Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee nei movimenti terzomondisti di fine anni Sessanta

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Abstract

The article focuses on the rise of third-worldism as a form of political solidarity with many decolonization conflicts spread in the 1950s and 1960s and its transformation in a one-sided idea of anti-imperialism that put the US foreign politics at the centre of the international stage. This kind of selective criticism – addressing the so-called yankee imperialism – grounded principally on the US military intervention in Vietnam since 1965 but eventually it evolved in a kind of ideological paradigm that made of the USA the unique cause of all problems affecting states emerged from decolonization. This ideological turn hindered a deep and wide understanding of the complex and manifold forms of entanglements that followed, replaced and in some cases occurred as new factors within the world order established in the second half of the 20th century.

Uno sguardo d’insieme da Bandung a l’Avana

Il contributo intende sviluppare una riflessione sulla torsione politico-ideologica che ha riguardato buona parte della critica terzomondista europea, in particolare in Italia, Francia e Repubblica federale tedesca, nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Una torsione che segna il passaggio da un atteggiamento aperto, interessato a tutte le forme di lotta e di emancipazione anticoloniale, a un progressivo irrigidimento ideologico focalizzato sul cosiddetto imperialismo yankee. Si intende pertanto affrontare un mutamento che non è riducibile a un mero scivolamento di campo semantico – dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo – in quanto esso porta con sé una evoluzione politica e ideologica di vasta portata e carica di implicazioni, così come sarebbe emerso da alcune dinamiche innescatesi all’inizio del decennio Settanta.

Tale mutamento è avvenuto all’interno di un contesto internazionale caratterizzato, come noto, dal rigido bipolarismo ideologico che aveva accompagnato il dispiegarsi della Guerra fredda nel secondo dopoguerra. Si trattava tuttavia di un contesto più mosso di quanto l’immagine di un mondo diviso in due blocchi contrapposti lasci presupporre: l’accelerarsi del processo di decolonizzazione [Betts 2007; Droz 2007], l’emergere delle politiche di neutralismo attivo e di non allineamento e il lancio di una strategia internazionale antimperialista [1] facevano dello scenario internazionale una trama complessa di relazioni e schieramenti non sempre riconducibili a uno schema bipolare [Mišković, Fischer-Tiné, Boškovska 2014]. Soprattutto nel corso degli anni Sessanta il conflitto tra est e ovest fu progressivamente attraversato da tensioni tra nord e sud del mondo, tra “Primo” e “Terzo mondo”, così come ci si iniziò ad esprimere proprio nel corso di quel decennio, con un conseguente aumento della complessità del sistema delle relazioni internazionali [2]. Sul finire degli anni Sessanta la natura differenziata dei conflitti e delle tensioni internazionali fu tuttavia oggetto di un processo di semplificazione ideologica in favore di una rappresentazione tendenzialmente dicotomica dei rapporti di dominio esistenti su scala mondiale. Andò infatti affermandosi una chiave di lettura del mondo basata su una rigida contrapposizione tra dominatori e dominati, tra vittime e carnefici, su cui in parte si riflettevano ancora i sentimenti che avevano accompagnato l’immenso sforzo bellico contro il nazifascismo in Europa e in parte si risvegliavano memorie ancora recenti di eventi vissuti anche in prima persona. Il ruolo di dominatore e al contempo carnefice all’origine di tutte le principali tensioni internazionali finì così per essere ascritto in primo luogo all’imperialismo statunitense e ai suoi sostenitori, mentre nel ruolo di dominati e vittime furono collocate tutte le popolazioni e i paesi che via via erano stati interessati dai giochi geopolitici della politica estera statunitense: il Vietnam in primis, ma anche Cuba, l’Argentina, il Cile e il Brasile, fino a Nicaragua e Honduras alcuni anni più tardi, per non parlare dell’influenza statunitense nell’area mediorientale, così come emergeva dai giudizi sul conflitto israelo-palestinese [Marzano 2016].

Artefici e divulgatori di tale lettura semplificatrice delle forze in atto su scala globale furono in primo luogo correnti intellettuali e movimenti collettivi costituitisi in Occidente dall’inizio degli anni Sessanta in solidarietà con le lotte di liberazione anticoloniale e gli indirizzi di politica internazionale ed economica provenienti dagli Stati di più recente formazione. Ci si riferisce in particolare ai propugnatori del terzomondismo, ossia di quell’orientamento di pensiero che nel “Terzo mondo” emergente vedeva la possibilità, o semplicemente la speranza, di imprimere un corso inedito alla storia, una via d’uscita dall’asfittica contrapposizione tra due le due ideologie dominanti, verso un nuovo progetto di organizzazione della vita associata e delle relazioni tra popoli e Stati. Un orientamento che pertanto attribuiva alle lotte di emancipazione anticoloniale aspettative imponenti, finanche catartiche, di rinnovamento umano e sociale [3].

Le tappe e le modalità attraverso cui i movimenti terzomondisti costituitisi in Europa passarono da una condanna indistinta e incondizionata di ogni forma di colonialismo a un anticolonialismo declinato in termini di anti-imperialismo calibrato unicamente sulla politica estera statunitense sono relativamente intuibili e ricostruibili, problematico risulta invece coglierne le ragioni al di là dei fattori esplicativi più contingenti. Il saggio sarà pertanto sviluppato a partire da alcune osservazioni sull’iniziale connotazione anticoloniale del terzomondismo europeo per poi passare a considerare la torsione antimperialista che si compie tra la fine degli anni Sessanta e primi anni Settanta, per giungere, infine, a sviluppare una proposta interpretativa sulle cause storiche e politiche più profondamente sottese a tale evoluzione.

Fine di un’epoca: il riscatto del Terzo mondo di fronte alla débâcle europea

Una civiltà che si dimostra incapace di risolvere i problemi causati dal proprio funzionamento è una civiltà decadente.

Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali è una civiltà compromessa.

[…] L’Europa è indifendibile. […]

E oggi accade che a incriminarla non siano più soltanto le masse europee, poiché l’atto d’accusa è stato lanciato su scala mondiale da decine e decine di milioni di uomini i quali, dall’inferno della schiavitù, si ergono a giudici.

Si può uccidere in Indocina, torturare in Madagascar, imprigionare in Africa Centrale, seviziare nelle Antille, ma ormai i colonizzati sanno di avere un vantaggio sui colonialisti. Essi sanno che i loro provvisori “padroni” mentono.

Aimé Cesaire, Discorso sul colonialismo [2010 (1950), 45]

Come suggeriscono le parole del martinicano Aimé Cesaire, alla metà del XX secolo l’Europa lasciava alle spalle decenni di sviluppi, o meglio di involuzioni politiche, culturali, sociali ed economiche, che ne mettevano profondamente in discussione la credibilità, rendendola «moralmente, spiritualmente indifendibile» [Cesaire 2010 (1950)]. Dalla “grande” guerra al dispiegarsi della violenza politica nei primi anni Venti, delle varie declinazioni di fascismo e totalitarismo, dalla guerra civile spagnola alle persecuzioni e ai massacri nazisti fino alla detonazione delle prime bombe atomiche in Giappone, l’Europa e il mondo occidentale in generale uscivano privati di quello status di presunta superiorità su cui avevano costruito una lunga egemonia sul resto del mondo. È evidente che dopo la «rottura di civilizzazione» [Diner 1988; 1999] riassunta icasticamente nel toponimo di Auschwitz non potevano più reggere il paradigma della missione civilizzatrice dell’uomo bianco o il credo nel progresso e nelle virtù dell’Occidente. Accanto alla perdita di credibilità sul piano etico, decisivi per il declino dell’egemonia europea furono tuttavia soprattutto gli effetti politici ed economici prodotti dal conflitto, con l’emersione definitiva delle due superpotenze sovietica e statunitense. Il processo di decolonizzazione, avviatosi timidamente già negli anni Venti e acceleratosi a partire dalla fine del II conflitto mondiale, procedeva pertanto in maniera speculare al progressivo tramonto della grandezza europea all’interno del nuovo contesto mondiale.

Sotto il profilo storico-politico un primo dato riguarda il nesso diretto tra l’avanzata del processo di decolonizzazione e il definirsi di un orientamento “terzomondista” in ambito europeo occidentale. Forzando una semplificazione di un fenomeno sfaccettato e complesso si può sostenere che il terzomondismo nacque dalla volontà di esprimere una esplicita solidarietà ai movimenti di liberazione anticoloniale e di porre al contempo radicalmente in questione il colonialismo europeo. Sin dalla fine degli anni Cinquanta i molteplici conflitti di decolonizzazione suscitarono crescenti sentimenti di empatia e solidarietà in alcuni ambienti intellettuali, del mondo politico e dell’opinione pubblica occidentali. Impulsi incisivi provennero inoltre da alcune iniziative importanti, promosse dagli stessi paesi emersi dalla decolonizzazione.

La Conferenza dei paesi afro-asiatici tenutasi a Bandung nel 1955 fu il primo evento di carattere internazionale a dare una veste ufficiale alla condanna del colonialismo. Bandung manifestò anche esemplarmente la volontà delle new emerging forces – così come i paesi coinvolti si autodefinivano [4] – di incidere sulla scena internazionale attraverso una serie di proposte che seppur non sempre coerenti o ancora molto astratte nella loro formulazione ufficiale, evocavano con enfasi la necessità di intensificare rapporti di collaborazione, scambio e aiuto reciproco soprattutto tra paesi asiatici e paesi africani [5]. Alla metà degli anni Cinquanta tuttavia il mondo occidentale era ancora considerevolmente impegnato nel rilancio dell’economia nel quadro del nuovo ordine definito a Bretton Woods, mentre le due superpotenze erano concentrate sulla competizione per la ripartizione del mondo; l’evento svoltosi «au bout du monde» non riuscì pertanto a distogliere dalle proprie preoccupazioni quello che continuava a considerarsi «le centre» [Guillain 1955]. Benché alcuni ambienti, soprattutto intellettuali ma con uno straordinario coinvolgimento anche di scienziati, avessero iniziato a esprimere serie preoccupazioni per le sorti dell’umanità nell’era dell’atomica, gli inviti e gli appelli lanciati da Bandung raggiunsero solo superficialmente l’opinione pubblica occidentale [Rotblat 1982]. La stampa riferì naturalmente del congresso indonesiano, ma si concentrò soprattutto sui colori – per la prima volta il bianco non era predominante! – o aspetti folcloristici dell’evento che non sul suo più profondo significato politico [6].

Maggiore fu invece l’attenzione, dovuta forse anche a una maggiore prossimità spaziale, dedicata pochi anni più tardi a un secondo evento gestito in prima persona dalle new emerging forces: la conferenza di Belgrado, nel settembre 1961, entrata poi nella storia come Conferenza dei paesi non-allineati. Con questa iniziativa – che a differenza dell’incontro di Bandung vedeva anche il coinvolgimento in prima fila di uno Stato, la Jugoslavia, con una storia diversa da quella coloniale della maggior parte dei paesi afro-asiatici partecipanti – si volle ribadire con forza la necessità di superare la logica del bipolarismo, in virtù non solo della minaccia che esso rappresentava per l’intera umanità, ma anche per evitare che i nuovi Stati appena liberatisi da decenni di dominio coloniale potessero ricadere sotto nuove forme di subordinazione, politica ed economica, alle superpotenze dell’era postbellica.

Così come già era emerso in occasione della conferenza di Bandung, a Belgrado fu ribadito con forse ulteriore enfasi l’importanza di mantenere una chiara distanza critica dai condizionamenti ideologici della Guerra Fredda. Ne seguì che la condanna del colonialismo non fu solo rivolta al passato, bensì estesa anche all’assetto geopolitico postbellico, anche là dove chiamava in causa situazioni “atipiche” di colonialismo. Già a Bandung [7] e di nuovo a Belgrado si discusse pertanto animatamente anche dell’opportunità di criticare la politica estera sovietica attraverso il patto di Varsavia, giudicato da alcuni paesi nient’altro che una particolare forma di nuovo dominio coloniale equivalente al declinante colonialismo europeo [8]. Ciò era indicativo di un atteggiamento che cercava di sottrarsi alla morsa ideologica stretta dalle grandi potenze in favore di un’autonomia di giudizio che colpì positivamente parte dall’opinione pubblica occidentale, soprattutto all’interno di quegli ambienti della sinistra europea che dopo gli eventi cruciali del 1956 mostravano crescente insofferenza verso la logica dei blocchi [9].

Rispetto alle rivendicazioni avanzate dal pacifismo postbellico, mobilitato dalla fine degli anni Cinquanta soprattutto contro la corsa agli armamenti, le sperimentazioni nucleari e la proliferazione dell’atomica [Wittner 1997], le iniziative delle new emerging forces, orami etichettate nel linguaggio politico europeo come “Terzo mondo”, apparivano di ben più vasta portata [Martin 1962]. In particolare la Conferenza di Belgrado stimolò una riflessione critica negli ambienti di quella new left britannica, peraltro ampiamente coinvolta nella Campagna contro le armi nucleari (CND), emersa appunto dagli smottamenti del 1956 [Nehring 2011]. Dalle pagine della «New Left Review», uno dei più influenti organi di discussione nel circuito della nuova sinistra transnazionale, il sociologo Peter Worsley osservava come a differenza dei movimenti occidentali, profilatisi contro la corsa agli armamenti senza però osare una proposta per qualcosa di diverso dall’ordine internazionale esistente, l’insieme dei paesi non-allineati convenuto a Belgrado fosse rappresentato da capi di Stato e non movimenti minoritari di Stati allineati con la superpotenza statunitense. Capi di Stato consapevoli dell’effetto frenante provocato dal sistema bipolare sullo sviluppo delle loro economie, determinati non solo a prevenire la minaccia nucleare, bensì anche a superare definitivamente e pacificamente la politica del bipolarismo. In alcuni osservatori il neutralismo attivo emerso dalle discussioni dei convenuti a Belgrado suscitava pertanto l’impressione che stesse prendendo forma una efficace via d’uscita dall’equilibrio del terrore che teneva in scacco le sorti del mondo: «anyone seriously concerned with the practical elimination of war should see, now if never before, that the only force which could act both effectively and disinterestedly was the neutral powers» [Worsley 1961, 19]. Parallelamente, anche nell’ambito dell’ONU, la più importante istituzione internazionale sorta dalla conclusione del II conflitto mondiale, le pressioni politiche non allineate sull’ordine bipolare divenivano sempre più incisive: basti pensare alla soluzione della crisi di Suez, con il successo del voto dell’Assemblea generale fino all’intervento, il primo nella storia, dei Caschi blu, o, ancora, alla Dichiarazione di condanna del colonialismo, votata dalla stessa Assemblea nel dicembre 1960 [10].

Le dinamiche messe in atto dalla decolonizzazione parevano insomma aprire nuove speranze e nuove possibilità concrete; sui paesi del “Terzo mondo” andavano, di conseguenza, accumulandosi aspettative crescenti. Ancora sulla scia dell’entusiasmo scatenato dalla conferenza di Belgrado, Worsley scriveva:

Today, it is not, as it once was, Communism which provides the revolutionary drive, which poses the revolutionary social issues, and which seeks to expand the human personality in a richer, deeper way: it is the world of the disinherited peoples. These people are not exclusivist, anti-European, chauvinistic exponents of negritude. They are the makers of a new synthesis which may contain the germs of a shared and enriched world-culture. [Worsley 1961, 22]

Se per il sociologo britannico il “Terzo mondo” pareva aprire una nuova strada verso l’emancipazione dei “diseredati”, per il maître à penser dell’Europa continentale di inizio anni Sessanta, Jean-Paul Sartre, il Terzo mondo diveniva un vero e proprio progetto politico di portata epocale. La decolonizzazione dei «dannati della terra» – scriveva nella sua nota Prefazione all’omonima pubblicazione di Frantz Fanon – implicava una dialettica che coinvolgeva direttamente entrambi i soggetti del fenomeno coloniale: colonizzati e colonizzatori. Dunque, benché «questo libro non aveva bisogno di una prefazione», Sartre ne scrisse una «per portare fino in fondo la dialettica: anche noi, gente d’Europa, ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi. Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi» [11] [Sartre 1961].

In Occidente e in Europa soprattutto il terzomondismo “nasceva” pertanto dalla ricerca impellente di una risposta o, meglio, di una via d’uscita dalle secche in cui il progetto di emancipazione umana pareva essersi arrestato nel momento in cui il modello sovietico aveva smesso di rappresentare un’alternativa credibile al capitalismo postbellico. Sul Terzo mondo si iniziò pertanto a proiettare aspettative di enorme portata, aspettative che crescevano parallelamente al diffondersi dei conflitti nelle aree interessate dalla decolonizzazione, ma che si arricchivano anche dei discorsi, delle riflessioni e dei problemi cui si trovava di fronte la sinistra occidentale, sia “nuova” che istituzionale [12]. La sensibilità politica terzomondista si rivelava di conseguenza all’interno di una più ampia generale necessità di ridefinire il progetto del socialismo europeo anche in considerazione di tutte le situazioni di conflitto coloniale presenti su scala globale, poiché si trattava di conflitti che inevitabilmente riconducevano alle metropoli del colonialismo, dunque all’Europa e ai suoi decadenti imperi.

Nel periodo a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta fu però soprattutto la guerra franco-algerina a dominare il dibattito internazionale sul colonialismo europeo, suscitando la formazione di giudizi e opinioni fortemente polarizzati. Accanto al protrarsi del conflitto, la circolazione di testi di protagonisti di lotte anticoloniali [13], accompagnati da un vivace dibattito, sviluppatosi soprattutto in America Latina, sui rapporti di dipendenza economica tra Sud e Nord del mondo [14], rafforzavano la diffusione di attitudini radicalmente anticoloniali e di prese di posizione fortemente empatiche nei riguardi dei “dannati della terra”. Accanto alle pubblicazioni di natura prettamente politica anche alcune opere artistiche contribuirono ad alimentare un giudizio di condanna del colonialismo che assumeva un carattere anche di ordine etico e morale. Basti ricordare la risonanza suscitata dal film «La battaglia di Algeri» di Gillo Pontecorvo (1966), significativamente boicottato dalle sale cinematografiche francesi fino ai primi anni Settanta [Brazzoduro 2012, 91], ma ampiamente discusso da un pubblico internazionale indipendentemente dai diversi giudizi di merito. Il dato interessante è che nelle guerre di liberazione anticoloniale si iniziò a intravedere in misura crescente la possibilità di raggiungere un nuovo stadio nella dialettica storica dell’emancipazione umana non solo per chi il colonialismo l’aveva subito, ma anche per gli stessi popoli che l’avevano agito [15].

La torsione anti-imperialista: la guerra in Vietnam e il Tribunale Russell

Vietnam, estate 1964: il casus belli nel Golfo del Tonchino apriva la via all’intervento militare statunitense, a quasi dieci anni di distanza dalla battaglia di Dien Ben-Phu il sud-est asiatico ridiveniva così scenario di guerra. Tuttavia, mentre negli anni Cinquanta in Indocina si era svolto un “classico” conflitto di decolonizzazione, nel decennio successivo ci si trovava invece in uno scenario definito da molti osservatori in termini di neocolonialismo imperialista. Le ragioni dell’intervento militare statunitense attingevano principalmente alla logica dello scacchiere geopolitico ed ideologico definito dalla guerra fredda: gli USA non potevano tollerare la possibilità che in Vietnam si affermasse un regime comunista, l’offensiva armata era d’obbligo. L’avvio di un intervento armato provocò immediate reazioni, accompagnate da schieramenti nettamente contrapposti: da un canto numerosi governi europei-occidentali si espressero, pur se con vari distinguo, in sostanziale favore della politica statunitense; dall’altro ampi settori dell’opinione pubblica internazionale manifestarono crescente indignazione [16] non solo per l’asimmetria del conflitto – che vedeva la maggiore potenza mondiale in guerra contro uno dei paesi più poveri del mondo –, ma anche per le ripetute violazioni del diritto internazionale di guerra e dei diritti umani, come denunciato da più parti. Dalla metà degli anni Sessanta fino alla fine del decennio l’intervento militare statunitense rimase pertanto al centro di una serie di iniziative di protesta su cui, a catena, si sarebbero innescate dinamiche crescenti di mobilitazione, forti soprattutto all’interno dell’ambiente accademico e studentesco. L’opposizione alla guerra del Vietnam diverrà non a caso uno degli assi tematici fondamentali per lo sviluppo delle proteste studentesche sulle due sponde dell’Atlantico [Gitlin 1989, 261; Wells 1994]. Negli Stati Uniti la questione fu necessariamente vissuta in maniera più diretta, soprattutto da parte dei giovani soggetti alla precettazione [Neale 2008], ma dato il ruolo geopolitico della superpotenza americana il conflitto non poteva non surriscaldare il clima politico anche all’interno dell’intera area di influenza statunitense. Sulle posizioni emerse contro la guerra in Vietnam si potevano peraltro osservare significative linee di demarcazione tra la “nuova sinistra” e la sinistra istituzionale. Mentre quest’ultima, così come si poteva osservare nel caso della sinistra italiana e francese, denunciava il conflitto rifacendosi alla convenzionale logica bipolare e alla retorica di uno schematico confronto tra forze tra loro diametralmente opposte, la “nuova sinistra” si esprimeva con maggiore autonomia di giudizio. La condanna della politica statunitense non comportava insomma un meccanico schieramento in favore della superpotenza sovietica. In linea con le posizioni emerse all’interno del blocco dei paesi non-allineati, la critica alla politica estera statunitense non impediva insomma una critica anche alla politica estera sovietica, così come sarebbe ad esempio emerso in occasione dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia dell’agosto 1968, volto a porre violentemente fine all’esperienza della primavera di Praga. All’interno degli ambienti della nuova sinistra, intellettuale e studentesca, i criteri di valutazione e giudizio della politica estera americana si cristallizzarono indipendentemente da obblighi di lealtà ai poteri dominanti. La critica all’intervento militare statunitense confluì piuttosto in una generale messa in discussione dei rapporti di dominio esistenti su scala globale, un dominio rilevato soprattutto in termini economicistici, ispirati alla teoria della dipendenza tra Nord e Sud del mondo, teoria che stava incontrando vasto interesse e consenso anche a livello istituzionale [17]. La sproporzione abissale tra i due paesi in guerra, nonché la brutalità e lo scarso rispetto del diritto internazionale di guerra mostrati dalla superpotenza americana favorirono tuttavia uno spostamento progressivo dell’attenzione pubblica soprattutto sulle responsabilità unilaterali degli Stati Uniti [18].

In questa direzione si mosse anche, significativamente, il Tribunale Russell – costituitosi in Europa occidentale tra il 1966 e il 1967 su iniziativa di prominenti intellettuali, giuristi e pubblicisti, impegnati nelle cause dei diritti umani e dei diritti dei popoli. Nato come istanza morale, volta a richiamare l’attenzione sul vuoto giuridico esistente in materia di diritti umani in ambito internazionale, il Tribunale Russell si pose come obiettivo lo svolgimento di un’inchiesta documentata sulla violazione dei diritti umani e del diritto internazionale da parte degli Stati Uniti nel corso della guerra in Vietnam. Se inizialmente le critiche alla politica americana muovevano da sentimenti di indignazione morale, le informazioni e la documentazione prodotta dal Tribunale Russell – formalmente presentata, discussa e giudicata nel corso del Processo di Stoccolma [Caruso 1968; 1969] – offrirono una solida base anche per una condanna giuridicamente fondata dell’intervento militare statunitense. La critica alla politica estera statunitense si fece di conseguenza più dura, e anche più autorevole, perché basata non più solo sull’onda di reazioni emotive rispetto alle agghiaccianti immagini trasmesse dalle televisioni un po’ ovunque nel mondo, ma anche su una serie di dati oggettivi e documentati, difficilmente opinabili.

Ciò fece sì che nonostante sul finire degli anni Sessanta fossero in atto altri conflitti coloniali – tra cui particolarmente cruenti quelli nelle colonie portoghesi – l’opinione pubblica europea si concentrasse prevalentemente sulla questione vietnamita e la politica estera statunitense. Il Vietnam divenne uno degli assi tematici cruciali per lo sviluppo della mobilitazione studentesca in diversi paesi europei – in stretta connessione, come già osservato, con le proteste dilaganti nei campus statunitensi. Le iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica si moltiplicarono, mentre le visite di diplomatici o esponenti del governo statunitense in Europa divennero occasioni di sistematiche manifestazioni di protesta [19]. In Europa la guerra del Vietnam finì insomma per divenire la quintessenza di un fenomeno che incorporava indistintamente politiche coloniali, neocoloniali o imperialiste.

La Tricontinentale

Un’analoga accentuazione dell’attenzione pubblica sulle malefatte statunitensi era peraltro in corso anche fuori dal continente europeo. Sulla scia delle parole d’ordine lanciate a Bandung, poi ribadite a Belgrado nel 1961, e ancora al Cairo nel 1964, nel gennaio 1966 il baricentro delle new emerging forces si spostò dall’Asia all’America Latina. Dopo il successo rivoluzionario contro un governo filo-statunitense, l’isola caraibica di Cuba, guidata dalle figure carismatiche di Fidel Castro e Ernesto Che Guevara, si fece promotrice della Tricontinentale, una conferenza di solidarietà tra paesi di Asia, Africa e America Latina. Almeno in termini di immagine e rappresentazione l’area dei paesi che, affermatisi dopo un’esperienza di assoggettamento coloniale, intendevano porsi attivamente contro un governo bipolare del mondo risultava pertanto allargata: se a Bandung si era fatto appello alla collaborazione tra i paesi afro-asiatici, a l’Avana il fronte si era ampiamente esteso fino a raggiungere l’America Latina. I lavori della Tricontinentale durarono diversi giorni, i temi dibattuti furono innumerevoli, ma il tono della conferenza fu dominato soprattutto dalla questione del conflitto vietnamita. Le diverse questioni furono affrontate in misura preponderante da commissioni dedicate all’approfondimento di temi specifici, per poi giungere alla stesura di dichiarazioni congiunte che in parte sarebbero confluite nella Dichiarazione generale della Prima Conferenza, il documento conclusivo dei lavori. Il testo della Dichiarazione risultava scandito da reiterati richiami alla situazione internazionale e ai conflitti in corso, i quali tuttavia venivano ricondotti sostanzialmente a un unico responsabile:

La Conferenza si svolge in un momento in cui è in corso una violenta lotta dei popoli d’Africa, Asia e America Latina e delle altre parti del mondo contro tutte le forme di dominazione imperialista, coloniale e neocoloniale capeggiate dall’imperialismo yankee. La situazione mondiale è favorevole allo sviluppo della lotta rivoluzionaria e antimperialista dei popoli oppressi.

Colonialismo, neocolonialismo, imperialismo – tre forme di dominio evocate in maniera piuttosto indistinta – venivano pertanto sintetizzate e ricondotte a un’unica matrice, rinvenuta principalmente, se non esclusivamente, nell’imperialismo statunitense o imperialismo yankee:

I popoli di Asia, Africa e America Latina sanno, per esperienza propria, che il principale ridotto dell’oppressione coloniale e della reazione internazionale è l’imperialismo yankee, nemico implacabile di tutti i popoli del mondo. Rovesciare il dominio dell’imperialismo yankee è una questione decisiva per la completa e definitiva vittoria della lotta antimperialista nei tre continenti e verso questo obiettivo devono convergere gli sforzi dei popoli [20].

Sulla base di tale logica il discorso si faceva per certi versi più semplice, poiché riconduceva una molteplicità di problemi a un’unica causa ab origine: il nemico diveniva uno solo e questo avrebbe dovuto facilitare, almeno potenzialmente, la creazione di un unitario fronte antimperialista spaziante dall’America Latina all’Africa, dall’Asia fino ai fronti di opposizione interni alle stesse roccaforti dell’imperialismo. Va osservato però che a differenza dell’orientamento politico dominante nelle precedenti convention di paesi africani, asiatici e non-allineati, volto a promuovere soprattutto il dialogo e la collaborazione tra le new emerging forces, in occasione della Tricontinentale cubana per la prima volta fu auspicata la costruzione di un fronte antimperialista aperto anche alle forze progressiste del “Primo mondo”. Accanto alla dimensione geopolitica, dominata dagli appetiti imperialistici statunitensi, si aggiungeva pertanto anche una dimensione di classe, espressa nell’ipotesi della creazione di rapporti di mutua solidarietà e di reciproco sostegno tra i diversi soggetti uniti dalla condivisione della lotta antimperialista:

Nella misura in cui il movimento di liberazione dei popoli d’Africa, Asia e America Latina avanzerà, la classe operaia e i settori progressisti dei paesi capitalisti potranno aiutare in modo più efficace e diretto questo movimento. Ciò è provato […] dallo sviluppo del movimento di protesta civile del popolo nordamericano in relazione alla guerra che il governo degli Stati Uniti conduce contro il popolo vietnamita. […] Ciò dimostra che la liberazione dell’Africa, Asia e America Latina accelererà la lotta della classe operaia e degli altri settori oppressi della popolazione negli Stati Uniti e nei paesi capitalisti sviluppati dell’Europa contro il dominio del capitale monopolistico, contro l’oppressione e lo sfruttamento […]. A sua volta, lo sviluppo di questa lotta di classe […] contribuirà a fare avanzare la lotta di liberazione nazionale in Africa, Asia e America Latina e, in questo modo, gli sforzi comuni avranno ragione del nemico comune di tutti i popoli: l’imperialismo e, in particolare, quello yankee, che è il più feroce e oppressore. [Dichiarazione generale 1967-1968, 105]

L’appello avrebbe riscosso particolare risonanza dopo essere stato ripreso e ribadito con efficace pregnanza dallo stesso Ernesto Che Guevara in una lettera alla Tricontinentale fatta pervenire dalla Bolivia. Il messaggio del guerrigliero par excellence giungeva a prospettare un allargamento del conflitto vietnamita – che lui stesso considerava la quintessenza dello scontro in atto tra imperialismo e anti-imperialismo su scala globale – attraverso la moltiplicazione e la diffusione dei fochi del conflitto anche all’interno degli stessi paesi imperialisti. Questo era il concetto riassunto nello slogan – divenuto poi molto popolare negli ambienti della contestazione studentesca – che incitava a «creare due, tre, molti Vietnam» [Guevara 1967, 119-128] [21], e l’invito non fu declinato: negli ambienti terzomondisti occidentali si iniziò a percepire con urgenza la necessità di andare oltre la solidarietà verbale.

Negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili e l’emancipazione degli afroamericani fece proprie le parole di Guevara, riconoscendosi come parte integrante del Terzo mondo in lotta. A partire da quella che era percepita come una omologia di condizione tra gli afroamericani e i popoli soggiogati al dominio coloniale, Stokeley Carmichael, figura di spicco delle Black Panthers, sosteneva con vigore la necessità di un’unità d’azione:

Noi [gli afroamericani degli Stati Uniti, N.d.A.] ci alleiamo istintivamente con i popoli del Terzo mondo perché ci consideriamo, e in realtà siamo, una colonia dentro gli Stati Uniti, allo stesso modo che i popoli del Terzo mondo sono delle colonie fuori degli Stati Uniti. La stessa struttura di potere che vi sfrutta e vi opprime, sfrutta ed opprime anche noi; saccheggia le nostre risorse nella colonia in cui viviamo allo stesso modo che saccheggia le vostre risorse nelle colonie esterne. Pertanto […] il nostro nemico è lo stesso e […] l’unico modo per poterci liberare tutti sta nella nostra unità [Carmichael 1967, 15-24].

Interrogandosi sulle più adeguate forme di azione per cercare di dare realizzazione concreta all’idea di un unitario fronte antimperialista, intellettuali [22], scrittori, studenti e cittadini comuni si mossero nelle direzioni più varie [Lentin 1966].

In Europa, come già emerso, il Terzo mondo e la solidarietà terzomondista, espressa come presa di posizione a sostegno delle lotte anticoloniali, erano ben presenti sulla scena politica sin dai primi anni Sessanta. In Francia, Sartre e l’ambiente della nouvelle gauche raccolto attorno ad alcune influenti riviste – da «Temps modernes» a «Arguments» o «Socialisme ou Barbarie» – l’endorsement a sostegno di Fanon, l’impegno nel Tribunale Russell e l’espressa solidarietà per la causa algerina avevano già posto i termini di una prospettiva analitica attraverso cui considerare la guerra in Vietnam. In Italia traiettorie analoghe erano state tracciate attraverso l’impegno culturale e politico di figure come Giovanni Pirelli e Giovanni Arrighi, tra i fondatori del Centro Frantz Fanon di Milano. Nella Germania federale il tema della internationale Solidarität con i popoli del Terzo mondo era già emerso verso la metà del decennio: accanto ad azioni di protesta contro visite ufficiali di capi di Stato assoggettati al dominio occidentale – il congolese Ciombé nel dicembre 1964; lo Scià di Persia nel giugno 1967 – una prima iniziativa di chiarificazione sulla guerra in Vietnam aveva avuto luogo a Francoforte nella primavera del 1966.

Dopo la Tricontinentale si registra tuttavia una tendenza particolare del terzomondismo europeo, da cui emerge con crescente evidenza un ripiegamento sull’anti-imperialismo yankee. In ambito culturale si può ad esempio osservare un crescente impegno a favore della divulgazione di parole d’ordine e di testimonianze provenienti dai principali esponenti di lotte anticoloniali e antimperialiste attivi nei “tre continenti” – basti considerare le pubblicazioni di editori come François Maspero in Francia, Feltrinelli in Italia, o il meno noto gruppo di Trikont Verlag, costituitosi a Monaco di Baviera sulla scia degli impulsi politici e culturali “post-tricontinentali” [23]. Alcuni simpatizzanti per le lotte del Terzo mondo furono addirittura in certo senso reclutati per la lotta antimperialista, come nel caso del giovane insegnante di filosofia Régis Debray, sollecitato dallo stesso Fidel Castro ad adoperarsi in prima persona per la causa, impegnandosi nella stesura di un libro sulle ragioni e la strategia della guerriglia in America Latina. Libro che avrebbe dovuto contribuire a legittimare la fondazione di una organizzazione latinoamericana di solidarietà (OLAS). Sappiamo che Debray avrebbe accettato la proposta e che questa sua disponibilità avrebbe segnato una svolta decisiva nella sua biografia, oltre ad avere una ricaduta fondamentale nella pubblicazione del volume Rivoluzione nella rivoluzione (1967), testo di enorme impatto politico negli ambienti terzomondisti europei [Glicher-Holtey 2011, 269-282]. In Italia il volume di Debray sarebbe stato pubblicato da un altro intellettuale europeo vicino a Fidel Castro e alla rivoluzione cubana, il già citato editore Giangiacomo Feltrinelli [24], il quale cercava di esprimere la sua solidarietà terzomondista non solo attraverso l’esplicito orientamento politico della sua attività culturale, ma anche spingendosi sul fronte del sostegno materiale, pur se indiretto, adoperandosi per mettere al servizio della causa le risorse di cui disponeva, in termini di relazioni, contatti con e sostegno a figure particolarmente impegnate sul fronte delle lotte antimperialiste [25].

Il bisogno di andare al di là di mere dichiarazioni di solidarietà per trovare un raccordo con la prassi rivoluzionaria delle lotte in corso nel Terzo mondo era sentito con forza ben oltre il caso individuale dell’editore milanese. Esso si avvertiva infatti piuttosto diffusamente nel contesto della mobilitazione studentesca, così come emerse in occasione del Vietnam-Kongress, un congresso internazionale organizzato a Berlino ovest nei giorni 17-18 febbraio 1968. L’iniziativa, tra quelle di maggior impatto politico e mediatico del movimento studentesco in Europa [26], non intendeva solo ribadire una netta condanna della politica statunitense in merito al conflitto vietnamita e all’US-Imperialismus in generale, dato che si trattava di un giudizio ampiamente condiviso all’interno dell’ambiente studentesco. Il problema al centro dell’evento riguardava piuttosto l’individuazione delle più adeguate modalità per tradurre la protesta in forme di resistenza politica [27]. Le risposte furono ovviamente differenziate: andavano da propositi di boicottaggio delle operazioni militari statunitensi alla raccolta di fondi per il Fronte di Liberazione Nazionale vietnamita, senza trascurare iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Rientrava per esempio in questo ambito di intervento l’opera teatrale del drammaturgo tedesco Peter Weiss – impegnato peraltro anche nel Tribunale Russell – dal titolo Vietnam-Diskurs [28]. Ancora, rimanendo nell’ambito bundesrepubblicano, pochi anni più tardi una manifestazione decisamente più estrema della volontà di creare un raccordo tra i vari contesti di lotta antimperialista su scala globale avrebbe trovato espressione nell’azionismo armato dei militanti raccolti nella Rote Armee Fraktion, RAF. La cifra ideologica di questo gruppo si ricollegava in maniera esplicita alle parole d’ordine dell’anti-imperialismo yankee, così come sarebbe chiaramente emerso dalla prima offensiva armata della primavera 1972, rivolta in primo luogo contro le basi NATO sul territorio tedesco [29].

Nel contesto del passaggio da un anticolonialismo e da una solidarietà terzomondista improntati a una riaffermazione universale di diritti umani e diritti dei popoli a una condanna unilaterale dell’imperialismo identificato con la politica estera statunitense si collocavano le considerazioni espresse da Hannah Arendt nel 1969, secondo cui il Terzo mondo non era altro che un’ideologia [Arendt 1996 (1969), 26]. Ciò su cui la filosofa tedesco-americana intendeva richiamare l’attenzione attraverso una formula piuttosto provocatoria era di fatto la trasformazione del terzomondismo da orientamento, sensibilità e critica politica, a una presa di posizione ideologica. Contrassegnavano quest’ultima un crescente irrigidimento, una progressiva indisponibilità verso analisi differenziate, fuoriuscenti dai binari di una contrapposizione dicotomica tra vittime e carnefici, ciò che di fatto coincideva con una destituzione di qualsiasi responsabilità alle new emerging forces su cui si erano proiettate tante speranze, parallelamente a una demonizzazione dell’imperialismo yankee, pronto a tutto pur di affermare il proprio potere su scala mondiale. Le parole di Hannah Arendt intendevano pertanto puntare il dito certamente non sulle cifre di libertà ed emancipazione cui si richiamavano numerose lotte in corso, bensì sulla riduzione semplificatrice e ideologica delle stesse da parte di soggetti non direttamente coinvolti, ma «presi fra le due superpotenze e ugualmente delusi dall’est e dall’ovest» [30].

Conclusioni

Come spiegare questa torsione ideologica, polarizzante e al contempo semplificatrice del contesto internazionale e quali ne furono le principali conseguenze?

Indubbiamente il peso dei fattori contingenti non può essere sottovalutato: le immagini delle vittime innocenti dei bombardamenti americani, gli effetti di un impiego indiscriminato di Napalm, la durata della guerra in Vietnam, tutto ciò continuava a rimanere poco comprensibile all’opinione pubblica internazionale se non nei termini di una guerra la cui portata strategica pareva essere sovrastata dalla dimensione simbolica espressa nella volontà statunitense di imporre unilateralmente la propria politica senza tener conto delle reazioni e degli effetti sulle popolazioni che avevano la sventura di subirla. È comprensibile che l’imponente dispiegamento di armi e forze militari nel piccolo Vietnam suscitasse ben più clamore e indignazione di quanto nello stesso periodo stava ad esempio succedendo in Angola o in Mozambico. L’eccezionalità della situazione deve essere insomma tenuta in considerazione per capire la crescente propensione a vedere negli Stati Uniti il campione di una nuova forma di dominio coloniale etichettata come imperialismo yankee. Risale non a caso ai primi anni Settanta il dibattito sulle nuove teorie dell’imperialismo, che evidenziavano il persistere di questa forma di dominio – intesa in senso leniniano come fase di sviluppo del capitalismo – nonostante il superamento del colonialismo diretto [Mais 2016, 806-812]. Scriveva, per esempio, Harry Magdoff, coeditore della marxista «Monthly Review», nel 1972: «Determinante nel periodo dell’imperialismo senza colonie è il nuovo ruolo degli Stati Uniti». Secondo l’autore dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si erano sentiti tenuti ad assumere la regia su scala globale per la stabilità del sistema imperialistico mondiale, e proseguiva:

Oltre a utilizzare la loro nuova forza economica e finanziaria, gli USA concentrarono i loro sforzi nel tentativo di invadere le aree preferenziali delle ex potenze coloniali a) diventando i principali fornitori di aiuti economici e militari e b) creando una rete mondiale di basi militari e zone strategiche. […] Contemporaneamente, la presenza militare (come nel Vietnam) costituiscono la base della forza politica che mantiene in vita il sistema imperialistico in assenza di colonie [31] [Madoff 1977 (1972), 173-206].

Tuttavia si ritiene che al di là della straordinarietà e drammaticità di questa guerra l’irrigidimento ideologico riscontrato abbia radici più profonde, e soprattutto più complesse. Per quanto riguarda gli orientamenti e le posizioni che si consolidano anche in Europa occidentale e che attraversano soprattutto la sinistra, sia istituzionale che extraparlamentare, occorre considerare alcune serie difficoltà a fare i conti con il passato coloniale del vecchio continente, le sue persistenze (si pensi al Portogallo) e le sue recrudescenze (si pensi alla crisi di Suez nel non lontano 1956 o all’intricata crisi congolese del 1960). Che la questione rappresentasse un punto problematico per la sinistra europea era emerso in maniera palese in Francia sin dalla decolonizzazione indocinese e in misura ancora maggiore in occasione della guerra d’Algeria. Ma il disagio della sinistra continentale rispetto al colonialismo si poteva anche riscontrare nella sinistra italiana, propensa a considerare le lotte anticoloniali in una chiave di lettura incentrata esclusivamente sull’antifascismo e sentimenti di solidarietà su cui si riaccendeva l’ancora viva memoria della guerra di Liberazione italiana. Pur se il nesso con la guerra partigiana – le biografie di Giovanni Pirelli e Giangiacomo Feltrinelli ne portavano tracce dirette – fu importante nel leggere le lotte anticoloniali e antimperialiste in un’ottica di continuità con la guerra di Liberazione italiana, prevalse tuttavia la propensione a semplificare con significativa disinvoltura il passato coloniale nazionale interpretandolo come una sorta di propaggine esclusiva dell’imperialismo fascista [Morone 2009, 73-90; Labanca 2002]. Una sostanziale amnesia rispetto al rispettivo passato coloniale si riscontrava peraltro anche in Germania federale, dove la pronunciata sensibilità terzomondista degli studenti tedeschi era focalizzata interamente sui conflitti in corso, senza prendere in benché minima considerazione le vicende coloniali della Germania guglielmina, conclusesi di fatto con la fine del Primo conflitto mondiale, ma non per questo prive di qualsiasi rilevanza all’interno di una riflessione di ampio respiro sui rapporti tra Nord e Sud del mondo e i retaggi delle esperienze coloniali [Conrad 2008].

Alla luce di queste considerazioni si ritiene che l’entusiastica adesione della sinistra europea, e in particolare di quella extraparlamentare, all’anti-imperialismo yankee di fine anni Sessanta si spieghi, almeno in parte, come una sorta di inconsapevole slittamento storico-politico, mai esplicitamente evocato, tendente a portare il problema del colonialismo fuori dai confini europei. Dietro a posizioni estremamente radicali, di rigorosa condanna del colonialismo nella nuova veste dell’imperialismo statunitense, emerge una certa continuità con l’ambivalenza e le contraddizioni che la sinistra “storica” europea aveva in più occasioni manifestato nel corso del “lungo” XX secolo, vale a dire sin dai tempi del dibattito sul colonialismo internamente alla II Internazionale [Haupt 1978]. Questa sorta di esternalizzazione della critica anticoloniale, dall’Europa agli Stati Uniti, offriva di fatto la possibilità di eludere o di compiere solo parzialmente un confronto critico con lo scomodo passato coloniale che in misura diversa riguardava la maggior parte dei paesi europei occidentali. Concentrare le critiche sul deplorevole imperialismo statunitense, benché fondate su evidenti orientamenti di politica estera, nonché su decisioni gravide di conseguenze concrete per i paesi direttamente coinvolti, finì per fungere implicitamente da alibi politico. Di conseguenza divenne relativamente facile eludere uno spassionato confronto sui retaggi e le responsabilità anche europee nel dar forma alle deprecate asimmetrie economiche e di potere esistenti su scala globale.

Sotto questo profilo si può sostenere che la decolonizzazione dei popoli d’Europa auspicata da Sartre all’inizio degli anni Sessanta come effetto dell’emancipazione anticoloniale del Terzo mondo di fatto non avvenne fino in fondo. L’Europa occidentale accettò, pur se a fatica, la perdita del suo storico ruolo geopolitico e si adattò al declino del colonialismo tradizionale dettato dalla congiuntura internazionale postbellica. La solidarietà terzomondista con le lotte anticoloniali può essere pertanto letta, pur se non esclusivamente, come una particolare modalità attraverso cui fu affrontato il ridimensionamento del “vecchio continente” nel processo di adattamento alla mutata cornice geopolitica. È evidente, tuttavia, che in questo modo i conti col passato coloniale europeo non furono affrontati. L’aperto schieramento contro l’imperialismo statunitense portava con sé una implicita condanna di tutte le forme di imperialismo, ma abbracciare la causa dei diritti umani, dei diritti dei popoli e della giustizia sociale su scala globale non poteva essere sufficiente a superare le impasse postcoloniali prettamente europee, così come sarebbe progressivamente emerso con l’avanzare di conflitti tra ex periferie ed ex metropoli, alimentati da tensioni rimaste irrisolte. Probabilmente il contesto storico non era ancora pronto per una rielaborazione di tali questioni, solo il mutamento dei quadri di riferimento innescato dalla fine della Guerra Fredda avrebbe stimolato nuovi sguardi e sensibilità, avviando un processo di “mondializzazione della memoria” e di riconfigurazione del campo di tensione tra passato, presente e futuro ancora in corso. Da un canto la propensione a prestare crescente attenzione alla voce delle vittime nella ricerca di rapporti empatici rigeneratori di una nuova etica, così come è emerso in Europa soprattutto rispetto alla storia della Shoah, dall’altro la crescente affermazione di nuovi paradigmi culturali ed epistemologici – dal cultural-turn ai post-colonial studies – hanno, insieme ad altri fattori, contribuito a ravvivare il filone degli studi sulla storia coloniale europea attraverso molteplici chiavi di lettura.

Gli argomenti su cui si era cristallizzato l’anti-imperialismo yankee non necessariamente sono venuti meno, è cresciuta tuttavia la propensione ad assumere uno sguardo più sensibile sul mondo, più attento a cogliere, e cercare di spiegare, specificità, contraddizioni e interdipendenze nelle loro molteplici manifestazioni. In questo mutamento di sguardo si possono intuire fili di continuità tra il terzomondismo e l’anti-imperialismo di cui si è finora trattato e il movimento “altermondista” sorto sul finire del XX secolo, inclusa una rielaborata critica dell’Impero – non più dell’imperialismo – che ne ha ispirato e accompagnato la formazione [Hard, Negri 2000]. Si tratta tuttavia di una continuità solo intuibile o ipotizzabile, dato che la storia delle origini culturali e delle effettive dinamiche di sviluppo dei movimenti critici verso la globalizzazione è ancora da scrivere.


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Note

1. Ci si riferisce in particolare alla svolta lanciata con l’iniziativa cubana della Tricontinentale su cui si tornerà più avanti.

2. Il concetto di Terzo Mondo era stato coniato in Francia già nel 1952 dal demografo Alfred Sauvy, ma entrò in circolazione in Europa circa un decennio più tardi, in particolare dopo la pubblicazione nel 1961 dell’opera I dannati della terra di Frantz Fanon [1962].

3. Paradigmatici sotto questo profilo erano stati la conquista dell’indipendenza di India e Indonesia già alla fine degli Anni quaranta, ma fu soprattutto la guerra franco-algerina a suscitare dibattiti, reazioni, iniziative di solidarietà a sostegno delle vittime dell’imperialismo europeo. Cfr. Malley 1996; Rioux, Sirinelli 1991; Brun, Penot-Lacassagne 2012.

4. Cfr. Discorso inaugurale del presidente indonesiano Sukarno a Bandung (18 aprile 1955), in Aruffo 1972; Setiawan 2007.

5. Cfr. le risoluzioni contenute in Ampiah 2007. Per una rivisitazione critica soprattutto del ruolo e degli interessi perseguiti dall’India anche attraverso la conferenza di Bandung cfr. McCann 2013.

6. Da uno spoglio di alcune testate europee – «Le Monde», «Die Zeit», «Il Corriere della Sera», «l’Unità» – colpiscono i commenti relativi alla straordinaria assenza di personalità politiche o capi di stato bianchi. Alcune testate giornalistiche commentarono tale assenza con stupore se non risentimento, soffermandosi con singolare insistenza sui colori variopinti degli abiti indossati da alcune personalità, così come sui diversi colori della pelle dei partecipanti. L’assenza di politici bianchi colpì invece positivamente lo scrittore afroamericano Richard Wright, che decise di recarsi a Bandung per seguire da vicino un evento che gli pareva marcare una cesura simbolica ed epocale nei rapporti razziali su scala mondiale: Wright 1956. Cfr. Fraser 2003, 115-40; Dinkel 2015, 59 sgg.

7. A Bandung furono soprattutto le Filippine, rappresentate dall’ambasciatore Carlos Romulo, a esprimere un giudizio apertamente critico verso la politica estera sovietica. Cfr. Romulo 1956.

8. The Conference of Heads of State or Government of Non-Aligned Countries, Belgrado 1961. Una versione italiana della Dichiarazione finale dei capi di Stato e di governo alla I conferenza dei paesi non allineati è contenuta in Aruffo 1987.

9. Per gli Stati di recente formazione si trattava di un bisogno di riconoscimento internazionale effettivo, come esercizio della sovranità nazionale con un profilo autonomo nell’ambito della politica internazionale. Alla conferenza dei non-allineati tenutasi ad Algeri nel 1973 Indira Gandhi avrebbe definito il non-allineamento come «l’espressione della volontà di essere sovrani, e non dei semplici oggetti della storia di un impero». Cfr. Braillard 1987.

10. Trattasi della XV Assemblea generale delle Nazioni Unite, cfr. Polsi 2006, 85-87.

11. Jean-Paul Sartre, Prefazione a Fanon 2007 (1961). In questa considerazione si nota un punto di convergenza con il pensiero di Cesaire 2010, 54, dove sosteneva implicazioni profonde del colonialismo non solo su chi lo subisce ma anche su chi lo agisce: «[…] la colonizzazione, lo ripeto, disumanizza anche l’uomo più civilizzato, e che l’azione coloniale [...], la conquista fondata sul disprezzo dell’uomo indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente, a modificare anche colui che l’intraprende. Il colonizzatore, per salvaguardare la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell’altro la bestia, si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia. È quest’azione, questo effetto boomerang della colonizzazione che è importante segnalare».

12. Su questa convergenza tra orientamenti e aspirazioni provenienti dai contesti di decolonizzazione e le questioni che nello stesso periodo stavano attraversando la sinistra occidentale, e la “nuova sinistra” in particolare, insiste anche Malley 1996, 3.

13. Gli scritti di Fanon furono introdotti in Italia grazie all’impegno diretto di Giovanni Pirelli, il quale aveva conosciuto personalmente Fanon alla fine degli anni Cinquanta. Cfr. Weill-Ménard 2011.

14. Il dibattito andò sviluppandosi attorno alle teorie di Raul Prebisch, Fernando Cardoso, Samir Amin, André Gundar Frank. Cfr. Arghiri 1969.

15. Benché in tono decisamente meno emozionale rispetto a quello usato da Sartre nella Prefazione a Fanon, un ragionamento sul coinvolgimento europeo nel processo di decolonizzazione, dunque sulle implicazioni che la decolonizzazione poteva produrre soprattutto sulla sinistra europea, si svolse su diversi organi di discussione della nuova sinistra transnazionale. Si vedano in particolare gli articoli sulla «New Left Review» di Buchanan 1963 e Barratt Brown 1963.

16. Hallin 1989; Daum, Gardner, Mausbach 2003; Mermin 1999.

17. Nel 1964 l’istituzione della Conferenza sul Commercio e lo Sviluppo in seno alle Nazioni Unite (Unctad) può essere letta come la volontà di recepire e tradurre concretamente la teoria della dipendenza in vista di un superamento dei rapporti di subordinazione economica che tenevano il “sud” del mondo soggiogati a un “nord” che dopo la decolonizzazione si era dotato di altri strumenti per proseguire la spoliazione delle risorse del “sud”. Su questo obiettivo avevano insistito con forza i paesi non-allineati, ribadito con ulteriore enfasi anche in occasione della loro II Conferenza, tenuta al Cairo nell’ottobre 1964, dedicata, tra i vari punti, anche alla discussione di un «ordine economico nuovo e giusto». I paesi non-allineati, frattempo saliti da 25 a 47, si espressero anche positivamente in merito alla dichiarazione dei 77 paesi in via di sviluppo rilasciata a conclusione della prima conferenza della Unctad. Cfr. Berg 1980, 119; Braillard 1987, 8.

18. Di fronte ai bombardamenti, ai massacri, all’uso del napalm e alle altre numerose violenze perpetrate contro i Vietcong e la popolazione civile vietnamita, l’intervento dei carri armati sovietici per le strade di Praga nell’agosto del 1968 rischiava quasi di impallidire benché non suscitasse certamente simpatie o approvazione.

19. In Italia furono in particolare alcune visite del vicepresidente degli USA Humphrey Hubert nella primavera 1967 a stimolare manifestazioni di protesta studentesca. Kurz 2001, 133-137.

20. Dichiarazione generale della prima conferenza, 1967-1968, 102, corsivo mio. Dal 1967 al 1970 l’editore Gian Giacomo Feltrinelli pubblicò la versione italiana della rivista nata dopo la Conferenza cubana del gennaio 1966. Nello stesso periodo anche l’editore Maspero, in Francia, sostenne la pubblicazione di una versione francese della stessa rivista, nell’intento di promuovere e divulgare gli orientamenti politici emersi dalla Tricontinentale anche tra le forze progressiste del “Primo mondo”, in vista della costruzione di un unitario fronte antimperialista.

21. Nel messaggio gli Stati Uniti vengono definiti «il grande nemico del genere umano». In Italia il testo fu pubblicato nel 1967 anche in Documentazione, «Problemi del Socialismo», (17): 495-505, accompagnata da un commento introduttivo a firma di A.L.

22. Sul «dovere degli intellettuali europei nei confronti di un mondo in rivoluzione» cfr. Inchiesta sul Vietnam. Diversità e unità di 16 intellettuali 1968, «Tricontinentale», (7): 117-141; Baldelli 1968, 142-146.

23. Sull’impegno politico culturale degli editori Maspero e Feltrinelli cfr. Hage 2010, il quale dedica anche ampio spazio all’editore berlinese Klaus Wagenbach. Sulle origini di Trikont Verlag cfr. Körner K. 1967, Der Trikont Verlag und das «Archiv 451», consultabile in http://protest-muenchen.sub-bavaria.de/artikel/1688

24. Il volume di Debray faceva parte della collana Documenti per la rivoluzione in America Latina, che tra il 1967 e il 1970 pubblicò circa 45 titoli.

25. Sulla biografia di Feltrinelli: Feltrinelli 1999; Grandi 2000. Kraushaar riporta che nel febbraio 1968, alla vigilia del congresso berlinese sul Vietnam, Feltrinelli si sarebbe presentato a casa di Dutschke comunicando di avere barre di dinamite nascoste nell’auto parcheggiata davanti all’abitazione. Le aveva portate in vista di una eventuale azione di boicottaggio di navi statunitensi cariche di materiale bellico in partenza per il Vietnam dal porto di Amburgo. L’azione, di fatto, non fu neppure tentata: Kraushaar 2005, 24.

26. Februar 1968. Tage, die Berlin erschütterten, EVA, Frankfurt a. M. [1968].

27. La dichiarazione finale è consultabile anche sul sito http://www.infopartisan.net/archive/1967/266763.html

28. In realtà il titolo completo dell’opera era ben più lungo: Diskurs über die Vorgeschichte und den Verlauf des lang andauernden Befreiungskrieges in Viet Nam als Beispiel für die Notwendigkeit des bewaffneten Kampfes der Unterdrückten gegen ihre Unterdrücker. La lunghezza del titolo rifletteva la durata dell’opera originale, di quasi cinque ore. La prima rappresentazione fu messa in scena a Francoforte il 20.03.1968, versioni adattate e rese più digeribili a un pubblico non necessariamente appassionato al tema furono poi proposte in diverse altre città tedesche: Schwiedrzik 1998, 224-38.

29. Si ricorda che all’origine della dinamica che avrebbe portato alla formazione della RAF stava un attentato contro un grande magazzino di Francoforte nell’aprile del 1968, allorché attraverso un’azione incendiaria un gruppo di quattro giovani attivisti intendeva richiamare l’attenzione dell’apatica e compiaciuta popolazione tedesca sui crimini che gli Stati Uniti stavano perpetrando sulla popolazione vietnamita. Sulla particolare dinamica che a partire da quella singola azione avrebbe portato alla formazione della RAF nel 1970 rimane sempre valido Fetscher 1978.

30. In nota alla dichiarazione «Il Terzo Mondo non è una realtà ma un’ideologia» la filosofa aggiungeva che gli appelli degli studenti «a Mao, a Casto, a Che Guevara e a Ho Chi Minh sono come degli incantesimi pseudoreligiosi per un salvatore proveniente da un altro mondo; invocherebbero anche Tito se la Jugoslavia fosse un po’ più lontana e meno avvicinabile» [Arendt 1996 (1969), 26 e 100-101].

31. Il libro dello stesso Madoff 1969, The Age of Imperialism, fu pubblicato nel 1969 e vendette oltre cento mila copie.