addirittura Eric Hobsbawm data il diffondersi di questo termine all’inizio degli Anni ‘70:

Ci siamo così assuefatti a termini come ‘identità collettiva’, ‘gruppi identitari’, ‘politiche d’identità’ o, sotto questo aspetto, ‘etnicità’, che ci è arduo ricordare quanto sia recente il loro emergere come parte del vocabolario, o gergo, corrente del discorso politico. Per esempio, se guardate l’Enciclopedia internazionale delle scienze sociali pubblicata nel 1968 – cioè scritta a metà degli anni ‘60 – non troverete nessuna voce sotto il termine identità, eccetto una sull’identità psicosociale redatta da Erik Erikson, che si preoccupava soprattutto di cose come la cosiddetta ‘crisi d’identità’ degli adolescenti che cercano di scoprire cosa sono davvero, e una voce generica sull’identificazione dei votanti. Per quel che riguarda l’etnicità, nell’Oxford English Dictionnary dei primi anni ‘70, appare ancora come parola rara indicante ‘paganesimo e superstizioni pagane’ e documentata da citazioni del ‘700. [Hobsbawm 1996, 38]

A riprova di quel che afferma Hobsbawm, basta osservare come né A Dictionary of Social Sciences del 1964 (sponsorizzato dalle Nazioni Unite), né il Dizionario di Sociologia di Luciano Gallino del 1978, né il Dictionnarie critique de la sociologie di Raymond Boudon e François Bourricaud del 1982 riportano la voce Identità, anche se il primo dei tre riporta una voce Identificazione come processo psicologico. A quanto mi risulta, il primo a contenere la voce Identità è il Dizionario di antropologia di Charlotte Seymour-Smith del 1986 [d’Eramo 2001].

Ultimo esempio è il concetto di “politica”. Tutti sappiamo che la politica di oggi non è quella degli antichi greci, ma quel che ci sembra cambiato è la pratica del concetto, non il concetto stesso. Il concetto di politica ci sembra immutabile. Solo perché una serie di lezioni di Aristotele ci è stata tramandata sotto il titolo di Politica, noi presumiamo che la politica di cui parlava lui sia la stessa cosa di cui parliamo noi. Ma l’inghippo lo scopriamo subito se guardiamo al fondatore della scienza politica moderna, a Niccolò Machiavelli, colui che ai nostri occhi ha autonomizzato (a differenza di quel che faceva Aristotele) il campo della politica da quello dell’etica. Eppure io non riesco a ricordare un solo passaggio rilevante in cui Machiavelli usa il termine “politica”.

Proprio sul termine politica Anderson usa implicitamente quello che lui chiama in una metafora che ripete spesso, «il telescopio all’incontrario”, cioè ci fa pensare al concetto occidentale di politica guardandolo da Est e da Sud. Racconta Anderson del principe giavanese Diponegoro (1785-1855), che aveva combattuto una guerra contro gli olandesi (1825-1830), fu imprigionato ed esiliato in Makassar. Nelle sue memorie «i suoi nemici non compaiono mai come ‘olandesi’». I suoi vincenti nemici sono indicati, nel suo stile manoscritto feudale, per nome personale e per rango.

Vi è un’altra parola assente dalle malinconiche riflessioni di Diponegoro, e questo qualcosa è alcunché noi potessimo onestamente tradurre con ‘politica’. Quest’assenza non è per niente affatto idiosincratica. Nella quasi totalità di Asia e Africa dovettero essere coniati neologismi per questo concetto negli ultimi cento anni e la data di nascita di ognuno di questi nomi è di solito contigua a quella del nazionalismo. Perché ‘politica’ potesse diventare pensabile, come un campo distinto di vita, due cose dovevano succedere: 1) Dovevano diventare visibili istituzioni specializzate, pratiche sociali, e del tipo che sarebbe stato impossibile spiegare nei vecchi vocabolari di reami fondati cosmologicamente e religiosamente: vale a dire elezioni generali, presidenti, partiti, sindacati, comizi, polizia, leaders, legislatori, boicottaggi, e simili – e anche nazioni. 2) Il mondo doveva essere capito come uno, in modo tale che, non importa quanti differenti sistemi politici e sociali, linguaggi, religioni, culture ed economie contenesse, vi fosse sempre un’attività comune “politica” che si svolgeva in modo auto-evidente ovunque. Diversamente da, per esempio, “industrialismo” o “militarismo” che, sappiamo, furono coniati in Europa decenni dopo che si erano già messi in moto i fenomeni che cercavano di denotare, i vocabolari di “politica” quasi sempre precedettero la loro realizzazione istituzionale in Asia e Africa. Si leggeva a loro proposito, si modellava su di loro, ed è per questo che tanto spesso i primi mini-dizionari indigeni furono glossari del «come fare politica» [Anderson 1998, 32].

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Il fatto è che chi da sinistra affronta il problema della nazione e del nazionalismo, cerca rogna. Ripercorrendo il pensiero “di sinistra” sul tema, non ci si può esimere da un senso di fastidio e disagio per il continuo oscillare teorico, da Marx in poi, documentato dal bel volume, ingiustamente dimenticato, Les marxistes et la question nationale (1848-1914) [Haupt et al. 1974]. Una volta la nazione è ridotta a puro epifenomeno del formarsi del mercato capitalistico e dell’ascesa della borghesia. Un’altra è demone collettivo, puro impulso irrazionalistico da esorcizzare. Un’altra volta ancora è un fattore da usare strumentalmente per far avanzare la causa proletaria. Ci sono i nazionalismi buoni e quelli cattivi. Già tra il 1848 e il 1850 Marx «era favorevole al monimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi, e contrario al movimento nazionale dei cechi e degli jugoslavi. Perché? Perché i cechi e gli jugoslavi erano allora ‘popoli reazionari’, ‘avamposti russi in Europa’, avamposti dell’assolutismo, mentre i polacchi e gli ungheresi erano ‘popoli rivoluzionari’ che si battevano contro l’assolutismo” (Stalin dixit) [Stalin 1974 (1948), 274-275]. Nello stesso modo, al cattivo nazionalismo dei fascisti viene contrapposto il buon nazionalismo dei popoli del Terzo mondo nella loro lotta per l’indipendenza e contro l’imperialismo: si noti che – in modo simmetrico – i fascisti vedevano il proprio nazionalismo in termini di lotta di classe mondiale, in cui le “nazioni proletarie” come l’Italia si battevano contro le nazioni capitaliste.

Anche oggi da noi sembra vigere una doppia verità sul nazionalismo. Schematicamente, quando si tratta di opporsi alla libera circolazione del capitale e delle merci (alla cosiddetta mondializzazione e globalizzazione), allora il nazionalismo è buono (dalla scuola economica di Cambridge fautrice di un protezionismo economico, al battersi contro lo spirito di Maastricht). Quando invece si oppone alla libera circolazione degli individui – e dunque è ostile all’immigrazione –, allora il nazionalismo è cattivo.

Nazione e nazionalismo sembrano essere i talloni di Achille del marxismo: «il nazionalismo è il fatto contro cui la teoria marxista s’infrange», aveva scritto nel 1962 Franz Borkenau [94], mentre Tom Nairn nel 1975 era ancora più lapidario: «la teoria del nazionalismo rappresenta il grande fallimento storico del marxismo» [3]. Questi giudizi possono anche essere ingenerosi, e persino inesatti, come pensa Mike Davis [2015], ma certo è che tra marxismo e nazionalismo non corre buon sangue, perché, per metterla in termini brutali, i rapporti tra classe e nazione rinviano al grumo irrisolto che nella vulgata ortodossa engelsiana andava sotto il nome dei vessati rapporti tra struttura e sovrastruttura.

Perché il nazionalismo non è solo una dottrina politica, è una formazione culturale confrontabile con le religioni:

Il modo incredibile in cui, per migliaia di anni, buddismo, cristianesimo o Islam sono riusciti a sopravvivere in dozzine di diverse formazioni sociali testimonia la forza della loro risposta allo schiacciante fardello dell’umano soffrire – malattie, mutilazioni, dolore, vecchiaia e morte. Perché sono nato cieco? Perché il mio migliore amico è paralizzato? Perché mia figlia è ritardata? Le religioni cercano di spiegare. La grande debolezza di tutte le correnti di pensiero evoluzioniste-progressiste, incluso il marxismo, è che a tali domande rispondono con impaziente silenzio. […] Il secolo dei Lumi, del laicismo razionalista, portò con sé la propria moderna oscurità. Con l’indebolirsi della fede religiosa, non scomparve la sofferenza che la fede leniva. Disintegrazione del paradiso: niente rende più arbitraria la fatalità. Assurdità della salvezza: niente rende un altro genere di continuità più necessario. Indispensabile era dunque una trasformazione laica di fatalità in continuità, di contingenza in significato. […] Poche entità erano, o sono, più adatte a questo scopo dell’idea di nazione. Se le nazioni-stato sono considerate “nuove” e “storiche”, le nazioni a cui danno espressione politica affiorano sempre da un antichissimo passato e, cosa più importante, scivolano verso un futuro senza limiti […]. Non sto suggerendo che in qualche modo il nazionalismo “rimpiazzi” storicamente la religione. Quel che sto proponendo è che il nazionalismo va interpretato commisurandolo non a ideologie politiche sostenute in modo autocosciente, ma ai grandi sistemi culturali che l’hanno preceduto, e dai quali o contro i quali, esso è nato. [Anderson 1996 (1983), 25-26]

Se non si coglie questa peculiarità che incorpora la dimensione del senso della vita e della morte, non si riescono a capire emblemi del nazionalismo moderno come il Monumento al milite ignoto o i cimiteri militari. Altre culture hanno eretto cenotafi, ma in quei sepolcri l’identità del defunto era nota, mancava solo la salma. Qui no, riempire il cenotafio sarebbe sacrilego: in quella tomba il corpo assente è la nazione: a Roma il Milite ignoto è l’italiano, a Parigi, sotto l’Arco di Trionfo, quel vuoto è colmo di francesità. «Il significato culturale di tali monumenti diventa ancora più chiaro se si cerca d’immaginare una tomba, diciamo, dell’Ignoto Marxista, o un cenotafio dei Liberali Caduti» [27].

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Quando qualcuno ci dice che affinché una nazione si costituisca, va prima immaginata una comunità nazionale, subito sospettiamo che quel qualcuno stia di soppiatto reimmettendo nel dibattito un’impostazione idealistica, un primato dello spirito sulla materia, del pensiero sulla pratica. Che di nuovo stia capovolgendo il rapporto tra struttura e superstruttura, avrebbe sentenziato il tardo Friedrich Engels. E la domanda sorge spontanea: come fai a pensare qualcosa che non c’è? Qui si sta invertendo l’imprecazione di Massimo D’Azeglio: «Pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani» [D’Azeglio 1871, 5].

Al contrario di D’Azeglio, Anderson avrebbe detto che per fare l’Italia, si dovrebbero fare prima gli italiani. O, per prendere un esempio attuale, che per fare l’Europa, gli europei dovrebbero collettivamente prima immaginarsi come “popolo europeo”. Ma in realtà è proprio quel che faceva Umberto Bossi quando cercava di creare la comunità immaginata della Padania attraverso riti “celtici”, la venerazione del “dio Po”, la raccolta dell’acqua in un’ampolla e la navigazione del fiume fino ad arrivare a Venezia, rito che nella sua prima celebrazione nel 1996 attirò una folla di 130.000 leghisti. E soprattutto la scelta di Pontida come luogo di raduno annuale dal 1990, in ricordo del giuramento dei comuni lombardi contro l’imperatore Federico Barbarossa nel 1167.

C’è mancato poco perché la comunità immaginata padana desse vita a una nazione padana. Il fatto è che le comunità non possono essere immaginate a briglia sciolta, liberamente, ma che queste immaginazioni collettive sono esse stesse il risultato di dinamiche materiali, di condizioni economiche. In termini di teoria dei sistemi, dobbiamo pensare a una serie di azioni e retroazioni che si modificano reciprocamente. Nel caso dei nazionalismi, Anderson cita esplicitamente il ruolo del capitalismo editoriale nel costituire queste immaginazioni: agli albori del capitalismo moderno, l’editoria costituiva il settore più avanzato, più multinazionale, il primo che alludeva a una “produzione di massa” di beni di consumo serializzati e standardizzati. Anche qui si vede la capacità di Anderson guardare oltre il proprio orizzonte temporale, visto che a noi oggi l’editoria pare un settore del tutto marginale (e in declino) della produzione economica complessiva.

Lo stesso Anderson ha scritto splendide pagine sul ruolo delle comunicazioni moderne nel plasmare quello che lui chiama appunto long distance nationalism, «nazionalismo in teleselezione» [Anderson 1992].

Questo continuo processo di retroazione tra grandi correnti economiche e immaginazioni collettive si vede benissimo in Under Three Flags, in cui irredentisti filippini interagiscono con anarchici francesi, seguono l’esempio di irredentisti cubani, mentre Sun Yat-sen, il padre della repubblica cinese, impara la lezione dei boeri in rivolta contro l’imperialismo inglese.

«Usando la nazione e le nazioni stato come unità base di analisi fatalmente ignoravo il fatto ovvio che in realtà queste unità erano legate insieme e traversate da correnti globali politico-intellettuali come liberalismo, fascismo, comunismo e socialismo, come anche da vaste reti religiose e forze economiche e tecnologiche. Dovevo anche prendere sul serio la realtà che ben poche persone sono mai state ‘soltanto’ nazionaliste. Per quanto forte fosse il loro nazionalismo, potevano anche essere avvinti da film hollywoodiani, neoliberalismo, gusto per i manga, diritti umani, incombente disastro ecologico, moda, scienza, anarchia, post-colonialità, astrologia, linguaggi sovra-nazionali come spagnolo o arabo, ecc. L’aver capito queste serie debolezze teoriche spiega perché il mio Under Three Flags: Anarchism and the Antai-Colonial Imagination (2005) verteva non solo sull’anarchismo globale alla fine del XIX secolo, ma anche sulle forme globali di comunicazione, specie il telegrafo e la navigazione a vapore. [Anderson 2016, 128]

Con l’understatement che gli è proprio, Anderson non ha bisogno di sottolineare i paralleli tra il nostro discorso (e la nostra retorica) sul terrorismo attuale e invece il discorso di fine ‘800 sull’anarchia. Gli basta parlare di persone come Emile Henry. Figlio di Comunardi esiliati, Henry era nato in Spagna, tornato in Francia fu brillante allievo dell’Ecole Polytechnique, ma fu espulso nel 1891 per anarchia, e quando l’anarchico italiano Sante Caserio fu ghigliottinato per aver ucciso nel 1894 in un attentato il presidente francese Lazare Carnot, Emile Henry fece scoppiare una serie di bombe finché fu catturato e dopo meno di un anno ghigliottinato anche lui. Ecco cosa scriveva Emile Henry:

Noi anarchici non risparmiamo né donne né bambini, perché non sono state risparmiate neanche le donne e i bambini di coloro che amiamo. Non sono innocenti vittime quei bambini che, negli slums, muoiono lentamente di anemia perché il pane a casa è scarso e quelle donne che impallidiscono nelle officine e si sfiancano a guadagnare quaranta soldi al giorno, e sono ancora fortunate se la povertà non le precipita nella prostituzione; quei vecchi che avete ridotto a macchinari per tutta la loro vita e che gettate nella spazzatura appena la loro forza si è esaurita? Almeno abbiate il coraggio dei vostri crimini, gentiluomini della borghesia, e convenite che la nostra rappresaglia è pienamente legittima. Avete impiccato uomini a Chicago, tagliato le loro teste in Germania, strangolato a Jerez, fucilato a Barcellona, ghigliottinato a Montbrisons e a Parigi, ma non distruggerete mai l’anarchia. Le sue radici sono troppo profonde; è nata nel cuore di una società corrotta che sta cadendo a pezzi; è la reazione violenta contro l’ordine stabilito. Rappresenta le aspirazioni egualitarie e libertarie che stanno sconfiggendo l’autorità esistente; l’anarchia è ovunque, il che rende impossibile catturarla. Finirà con l’uccidervi. [in Anderson 2006, 117-118]

Bibliografia

  • Anderson B. 1992, The New World Desorder, «The New Left Review», (193): 3-13 (trad. it. come appendice della versione italiana di Comunità immaginate: Anderson 1996, 205-216).
  • – 1996 (1983), Comunità immaginate, Roma: manifestolibri.
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  • – 2006, Under Three Flags. Anarchism and Anti-Colonial Imagination, London: Verso.
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  • Borkenau F. 1962, World Communism: a history of the Communist International, Ann Harbor: University of Michigan Press.
  • D’Azeglio M. T. 1891, I miei ricordi, Firenze: Barbera.
  • d’Eramo M. 2001, Localismo e globalizzazione, «Iter» (rivista dell’Enciclopedia Treccani), (10): 29-33.
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  • Hobsbawm E. 1996, Identity Politics and the Left, «New Left Review», (217): 38-47.
  • Nairn T. 1975, The Modern Janus, «New Left Review», (I/94): 3-29.
  • Rossi P. 2003, L’oscuro abisso del tempo, Firenze: Olschki.
  • Stalin J. 1974 (1948), Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Torino: Einaudi.