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Giuseppe Filippetta, “L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione”

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Giuseppe Filippetta, “L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione”, Milano, Feltrinelli, 2018, 302 pp.

Nel 1946 Giovanni Miele, professore di diritto amministrativo italiano all’Università di Pisa, pubblicava il saggio Umanesimo giuridico sulla «Rivista di diritto commerciale». Lo dedicava a due laureati in giurisprudenza dello stesso ateneo, Rurik Spolidoro e Francesco Pinardi. Da studenti entrambi erano stati allievi dell’allora Collegio Mussolini di scienze corporative (oggi Scuola superiore Sant’Anna), annesso alla Normale. Sempre sulla stessa rivista, nello stesso anno, un altro professore dell’università pisana, Lorenzo Mossa, metteva al centro del suo saggio Giovani giuristi le vite di Spolidoro e Pinardi. Erano state esemplari, scriveva Mossa, «nell’azione, nella lotta per l’Italia e per il suo diritto» e avevano sottoscritto «col prezioso sangue, il proclama silenzioso della libertà». I due erano stati «portatori del nuovo diritto» (p. 248).

Polidoro si era laureato più che brillantemente nel marzo del 1944, essendosi iscritto nel novembre 1939. In quei quattro anni e mezzo aveva sostenuto tutti gli esami, dopo l’8 settembre aveva combattuto contro i tedeschi, era entrato a fare parte della Resistenza nel gruppo dei Volontari armati italiani. Aveva continuato la sua vita da partigiano anche nei mesi successivi alla laurea, ma il 19 settembre del ’44 era stato arrestato a Genova dalle SS e portato nel carcere di Marassi; poi il 23 ottobre trasferito nel campo di concentramento di Bolzano; quindi l’8 gennaio 1945 portato a Mathausen, dove partecipò alla rete clandestina che diffondeva notizie e informazioni tra i deportati. Morì a Gusen, una specie di dipendenza infernale di Mathausen, il 24 aprile 1945, il giorno prima della liberazione di Genova.

Pinardi era entrato nel Collegio Mussolini un anno dopo Polidoro. Nel giugno del 1943 aveva concluso tutti i ventidue esami, anche lui con esiti eccellenti, avendo nel frattempo lavorato come traduttore grazie alla padronanza di inglese, francese e tedesco. L’8 settembre, come anche Polidoro, si trovava a uno dei campi allievi ufficiali di complemento universitari. Già impegnato politicamente, cominciò a scrivere volantini antinazisti, destinati ai militari tedeschi, per diffonderli in Versilia. Tornato a Torino, iniziò a partecipare alla Resistenza molto attivamente e si iscrisse all’università per potere concludere lo studio universitario sostenendo la tesi di laurea. Il che avvenne, con il massimo dei voti, il 13 giugno del 1944. Il 14 febbraio del 1945 i repubblichini lo prelevarono a casa e lo torturarono per fargli confessare – ma inutilmente – i nomi di altri partigiani. Nella notte Pinardi fu fucilato.

L’ultimo capitolo del libro di Giuseppe Filippetta, già per lungo tempo direttore della Biblioteca del Senato e del suo Archivio Storico, parla delle concezioni del diritto e del nuovo ordine democratico sostenute dai due professori Giovanni Miele e Lorenzo Mossa nonché dai due loro ex-studenti Polidoro e Pinardi. Il titolo è estremamente significativo: La sovranità dimenticata. Si tratta della sovranità ancora testimoniata da Rurik Polidoro a Gusen in forza del coraggio con il quale provava «silenziosamente a tenere in vita un mondo comune di eguali, sventurati certo, ma portatori irriducibili di quella dignità che è il cuore della sovranità orizzontale delle persone e che, pur se vestita di stracci, tiene dritto lo sguardo di chi entra per l’ennesima volta in una delle gallerie di Gusen, espressione estrema della verticalità del potere statale» (pp. 252-253). E, ancora prima, con la tesi di laurea sull’analogia nel diritto penale, tema molto dibattuto durante il fascismo e oggetto di scontro «tra i sostenitori di un diritto penale totalitario, che vorrebbero riconoscere allo Stato un potere illimitato di punire qualsiasi comportamento non gradito al regime, senza neppure il vincolo di stabilire in anticipo quali fatti sono reati, e coloro che invece vogliono mantenere in piedi il limite del nullun crimen sine lege per non consegnare totalmente i singoli all’arbitrio del regime» (p. 249). Che questa sovranità orizzontale, cui pure si era ispirata la vita di Francesco Pinardi, come peraltro la lotta delle bande partigiane dopo l’8 settembre, fosse messa ormai tra parentesi nel momento costituente del 1946 era appunto denunciato nei saggi di Giovanni Miele e Lorenzo Mossa.

Tutto il libro di Filippetta offre una ricchissima e articolata serie di prove delle radicate e diffuse pratiche e concezioni della sovranità orizzontale degli individui durante tutto il periodo della lotta partigiana: gli individui riuniti nelle comunità in armi delle bande, sovrane per difendere e salvare la vita delle popolazioni oppresse e brutalizzate da nazisti e fascisti.

Il problema della sovranità – di quel tipo di sovranità che si impone dopo la rinuncia della monarchia alla sovranità con l’8 settembre – è la cifra che accomuna le narrazioni dell’inizio e della evoluzione delle azioni delle bande partigiane. Come è già stato osservato da Silvia Calamandrei [Il potere nasce dalla canna del fucile? Tra Resistenza e Costituzione, «Il Ponte. Rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei», 12 febbraio 2019, https://www.ilponterivista.com/blog/tag/silvia-calamandrei/ (ultima consultazione 03.03.2019)], quello di Filippetta è certamente, in questo senso, un saggio politico-filosofico. Ma non è perciò meno opera storiografica, come sembrerebbe adombrare la stessa Calamandrei.

Il libro è infatti costruito utilizzando e mettendo sapientemente a frutto (e discutendo) la storiografia più e meno recente sulla Resistenza; facendo (ri)parlare la enorme memorialistica partigiana; mettendo a confronto la storiografia sulla Resistenza nel suo evolversi dall’immediato dopoguerra a oggi con i romanzi sulla Resistenza; valutando l’efficacia (minore) di alcune opere classiche storiografiche, come ad esempio quella di Roberto Battaglia (1953) a paragone dell’efficacia (maggiore) di forme di narrazione cinematografica come Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962).

Di tutto questo (e di molto altro, compreso il problema della autonomia e delle autonomie) si legge nei dieci capitoli che compongono il libro, preceduto da una introduzione su La Resistenza delle persone. Prima del decimo e ultimo (La sovranità dimenticata), di cui si è già detto, l’a. parla di Essere sovrani nella terra di nessuno; Imparare a sparare per abitare il mondo comune; La “Costituzione dei fucili”; La Resistenza delle persone tra bande, partiti e Cln; Non c’è tenente né capitano; Il lunghissimo 25 aprile; Resistenza e guerra di classe; Partigiani, fucili, tessere; La lunga stagione costituente. Dalla “Costituzione dei fucili” alla Costituzione repubblicana. Sono titoli che sintetizzano molto appropriatamente quanto nei rispettivi capitoli è scritto e argomentato sulla base di una imponente bibliografia, che dà conto di una ricerca condotta su diversi piani di analisi fino ad ora sostanzialmente rimasti non comunicanti. Soprattutto se si tiene a mente che il libro è, come vuole esplicitamente essere, una storia della Costituzione repubblicana italiana. Come recita il sottotitolo: Storia partigiana della Costituzione. Per restituire a questa storia ciò che parte della storiografia le ha rubato; un esercizio di metodo fondamentale, come già più di due decenni fa, per altre storie, ha spiegato Jack Goody con il suo The Theft of History, Cambridge, Cambridge University Press, 2006 (trad. it. Il furto della storia, Milano, Feltrinelli, 2008).

Potrà far discutere, e molto. Ne vale la pena.