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Giuliano Milani, “L’uomo con la borsa al collo”

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Giuliano Milani, “L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale”, Roma, Viella, 2017, 298 pp.

Nella sua ricca produzione scientifica, Giuliano Milani, professore di Storia Medievale all’Università di Paris Est, si è prevalentemente occupato di istituzioni politiche medievali di ambito comunale, studiando sia l’amministrazione della giustizia, sia le pratiche di esclusione. In questo panorama, il suo ultimo volume, L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, rappresenta a prima vista un’eccezione: il volume analizza infatti la storia – ossia, come chiarisce il sottotitolo, la genealogia – e la diffusione in particolari contesti – l’uso – di una fortunata immagine che percorre trasversalmente il Medioevo: quella del peccatore punito il cui vizio legato al consumo illecito di denaro è evidenziato dalla presenza di una borsa appesa al collo. Si tratta però solo in apparenza di un’eccezione nella produzione dell’autore: come vedremo, la seconda parte del volume può essere letta anche come storia politica dei comuni medievali dell’Italia del Nord e delle loro pratiche di esclusione e sanzione tra Duecento e Trecento.

Inizialmente l’a. procede, con ardita scelta stilistica, a ritroso: partendo infatti da una raffigurazione francese del 1240, si sposta attraverso differenti occorrenze dell’uomo con la borsa al collo, tra l’Alvernia, i Pirenei e l’Europa occidentale, alla ricerca delle prime testimonianze di questo topos figurativo, arrivando a individuare in un manoscritto bizantino del IX secolo la possibile fonte da cui questa immagine migrò in Occidente. L’autore delinea così una genealogia: invece che risalire a un impossibile modello binario causa/effetto, studia le possibili filiazioni, partendo da quelle più recenti e riconoscibili e tracciando in modo suggestivo una storia “all’indietro”. I primi capitoli sono anche la sede per una fortunata esplorazione metodologica e storiografica: in ogni parte del volume infatti l’autore si mostra attento a discutere quanto la storiografia ha analizzato prima di lui e soprattutto quale metodo – nella scelta delle opere e nella loro interpretazione – egli intende seguire: è da subito evidente che il volume intende muoversi nel territorio della storia delle immagini e più che analizzare le opere dal punto di vista formale, ricostruirne genesi, usi, relazioni e collegamenti.

Con il suo percorso a rebours, la prima parte del volume chiarisce così come la rappresentazione dell’uomo con una borsa appesa al collo, scolpita su portali di chiese o miniata in preziosi volumi, fu elaborata nel contesto della politica riformatrice di papa Alessandro II (1061-1073), allo scopo di suggerire al pubblico – molto diverso a seconda dei luoghi in cui le immagini si trovavano – differenti significati: la condanna del prestito ad interesse, ma anche, più in generale, della simonia e del peccato di avarizia. L’immagine doveva richiamare una molteplicità di significati, con la borsa a significare il fardello di eterna dannazione a cui i peccatori erano condannati. Riflettendo sulla genesi di questa raffigurazione, l’a. può così anche riscrivere la storia del conflittuale rapporto della chiesa medievale con il denaro, sfumando e contestando assodate posizioni critiche.

Nella seconda parte del volume, Milani passa a discutere l’uso, o meglio la pluralità di usi, di questa iconografia: restringendo lo sguardo ai comuni italiani, lo studio ne guadagna in precisione e accuratezza dell’analisi e, come accennavamo, la storia della rappresentazione del peccatore punito si intreccia con quella delle istituzioni politiche dei comuni dell’Italia settentrionale: se nella prima parte il contesto figurativo è sempre ecclesiastico – e l’immagine è collegata a momenti di riforma in cui la Chiesa delimita e sottolinea il suo rapporto con il denaro – nella seconda parte il contesto è cittadino e comunale, e le raffigurazioni prese in considerazione si trovano in ambienti che sono tutti – tranne l’ultimo – quelli di palazzi pubblici. L’a. passa così in rassegna alcuni affreschi, spesso problematici per il loro stato di conservazione, che permettono di studiare come la raffigurazione dell’usuraio, dell’avaro e del simoniaco si trasformò, piegandosi ai fini delle istituzioni politiche comunali per diventare a tutti gli effetti una pittura infamante, che costituiva, sovente insieme al bando, la punizione per coloro che tradivano le città e le loro politiche. Partendo sempre da un inquadramento metodologico e storiografico, il volume ripercorre i frammenti pittorici mantovani e bresciani in cui l’immagine tracciata sulle pareti dei palazzi pubblici diventa parte stessa della condanna dei nemici.

L’ultimo capitolo funziona come una sorta di conclusione e precede le conclusioni vere e proprie: analizza ossia – forse con qualche forzatura – le due opposte interpretazioni che dell’usura e più in generale dell’avarizia fecero due autori fiorentini che, sposando linee politiche opposte, si trovarono all’inizio del Trecento entrambi a Padova, Dante completando la Commedia e Giotto dipingendo per un banchiere in odore di usura uno dei suoi capolavori, la Cappella Scrovegni.

Così, dall’“uso” menzionato nel sottotitolo si è passati piuttosto a discutere una pluralità dinamica, nelle appropriazioni come nelle interpretazioni, di questa fortunata immagine, dalla chiesa ai comuni e viceversa, aggiungendo un capitolo importante alla storia della condanna politica nell’Italia Medievale, ma anche analizzando in modo critico il controverso rapporto tra Chiesa e denaro.