Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

La diplomazia culturale di Luchaire nella Firenze di primo Novecento

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Abstract

The paper is focused on the network of transnational intellectual relations and the political-cultural activity of Luchaire in Florence from the foundation of the French Institute (1907) to his departure for Paris in the post-war period. Through the analysis of periodicals, correspondence (published and unpublished), memoirs are explored the historical roots and the political use of "Latinity" in the different contexts and stages of the First World War and are raised questions on the politicization of intellectual work between opinion-forming process, propaganda and “new diplomacy”.

Firenze, luogo di rivalità culturali e di “sorellanza latina”

Julien Luchaire nel 1906. Fonte: Archivio G. Papini, Fondazione Primo Conti, Firenze
Julien Luchaire nel 1906. Fonte: Archivio G. Papini, Fondazione Primo Conti, Firenze
Pochi mesi prima dell’inaugurazione ufficiale dell’Istituto francese a palazzo Fenzi il 27 aprile 1908 [Renard 2001] [1], il giovane Papini scriveva a Prezzolini con cui condivideva progetti, idiosincrasie e amicizie: «Firenze è sempre più inabitabile. Ci sono, nello stesso tempo, Croce e Bergson, Cena, Luchaire – e tutti vorrebbero vedermi. Io sto invece nella mia casetta e lavoro» [Papini, Prezzolini 2003, 722] [2].

L’ideatore del progetto di un istituto di lingua francese nella città di Dante era il professore di origine bordolese Julien Luchaire, dal 1906 titolare dell’insegnamento di lingua e letteratura italiana a Grenoble, uno dei centri più importanti per gli studi di italianistica in Francia e tra i primi ad istituire a fine Ottocento corsi per stranieri [David 1984] [3]. Ma alle origini della scelta di Firenze, quale luogo di un investimento politico-culturale che avrebbe presto coinvolto il ministero degli Affari esteri del Quai d’Orsay, stava la dimensione europea della città che combinava il prestigio delle sue istituzioni con i fermenti di un’epoca nuova e turbolenta, di una generazione di “letterati” in conflitto con la tradizione, stanchi dello storicismo dei padri, in cerca di spazio e riscatto nella “civiltà della crisi” [Mangoni 2013; Papadia 2013; Balzani 1998].

I rapporti del console di Francia a Firenze negli anni 1903-1905 raccontano di una colonia stanziale di 350-400 persone, di gran lunga inferiore ai numeri di anglosassoni e svizzeri e superata, proprio nel corso del primo decennio del Novecento, dalla comunità tedesca che, dal 1897, poteva fregiarsi della presenza del Kunsthistorisches Institut. L’Istituto per lo studio della storia dell’arte e dell’architettura italiana era finanziato da donazioni private e dal governo del Reich – sul modello dell’Istituto archeologico di Roma – e restò affidato fino al 1912 alla direzione di Heinrich Brockhaus, esponente di una famiglia di editori di Lipsia, che lo ospitò nella sua casa sul viale Principessa Margherita (oggi Spartaco Lavagnini) [Renard 2002; Hubert 1997; Benedetti 2009].

In quella primavera del 1908, mentre l’Istituto di Luchaire apriva le stanze alle delegazioni politiche e diplomatiche di Italia e Francia, l’Istituto germanico inaugurava i seminari di alta formazione per professori e direttori di scuole prussiane e pubblicava il primo fascicolo della rivista «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», apprestandosi a traslocare le sue già ponderose collezioni di libri e fotografie nell’antico palazzo Guadagni in piazza Santo Spirito [4]. La comunità francese che, a lungo, era stata più corposa e radicata di quella tedesca, tardò a darsi una istituzione di pari notorietà internazionale.

Dunque, le ragioni della concorrenza tra “imperialismi scientifici e culturali”, sempre più agguerriti sia in Europa sia al di là dell’Atlantico, giocarono a favore del primato storico-artistico e linguistico di Firenze [Charle 2004; Young 2004]. Allo stesso tempo, la riforma dell’insegnamento secondario francese del 1902 sembrava aprire nuove opportunità professionali agli studiosi delle lingue viventi – compreso l’italiano che ancora a fine Ottocento si insegnava nei licei solo in alcune città della Francia sud-orientale e che la nuova legge aveva ammesso, invece, tra le lingue moderne per la prova di baccalaureato. Da studente Luchaire aveva appreso l’inglese e il tedesco nelle scuole secondarie ed era diventato italianista per l’interesse verso la storia maturato durante la sua permanenza all’École française de Rome (1898-1899) come borsista della Normale di Parigi [Luchaire 1965a]. Sia nel percorso formativo di Luchaire che in quello del suo predecessore all’università di Grenoble, il dantista Henri Hauvette, i soggiorni in Italia avevano costruito contatti nel mondo accademico e rafforzato un approccio “diretto” – non solo storico e filologico – all’insegnamento delle lingue moderne, in linea con il rinnovamento dei metodi in atto nell’Europa dell’Otto e Novecento a vantaggio della lingua parlata e dell’apprendimento induttivo della grammatica [Ricucci 2014].

Tra 1905 e 1912, in una fase di intensa politicizzazione degli scambi intellettuali, crebbe la dotazione riservata dallo Stato all’insegnamento della lingua e alla diffusione delle opere francesi all’estero, in particolare nei luoghi e nelle discipline dove la concorrenza tedesca era più forte o incalzante (Mediterraneo, Americhe, Oriente), con la messa a punto di comitati, uffici e servizi di coordinamento tra i ministeri degli Esteri e della Pubblica Istruzione [Milza 1980; Charle 1994] [5]. La domanda di figure capaci di manovrare in un’offensiva culturale di tipo nuovo i vecchi fili dell’imperialismo ottocentesco favorì l’azione di specialisti di lingue straniere (italianisti, ispanisti) sostenitori a vario titolo della “panlatinità”, il cui ruolo nel sistema delle relazioni internazionali fu potenziato e trasformato dalla Grande guerra.

Palazzo Lenzi, 1912, sede dell’Istituto Francese di Firenze. Fonte: Foto Brogi - Raccolte Museali Fratelli Alinari
Palazzo Lenzi, 1912, sede dell’Istituto Francese di Firenze. Fonte: Foto Brogi - Raccolte Museali Fratelli Alinari
Alla luce di questo intreccio di fattori nazionali e internazionali, l’innesto dell’Istituto francese nel tessuto culturale di Firenze fece leva non tanto sulla vitalità della colonia francese residente – fatta di commercianti, religiosi, ingegneri, nobili e insegnanti – quanto sul radicamento della “sorellanza delle nazioni latine”: un’ideologia, un mito, una pratica declinabile in tante direzioni, che la crescita di intensità e di importanza dei rapporti tra cultura italiana e tedesca dei decenni 1860-1915 e gli scontri commerciali e diplomatici dei governi della Sinistra storica con la Francia della Terza Repubblica non avevano cancellato [Soldani 2016] [6]. Anzi, il conflitto franco-prussiano, mettendo in crisi la coscienza di una civiltà europea fondata su comuni radici greco-romane e cristiane da far valere su un altro/altrove da conoscere e civilizzare, aveva rilanciato una idea di latinità come diversità originaria, basata sulla comunanza di elementi razziali, spirituali e linguistico-culturali incompatibili e contrapposti al germanesimo della potenza e delle macchine [Ferrero 1897] [7].

Dalle colonne de «Il Marzocco» – la rivista letteraria anti-positivista fondata a Firenze dai fratelli Orvieto nel 1896 – si auspicava un ricongiungimento del cammino delle sorelle latine sotto il segno dell’idealismo, una resurrezione del sentimento nazionale contro le influenze straniere e decadenti. Propositi simili riecheggiavano nella «Revue des deux mondes» di Brunetière, seppure con accenti più religiosi [Mangoni 1985; Colin 1988; Chiesi, Bagnato 1996]. Un anno prima che Julien Luchaire si stabilisse a Firenze, Gaetano Salvemini – dal 1906 all’Università di Pisa e nel 1916 legato alla traduttrice Fernande Dauriac, ex moglie di Luchaire – aveva pubblicato una storia della rivoluzione francese che esaltava i nessi tra valori della cultura francese, Risorgimento italiano e radici della democrazia europea [Salvemini 1905]. Le avanguardie animatrici delle riviste della Firenze di primo Novecento cercavano ispirazioni e corrispondenze nella letteratura contemporanea francese (Péguy, Rolland, Anatole France, Apollinaire…) e guardavano al mercato letterario d’Oltralpe con l’intento polemico di prendere le distanze dalle élite tedescofile dell’ambiente accademico e politico italiano [Pellegrini 1967; Grange 1993]. Dopo vari soggiorni a Parigi, Prezzolini dedicò alla Francia un libro-repertorio: La Francia e i francesi osservati da un italiano (Milano, Treves, 1913) che il critico e traduttore Benjamin Crémieux, segretario generale dell’Istituto francese fino alla mobilitazione bellica e tramite di primo piano della diffusione della letteratura italiana in Francia, recensì favorevolmente, offrendosi anche di tradurlo; il progetto poi non andò in porto per lo scoppio della guerra [Trice 2005; Muller 2013; Desideri 2017].

Il conflitto mondiale investì il lavoro intellettuale in tutte le sue forme (discorsi, pratiche, prodotti, condizioni materiali, organizzazione, reti di relazione, circolazione), innescando cambiamenti profondi nei rapporti tra politica e cultura e nel senso stesso da dare a quelle parole nei diversi contesti e nelle varie fasi della guerra e delle alleanze [Calì et al. 2000; Dogliani 2013]. Come appare evidente nelle opere di due protagonisti delle relazioni culturali tra Italia e Francia quali Luchaire e Ferrero, tra 1914 e 1922 fu sempre più difficile stabilire un confine tra attività politica, educativa e scientifica nella misura in cui si moltiplicavano spazi e occasioni di uso pubblico della storia e si andavano politicizzando in senso nazionalista tanto il mestiere di storico che quello di giornalista e di insegnante [Grasso 2007].

Appartenente a una famiglia di professori universitari [Caplat 1986] [8], Luchaire arrivò a Firenze poco più che trentenne. Aveva studiato a Parigi e Roma e si era inserito nei ranghi accademici negli anni definiti da Cristophe Charle di consolidamento del ruolo sociale dell’intellettuale sotto il segno dell’affare Dreyfus, su cui peraltro egli non prese pubblicamente posizione [Charle 2002]. Nella Francia che si lasciava alle spalle alla vigilia degli anni Dieci, questo modello “progressista” era sottoposto a critiche da destra e da sinistra, mentre emergeva una nuova figura di intellettuale guardiano dei valori della civilizzazione minacciati da decadenza e “nuove” barbarie. Si affermava un’intellighenzia letteraria avversa a L’esprit de la nouvelle Sorbonne, ai professori al servizio della repubblica laica – alla Émile Durkheim – accusati di ridurre la morale a “scienza del costume”, di svilire l’individualità e l’arte nella raccolta sistematica di dati. Convinta di avere molti giovani dalla sua parte, essa avrebbe trovato nella guerra patriottica un collante e un orizzonte [Agathon 1911 e 1913; Prochasson, Rasmussen 1996].

La Firenze di primo Novecento in cui Luchaire si trovò a operare era una città poco moderna ma in fibrillazione, dove pullulavano riviste e manifesti che davano voce a gruppi elitari – nei comportamenti più che nell’estrazione sociale – spesso estranei al sistema universitario, insofferenti verso la società liberale; uomini che si sentivano “speciali” e che rivendicavano per sé, per il manipolo dei moderni mediatori di cultura e coscienti del proprio ruolo di “persuasori”, la guida nella rigenerazione del paese poi identificata nella prova di “sangue e ferro” del conflitto mondiale [Attal 2013; Biondi 2005] [9].

Agendo stabilmente in un paese straniero con il sostegno istituzionale – prima debole, poi intenso, infine controverso – della madrepatria ed entrando in contatto con le varie anime (e divisioni) del nascente “partito intellettuale” italiano [Papini, Prezzolini 2003, 204; Vittoria 2015] [10], Luchaire si fece promotore di un lavoro culturale collettivo che ambiva a impiantare in una realtà assai più arretrata e policentrica di quella francese strumenti di opinione, costruiti da esperti, per orientare élite e mediatori della moderna società di massa nella interpretazione delle cause e delle risposte da dare alla crisi europea.

Guerra di parole: le riviste di Julien Luchaire

Non era la prima volta, e non sarà l’ultima, che Firenze veniva eletta a laboratorio di riviste che si proponevano di farsi strumento di una mediazione culturale tra nazioni. Lo storico tedesco Karl Hillebrand, dopo aver abbandonato l’insegnamento a causa della guerra franco-prussiana, fondò a Firenze «Italia» (1874-1877) con l’intento di orientare culturalmente e politicamente la patria adottiva verso la Germania, e lo stesso aveva fatto quarant’anni prima il diplomatico e storico Alfred von Reumont, esortato in quest’opera di collegamento dal marchese Capponi [Moretti 2000] [11].

Fin dagli esordi appare chiaro che il corposo mensile «France-Italie» (luglio 1913-giugno 1914) diretto da Luchaire con il sostegno di una doppia redazione – a Firenze presso Il Grenoble e a Parigi in rue Chalgrin 20 – si discostava sia dal modello erudito dei periodici universitari dedicati agli studi di italianistica – come il «Bulletin italien» (1901-1918) di Bordeaux – sia dalle riviste pedagogiche, turistiche o culturali in senso lato, edite tra Otto e Novecento a Roma e Parigi sotto l’insegna della latinità. Semmai un confronto si potrebbe fare con le riviste italo-americane e italo-inglesi, concorrenti sul piano della diplomazia economica e culturale, pubblicate nel 1918 a Roma, Milano e Firenze, come ad esempio «Vita britannica» (1918-), il bimestrale edito dall’Istituto britannico di Firenze [Sanders, Taylor 1982; Price 2006].

Pur essendo legata alla vita e al personale dell’Istituto che collaborava alla sua redazione [Renard 2001], la rivista non serviva a illustrarne l’attività, ma era uno degli strumenti dell’apparato politico-culturale messo in piedi da Luchaire di concerto all’insegnamento e alla divulgazione, alla biblioteca, alla progettazione di conferenze, repertori, collane di libri e traduzioni. Seguendo il modello del comitato Francia-America fondato nel 1909 dallo storico-diplomatico Gabriel Hanotaux, nel 1912 Luchaire aveva dato vita al comitato Francia-Italia, sotto la presidenza di Stephen Pichon, a cui corrispondeva un comitato gemello Italia-Francia espressione del milieu intellettuale e politico (Ferrero, Luigi Luzzatti, Leonida Bissolati, Ferdinando Martini, Pompeo Molmenti, Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Campolonghi) favorevole al riavvicinamento tra i due paesi, specie dopo gli incidenti diplomatici del 1912 che avevano riaperto antiche tensioni coloniali [Mastellone 1978; Signori 2017] [12]. Sostenuta da questi comitati, la rivista si poneva esplicitamente sul terreno delle relazioni bilaterali quale canale di in-formazione di un’opinione pubblica colta nel quadro di una ridefinizione del sistema dei rapporti geopolitici tra potenze [Bertrand et al. 2016].

Con una veste grafica seriosa – ben lontana dalle incisioni eseguite da Adolfo De Carolis per le riviste artistico-letterarie fiorentine – e privo di inserzioni pubblicitarie, il periodico si concentra sulla contemporaneità: più dei 2/3 degli articoli della prima parte – La vie et les livres articolata in due sezioni: Relations franco-italiennes e Italie, a loro volta ripartite in Actualités e Histoire – riguardano temi di attualità e, anche in ambito storico, l’interesse per l’età delle rivoluzioni borghesi prevale su quello per il Medioevo e il Rinascimento. Ci si occupa delle riforme giolittiane, dello stato dell’economia e della finanza, di elezioni e di trattati commerciali, con il proposito di documentare realtà e potenzialità dell’Italia in quanto nazione moderna e non solo culla dell’antico o paese del “dolce far niente”.

Sotto molti aspetti la rivista rappresentò un ponte e, insieme, uno spartiacque tra fasi diverse dell’azione politico-culturale di Luchaire a Firenze. Iniziò a uscire dopo la guerra di Libia che aveva avuto l’effetto di acuire le divisioni in seno al mondo intellettuale su quali dovessero essere i doveri morali di uno storico e/o di un letterato, su quale giornale fosse giusto fare per non essere letti solo dai «politicanti», ma penetrare «nelle classi vergini di pensiero politico e civile» [Salvemini 2004, 347] [13]. «La Voce» di Prezzolini era accusata di fare troppa “politica spicciola” e poca “cultura”, mentre Salvemini ribatteva:

la “coltura” oggi consiste in Italia nel discutere che cosa è Tripoli, quali sono i pregi, quali i pericoli ecc. ecc. […] Siamo nati per discutere. Invece gli altri “amici” vogliono che si taccia fino a cose finite. Allora pubblichiamo un volume di…. coltura retrospettiva. Intanto discutiamo dei cipressi di San Guido e di Bernardino Ochino [Salvemini 2004, 321] [14].

Nella difficoltà crescente di far coesistere l’uomo d’azione e di pensiero, l’intervento nella mischia e il “ritorno alla letteratura integrale” [15], la revue «France-Italie» provò a collocarsi “tra” le molte anime dell’Italia di primo Novecento, tra “i pedanti e i geniali” [Dei 2008], come emerge dall’analisi de La vie et les livres e dalle rassegne letterarie in cui trovano spazio sia i versi di D’Annunzio e Pascoli, sia gli interpreti di “un’altra” poesia (Rebora, Jahier, Corazzini, Gozzano e Saba) [16]. Fatta perlopiù da francesi (69%), dai collaboratori ventenni di Luchaire, borsisti a Firenze, essa annovera tra le 4-5 firme di italiani più influenti o ricorrenti (Gentile, Ferrero, Prezzolini, Giretti, Pastore) figure appartenenti a campi ideali e politici differenti (spiritualisti, radicali, nazionalisti…) sottoposti dalla guerra a inedite convergenze in nome dell’italianità [Ostenc 2007].

Non conosciamo l’esatta tiratura del periodico, che ebbe vita breve (12 fascicoli), e possiamo fare solo congetture circa la sua capacità di ampliare geograficamente il bacino di lettori [17] e di servirsi dello strumento dell’inchiesta – come poi dei repertori – per attivare contatti tra le élite politico-intellettuali delle due nazioni [18].

Nel privilegiare le questioni di politica estera (le alleanze, le colonie, i confini), lo sguardo dei commentatori si allarga dai ceti dirigenti al peso delle credenze del pubblico, ai fattori emotivi e psicologici, nella consapevolezza – derivata dalla lezione delle scienze sociali [Fitzi 2017] – che nessun aspetto della politica, neppure quella di vertice o internazionale, potesse ormai fare a meno dello studio de L’opinion:

È soprattutto in materia di questioni internazionali che serve fare una distinzione tra l’opinione della massa e quella di un pubblico ristretto che si dice “competente” e che gioca un gran ruolo nella formazione delle correnti d’opinione sulle questioni estere. Anch’essi non sono solo rappresentanti di interessi, ma sensibili a elementi quali la simpatia per un certo governo, la comunanza di religione, il patriottismo […]. In entrambi i casi si tratta di simpatia o antipatia, più spontanea nei primi, più conseguente a ragionamenti nei secondi. Non si deve mai dimenticare l’importanza decisiva di questi elementi (benevolenza, malevolenza) specie nei momenti difficili [19].

Complessivamente, la mediazione più complicata, l’ambiguità più grande restò quella tra l’intento di portare avanti una sorta di contro-informazione rispetto ai semi di odio sparsi dalla stampa gallofoba e italofoba, colmando vuoti di conoscenza e combattendo stereotipi di ostacolo alla cooperazione, e le spinte ad affermare un primato, a schierarsi all’interno di una “guerra di cultura” e “tra” culture affilando le armi della propaganda [Gentile 2013].

«France-Italie» cessò le pubblicazioni in concomitanza con l’attentato di Sarajevo, mentre la comparsa della «Revue des nations latines» (maggio 1916-aprile 1919), codiretta da Luchaire e Ferrero – a Firenze con la famiglia dall’estate del 1916 – anticipò di qualche mese la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania e non sopravvisse di molto ai rancori provocati dalle trattative di pace [Giladi 2013a; Signori 2017]. Uscì a fascicoli mensili in due edizioni a Parigi (Mignot) e Firenze (Aldino poi Vallecchi), vagliate dagli apparati di censura dei due paesi, cosa che complicò il lavoro redazionale, portando all’inizio del 1918 alla decisione di pubblicare a Firenze la doppia edizione sotto una sola censura, ma anche ad ammettere che l’edizione francese era improduttiva da due anni, a differenza di quella italiana che fruttava qualche migliaio di franchi. «Bisogna che rinunci per il momento al mio progetto di una rivista “mondiale” che non può avere per centro che Parigi e mi accontenti della realtà più modesta di una rivista franco italiana. Dopo la guerra, se le circostanze torneranno favorevoli si vedrà; giacché voi sapete che sono testardo ma non fino all’assurdità», scriveva Luchaire a Maurice Wilmotte, redattore capo a Parigi [20]. Dai documenti sulla contabilità della rivista, accanto ai fondi del ministero degli Esteri francese, risultano proventi da pubblicità “amicale” (Ricordi di Milano) e contributi versati da istituti di credito e da gruppi industriali italiani (la Banca Italiana di Sconto, Pirelli, i senatori Carlo Esterle e Luigi Della Torre) a copertura delle spese dell’edizione fiorentina [21].

Nel 1917 la tiratura era di 1.100 copie per ciascuna delle due edizioni [22]. Non erano poche, se si tiene conto delle ristrettezze del tempo di guerra, ma nettamente inferiori ai numeri della «Voce» del 1911 (3.500) e, soprattutto, al pubblico che si poteva raggiungere in pochi giorni tramite l’attività itinerante di conferenze organizzate in Italia, sempre da Luchaire, fin dal 1914 per conto del Quai d’Orsay [Salvemini 2004, 345] [23]: pratiche di propaganda decisamente in anticipo rispetto a quella che fino a Caporetto sarebbe stata la condotta della guerra italiana sul fronte del consenso e dell’utilizzo dei media [Gatti 2000] [24]. Prima del governo Orlando, infatti, la propaganda in Italia sembra restare un affare demandato all’iniziativa dei giornalisti (i rapporti Ojetti, le conferenze ai soldati di Innocenzo Cappa, il «Corriere della Sera» di Albertini…) e ai comitati a tutela degli interessi italiani – come la Pro Dalmazia, la Trento e Trieste e soprattutto la Dante Alighieri presieduta da Boselli – più che alla regia del presidente del consiglio e del ministro degli Esteri [Nezzo 2003; Tosi 1977; Santoro 2005; Pisa 2013]. Nei governi della Francia in guerra le due cariche istituzionali generalmente si sovrapposero, mentre censura delle notizie dai fronti e propaganda furono affidate a organismi diversi; dal 1916 l’attività di informazione e propaganda all’estero fu gestita dalla Maison de la presse presso il ministero degli Esteri e dal maggio 1918 le funzioni di propaganda furono centralizzate sotto la guida del capo del governo Clemenceau [Forcade 2007].

A proposito dell’efficacia delle conferenze patriottiche Salvemini scriveva a Ferdinando Martini, ministro filofrancese delle Colonie, il 6 agosto 1915, di ritorno dall’Umbria:

In base all’esperienza fatta nei giorni scorsi in due serate a base di conferenze e proiezioni a Perugia e ad Assisi, in compagnia del Luchaire e del Destrée – serate riuscite ottimamente – mi sono reso conto dell’utilità di una propaganda sistematica fatta nei piccoli centri da oratori di grido […]. Era veramente impressionante, per esempio, quel che vedemmo ad Assisi la sera del 1° agosto: una cittadina di 4000 abitanti, riempì del tutto il teatro; si sentiva che gli uditori erano contenti dell’attenzione che avevamo avuto di andare a parlare fino a loro; era uno scatenamento continuo di entusiasmo: quella gente è montata per un bel pezzo, ormai [Salvemini 1984, 175-177].

Con lo scoppio della guerra e l’istituzione della Maison de la presse, a cui il governo Briand affidò censura e propaganda dei vari ministeri, generando tensioni nei rapporti tra diplomazia, stampa e politica [Baillou 1984], l’idea e la pratica dell’unione latina – richiamata fin dal titolo dalla nuova rivista di Luchaire e Ferrero – entrarono in una fase completamente diversa. Su tutto dominava l’urgenza di portare l’Italia neutrale nell’orbita dell’Intesa e a dichiarare guerra alla Germania, sfruttando il potere della parola scritta, parlata e mediata dal supporto di immagini e suoni [Gallicchio 2015]. La sfida lanciata dallo storico Ernst Troelsch era di trasformare le “parole in baionette” [Traverso 2007, 137].

«Il tempo della guerra non è quello degli esercizi accademici» – scrive Luchaire in uno dei corsivi che sigla in apertura alle rubriche dedicate alla politica e alla vita economica internazionale [25]. Diventano prioritarie la purificazione della cultura italiana dall’egemonia tedesca “che la snatura e la corrompe”, l’unità contro l’imperialismo germanico, la capacità di «fornire delle armi a questa volontà di resistenza» [26]. La struttura della rivista non è più quella di un archivio per l’analisi, il monitoraggio e l’orientamento delle relazioni franco-italiane; la provenienza geografica dei collaboratori si allarga a Belgio e Russia, comprendendo qualche firma femminile (Claire Géniaux, scrittrice orientalista; Anna Véra Eisenstadt, economista), anche per colmare i vuoti prodotti dalla mobilitazione; la letteratura si riduce per far posto a economia e politica. In genere i fascicoli sono aperti da articoli di taglio storico sulle origini politiche, morali, culturali ed economiche della guerra [27], seguiti da rubriche di taglio internazionale (La politique internationale, La vie intellectuelle, La vie politique, La vie économique internationale; Vers la Fédération). Tra i collaboratori più assidui il filosofo Dominique Parodi, originario di Genova, e il normalista Pietro Silva, che curarono rispettivamente le rubriche sulla vita politica in Francia e in Italia [Soulié 2018; Micheletta 1994; Torchiani 2011]. Protagonisti di questa torsione di interesse verso la contemporaneità, che si tradusse anche in interventi più frequenti sulla stampa quotidiana, sono autori noti per i loro studi di storia antica e medievale – come Ferrero, Salvemini e Corrado Barbagallo – a conferma di quanto proprio le riflessioni sul Momento attuale, rese drammatiche dalla Grande guerra, abbiano indotto mutamenti negli statuti delle discipline, nella rilevanza dei temi e negli schemi interpretativi [Lombroso 1903; Bracco 1998].

La tendenza a storicizzare le questioni convive con il ricorso al linguaggio del mito [28], con la drammatizzazione delle colpe e delle responsabilità assolute della Germania, di tutta la Germania senza distinzioni, come esplicita la presa di distanza dal Rolland di Au-dessus de la mêlée (Paris-Ollendorf 1915), giunto alla trentaduesima edizione [Wilfert-Portal 2010]:

Non c’è comune misura tra i pochi intellettuali tedeschi isolati che sono citati troppo a lungo e l’immensa corrente di pensiero francese, inglese, italiana che si sforza di trascinare il mondo verso un futuro di pace e di giustizia. […]. Come non c’è misura tra l’odio disperato che ha riempito il cuore della Francia violata e l’acquiescenza di quasi tutta la Germania davanti alla guerra, all’idea e alle forme della violenza, per le quali questa guerra è stata possibile [29].

Nei corsivi di Luchaire abbondano le metafore visive, le interrogative dirette, gli incipit ripetuti, i virgolettati. Il discorso si carica di un’energia che cresce proprio nell’anno della stanchezza – il 1917 – in cui si moltiplicano gli appelli ai giovani e all’avvenire, si intensifica l’uso del futuro nei tempi verbali e il ricorso alle categorie economiche, al linguaggio del produttivismo industriale [30]. Per Luchaire non vale la formula coniata da Isnenghi per descrivere la parabola di tanti intellettuali italiani dall’“incanto” della guerra fucina dell’uomo nuovo al “disincanto” del massacro dell’umanità [Isnenghi 2000]. Nella guerra delle trincee la sua idea e la sua pratica di lavoro intellettuale si caratterizzano sempre più come dovere di utilità sociale, sforzo di immaginazione del futuro [31]. Le sue domande mirano al piano della dimensione collettiva e organizzativa dell’umanità, proprio mentre poesia e romanzo – non solo in Italia – ripiegano verso la ricerca di significati esistenziali, travalicando le ragioni storiche e contingenti degli eventi per interrogarsi su un destino privato, sulla sconfitta universale dell’uomo [Senardi 2008].

In questo “sforzo” di guardare alla guerra come occasione di riforma del sistema nazionale e internazionale – che richiama alcune proposizioni coeve del filosofo sociale americano John Dewey [Westbrook 2011] –, il 1917 rappresenta un anno cruciale per i cambiamenti innescati dall’intervento degli Stati uniti e dalla rivoluzione russa che ruppe lo schema amici/nemici “naturali”. Come conciliare la difesa wilsoniana delle nazionalità oppresse, il potenziale democratico delle rivolte antimperialiste dei popoli slavi con il colonialismo e il sostegno francese ai movimenti controrivoluzionari dei cattolici polacchi? Nelle sue memorie Luchaire ricorda: «I russi cedono ma gli americani arrivano. I grandi principi proclamati dal presidente Wilson mi agitavano più delle nuove dai campi di battaglia» [1965b, 45]. L’America di Wilson si elevava a garante morale dell’Intesa ma, al contempo, l’eccezionalismo statunitense si poneva in concorrenza con l’esclusività della “sorellanza latina” [Rossini 2007].

Sul piano operativo il 1917 non fu un anno facile per il direttore dell’Istituto francese di Firenze e del suo annesso milanese, istituito alla fine del 1914 [Renard 2001; Iraci 2011] [32]. Lo vediamo affiancare freneticamente ai rapporti ufficiali numerose lettere personali rivolte soprattutto a militari – come il colonnello Goubet a capo del 5 Bureau dello Stato maggiore dell’esercito (EMA) – per avere più risorse a disposizione e sensibilizzare i comandi al rilancio della propaganda francese in Italia, mentre le priorità del governo Ribot si spostavano verso la rimobilitazione del fronte interno e la soppressione del dissenso [Horne 1997] [33]. Si fece più fitto il calendario delle sue conferenze tra la primavera e l’estate del 1917, proprio nei mesi che precedettero la rotta di Caporetto, di cui Luchaire fornì una lucida analisi nel rapporto inviato il 15 novembre 1917 al deputato-giornalista Étienne Fournol. Erano pagine che mettevano in luce un intreccio di fattori storici, politici e strategici: l’insufficienza dell’istruzione primaria, l’ostilità profonda delle classi popolari verso le classi dirigenti, il loro elitarismo e la generale mancanza di intimità tra soldati e ufficiali; il reclutamento forzato di ufficiali impreparati a sollevare il morale delle truppe, l’inadeguatezza della reazione del governo italiano all’appello papale contro “l’inutile strage” riprodotto da tutti i giornali e in fogli volanti distribuiti al fronte. Il rapporto si concludeva con l’esortazione a sostenere con “fatti nuovi” la reazione morale che sembrava esserci nel paese dopo la disfatta, aprendo al popolo italiano prospettive per il dopoguerra, mettendo in comune le risorse alleate non solo sotto il profilo militare ma anche in altri ambiti della vita civile [34].

Fin dai primi numeri della «Revue des nations latines», Luchaire invitava, infatti, a riflettere sulla necessità di trasformare l’alleanza in federazione:

Le operazioni militari per quanto gigantesche possano essere non sono che un’introduzione a un’altra operazione più gigantesca e decisiva: il movimento delle nazioni le une verso le altre, la loro compenetrazione e la loro fusione in gruppi più omogenei e più potenti. […]. Che lo vogliano o ne siano più o meno consapevoli le nazioni in guerra, mentre dura ancora in superficie l’effervescenza sanguinante dei combattimenti, sono già protese a quel lavoro interno, molecolare, da cui uscirà l’Europa nuova. E occorre che ne abbiano coscienza e lo aiutino. Perché il primo blocco fortemente costituito sarà dotato di una forza d’attrazione capace di disaggregare tutto intorno a sé… La storia offre un certo numero di forme federative diverse. Quelle che saranno adottate saranno probabilmente ancora diverse. Già è al lavoro l’immaginazione dei teorici. Abbiamo tempo di precisare i dati del problema. Ma occorre che da ora l’opinione pubblica s’appresti a porsi e risolvere il problema [35].

Ai suoi occhi l’intervento americano palesava i limiti di una prospettiva esclusivamente eurocentrica, sempre più improponibile nell’era del “megastatismo”, ma anche di una pretesa “autosufficienza” dell’unità latina, seppure allargata a Portogallo, Romania, Africa del Nord, Sudamerica. Questo nuovo assetto spingeva a declinare la latinità come umanità, nel senso di farne uno strumento di costruzione di relazioni globali per una politica estera da intendersi come progettazione di organismi sovranazionali attenti alla dimensione quotidiana delle relazioni intellettuali-morali tra paesi, oltre che al piano degli accordi militari, economici e politici; dunque, una politica estera che superasse l’idea del concerto e dell’intesa tra potenze così come della missione diplomatica di derivazione ottocentesca prospettando una “new diplomacy” e una nuova politica delle nazionalità [Sharp 2016].

La «Revue des nations latines», ridotta alla sola edizione italiana, era ben lontana dal poter secondare simili progetti – come aveva ammesso lo stesso Luchaire nella lettera a Wilmotte –, ma l’expertise, le risorse umane, le reti di relazione maturate negli anni della propaganda bellica si sarebbero riversate in altre direzioni nello scenario di un dopoguerra conflittuale e irrisolto. Rievocando il suo disorientamento nei confronti di una politica internazionale penosamente impigliata e invischiata nelle trattative di Versailles, Luchaire scriveva:

Mi trovai una sera a una specie di ballo con il maresciallo Foch. Scambiammo qualche parola, poi mi prese sotto braccio e mi disse: “Andiamo a veder ballare, ho creduto che non avremmo ballato mai più”. Se mi avesse detto che l’ora non era ancora venuta, sarei stato del suo avviso. Dal balcone ufficiale dov’ero, vidi nella strada una folla incerta, in mezzo alla quale galleggiavano illusioni e germi di discordia; dietro a me non sentivo una casa in buon ordine di marcia [1965b, 67].

Per altre strade

Sulla cesura del 1918-1919 Luchaire glissa nelle sue memorie, quasi che la chiusura della «Revue des nations latines» e la sua partenza da Firenze per Parigi fossero inevitabili fatalità. Il fronte politico-intellettuale transnazionale che si era raccolto dietro l’unione latina si spaccò, cedette sotto i colpi della politica estera antitedesca della Francia, percepita come lesiva degli interessi italiani sul confine orientale. Si spensero presto le speranze accese dal wilsonismo, specie negli ambienti dell’interventismo democratico, con l’esclusione di Germania e Russia e la mancata adesione degli Stati uniti alla nascente Società delle Nazioni. Nel lungo dopoguerra si innescò un processo di scomposizione e ricomposizione delle reti intellettuali con ripercussioni sul piano dei rapporti personali, delle appartenenze politiche e delle relazioni internazionali. Gestire molteplici appartenenze, spesso in conflitto tra loro, reagire al senso di marginalità, adattarsi alle trasformazioni del lavoro intellettuale tra propaganda e nuovi specialismi tecnocratici divenne un problema trasversale alle generazioni, ai vecchi e ai giovani.

Sulla questione adriatica e la revisione del Patto di Londra furono molto più frequenti le occasioni di incontro e confronto fra Ferrero e Salvemini, ad esempio sulle attività di propaganda del Comitato per l’intesa italo-jugoslava, che non quelle con Luchaire, da cui lo storico pugliese sembra peraltro prendere le distanze anche sul piano privato [Salvemini 2001]. D’altra parte Luchaire, smessi definitivamente i panni del professore universitario e assunti nuovi incarichi direttivi negli apparati ministeriali – alle Colonie (1918-1919) e all’Istruzione (1919-1920) – e poi dagli anni Venti negli organismi di cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni, non appare in sintonia neppure con le correnti slavofile o italofobe di numerosi circoli politici, militari e accademici francesi [Le Moal 2006a; Le Moal 2006b].

Tra settembre e novembre del 1918 si occupò ancora di far uscire a Firenze un bollettino dedicato ai punti di vista della stampa francese sulle aspirazioni territoriali italiane: «La Francia» diretto da Franco Marano – ex lettore all’università di Lipsia, che dal giugno 1917 aveva svolto nella sede di Milano ricerche sulla propaganda tedesca in Italia [36]. Tra le carte dell’Istituto francese dell’autunno del 1918 si moltiplicano gli interrogativi sugli effetti dell’imminente smobilitazione sulla rete degli istituti francesi in Italia in termini di fondi e di organizzazione del personale [37].

Prima di partire per Parigi, alla fine di settembre del 1918 sullo sfondo di una Firenze colpita a morte dalla febbre “spagnola”, Luchaire organizzò incontri con Papini – che si diceva ancora convinto della «necessità di una stretta e profonda e totale unione colla Francia non solo per ragioni di sentimento e di amore ma per ragioni di interesse e di sicurezza per tutte e due le nazioni» – nell’intento di promuovere una più stretta unione intellettuale e industriale tra Italia e Francia [Papini, Soffici 2002, 179] [38]. Luchaire avrebbe dovuto costituire il gruppo francese e Papini quello italiano, nel quale cercava di coinvolgere anche l’amico Soffici che si mostrava, invece, orgogliosamente diffidente verso l’alleata latina [39]. L’unione auspicata non si realizzò e quell’abbozzo di progetto si convertì, per qualche mese, in una rivista in lingua francese, «Le Vraie Italie» (febbraio 1919-maggio 1920, ma con interruzioni), diretta da Papini e stampata da Vallecchi, con l’ambizione di farne un «organo di collegamento intellettuale tra l’Italia e gli altri paesi», «di far conoscere agli stranieri non informati o disinformati cosa facciamo, scriviamo e pensiamo con la più grande esattezza e franchezza. E offrire ogni mese una sintesi di ciò che c’è di più vitale e importante in Italia» [De Carlis 1988].

Di nuovo, come nell’anteguerra, nei carteggi tornò a circolare con insistenza la domanda su quale giornale si dovesse fare, su come potesse lo storico o il letterato rendere un servizio utile al proprio paese: «Se ti viene in mente una strada qualunque per far questo scrivimi ché io son pronto a partire anche domani. Non per andare a Parigi per conto nostro, a odorare gli ultimi profumi o gli ultimi puzzi come si faceva prima, cioè per divertirsi e respirare un’aura europea, ma per fare opera utile a noi e al nostro paese», scriveva Papini a Soffici nella stessa lettera del 16 ottobre 1918.

Di risposte ne furono date tante e diverse, sia nell’Italia delle lotte sociali e dell’ascesa del fascismo, sia nella Francia della crisi dell’Union sacrée che vide frantumarsi il fronte intellettuale in una pluralità di posizioni contrapposte e concorrenti sul futuro dell’Europa [Leymarie 2001] [40].

Nelle sue memorie Luchaire esprime il disagio vissuto nelle stanze dei ministeri, in particolare nelle vesti di direttore dell’insegnamento coloniale, anche se il suo linguaggio tradisce la persistenza dell’orientalismo tra gli alti funzionari [1965b]. La guerra non aveva rivoluzionato con gli stessi tempi e allo stesso modo le culture, il lavoro degli uomini e degli apparati nei vari settori dello Stato [Melis 1988], e sarebbe importante sapere di più sulle trasformazioni delle burocrazie, oltre che sulle forme e i contenuti della propaganda su cui tendono a concentrarsi gli studi. A più riprese Luchaire ironizza sulla formula dell’«attaché intellectuel», sulla sua difficoltà a identificarsi con il ruolo del diplomatico chiamato a gettare ponti, restando però saldamente ancorato a una sponda del «fossato». Mentre Briand – con cui egli ebbe certo più affinità che con Barrère, ambasciatore di Francia a Roma – lo invitava a continuare a “impastare” [Luchaire 1965b, 42-43], durante il governo radicale di Herriot e con il sostegno del ministro della Pubblica istruzione François Albert, come lui di origine bordolese, Luchaire orientò la sua vocazione a farsi “agente di relazioni morali” nell’assunzione della guida dell’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale a Parigi (1926-1930) [Renoliet 1992].

Al Palais Royal però – dove l’Istituto aveva sede – Luchaire dovette fare i conti con le divisioni europee del dopoguerra e con le nuove forme di competizione politico-culturale tra stati in un contesto internazionale caratterizzato dall’emergere di una “superpotenza” [Tournès 2015]. Ricorda Prezzolini, assunto nel 1925 per volontà del neo direttore:

C’erano due fazioni quella francese, per dir così, che sosteneva il direttore Luchaire, e quella anglosassone che sosteneva il vicedirettore Zimmern […]. Le organizzazioni ufficiali che ci sostenevano erano imbevute di aspirazioni nazionali, e quindi sempre in un certo contrasto con quelle che avrebbero dovuto essere le nostre […]. L’Istituto di Cooperazione intellettuale era un allargamento dell’idea dell’Istituto Francese di Firenze. […]. Già la Società delle Nazioni aveva considerato con un certo sospetto questo aggregato, che risiedeva in un’altra capitale che aveva una risonanza maggiore di Ginevra. […]. Quando Luchaire cominciò a formare intorno all’Istituto un cerchio di rappresentanti particolari degli stati, compresi alcuni che non erano a Ginevra, i sospetti che volesse farsi troppo indipendente s’accrebbero e la fine di Luchaire fu silenziosamente decretata [Prezzolini 1994, 239-247].


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Note

1. Fondato il 9 novembre 1907 per delibera del consiglio dell’Università di Grenoble, l’Istituto – noto come Il Grenoble – era originariamente collegato alla Facoltà di lettere del capoluogo dell’Isère, tra le prime università di provincia a offrire l’insegnamento della lingua e della letteratura italiana. Dal 1912 l’Istituto ha avuto sede nei locali di palazzo Lenzi (poi Pisani Quaratesi) in piazza Manin 2 (oggi Ognissanti).

2. Lettera del 26 settembre 1907.

3. Frequentati, tra gli altri, dallo stesso Prezzolini.

4. Cfr. la cronologia della storia dell’istituto alla pagina http://www.khi.fi.it/storia.

5. Nel 1910 si costituì l’Ufficio nazionale delle università e delle scuole francesi all’estero.

6. Si pensi ai legami tra Napoleone III e Ubaldino Peruzzi, sindaco di Firenze dal 1869 al 1878, e al soggiorno fiorentino di Jules Michelet durante la Comune di Parigi che si concretizzò nella stampa per Le Monnier di un’accorata difesa degli «hommes de production» dell’Occidente europeo contro gli «hommes de destruction» dell’Oriente europeo (prussiani e russi): La France devant l’Europe (1871).

7. Di questa crisi e ansia di riformulazione dell’identità europea nell’età degli imperialismi e dell’ascesa della potenza industriale di Germania e Usa erano espressione gli scritti giovanili di Guglielmo Ferrero, allievo di Cesare Lombroso.

8. Il riferimento è al padre Achille, storico medievale di religione protestante, e al nonno materno, lo storico ebreo Jules Zeller.

9. Nel 1907 Prezzolini dava alle stampe per l’editore fiorentino Lumachi: L’arte di persuadere. La persuasione e la rettorica era anche il titolo della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter all’Istituto di studi superiori di Firenze, in cui il filosofo goriziano, suicida nel 1910, metteva in guardia dal momento in cui «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» (a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1995, 119).

10. L’espressione è in una lettera di Papini a Prezzolini del 17 novembre 1902 a proposito della fondazione del «Leonardo» (1903-1907). Si veda ora il convegno: Firenze e la nascita del “partito degli intellettuali” alla vigilia della Grande Guerra (Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze, 11-12 ottobre 2018).

11. Dell’annuario storico-letterario «Italia» uscirono solo due volumi nel 1838 e 1840.

12. Noti come affare di Carthage e Manouba dal nome dei piroscafi francesi catturati dalla flotta italiana nelle acque del Mediterraneo per sospetta attività di contrabbando di armi nel corso della guerra italo-turca. Cfr. Avis au public, «France-Italie», 1° luglio 1913, 3-4.

13. Lettera di Prezzolini a Salvemini del 20 ottobre 1911.

14. Lettera di Salvemini a Rodolfo Savelli (collaboratore de «La Voce» e poi de «L’Unità») del 14 ottobre 1911.

15. Cfr. «La Voce», cosiddetta “bianca”, diretta da Giuseppe De Robertis (1915-1916) e Chi sono? (cap. XLVII), in G. Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913.

16. B. Crémieux, La poésie italienne d’aujourd’hui et quelques poétes, «France-Italie», 1° luglio e 1° agosto 1913.

17. La consultazione del catalogo on line del Sistema Bibliotecario Nazionale attesta una buona diffusione della rivista, presente oggi in 33 biblioteche, in prevalenza del centro-nord (Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte) ma qualche copia è censita anche al sud e nelle isole (Bari e Cagliari).

18. Cfr. Enquête sur la culture italienne en France, «France-Italie», 1° luglio e 1° settembre 1913. Accanto a repertori della stampa periodica italiana e francese e della vita economica franco-italiana, tra 1916 e 1917 Luchaire progettò una sorta di Repertorio per le relazioni intellettuali tra i paesi latini inteso come raccolta di dati bio- e bibliografici dei principali scrittori, pubblicisti e politici dei paesi latini, a cominciare da Italia e Francia, tramite l’invio di questionari.

19. J. Luchaire, L’opinion, ivi, 1° luglio 1913, 43 [traduzione mia]; Id., L’opinion publique et les relations internationales, ivi, 1° maggio 1914, 541-555.

20. Archivio storico dell’Istituto francese di Firenze (da ora ASIFFi), Corrispondenza autografa, lettera del 26 febbraio 1918.

21. ASIFFi, b. XXII 1915-18, Contabilità Revue des nations latines 1916-18. In base al contratto di codirezione sottoposto a Luchaire da Camille Cerf, tesoriere del comitato Francia-Italia, con lettera del 1° febbraio 1916, ai due direttori spettavano 1000 franchi ciascuno a trimestre; a Ferrero anche il 25% degli introiti pubblicitari netti.

22. Da una fattura dell’editore Vallecchi del 4 gennaio 1917, ibidem.

23. Lettera di Prezzolini a Salvemini del 20 ottobre 1911. Un primo elenco delle date e dei programmi delle conferenze tenute in territorio italiano tra luglio 1915 e maggio 1918 è stato pubblicato da Isabelle Renard nel 2001 ma, da un esame delle relative filze d’archivio compiuto da Claudia Terilli (Università di Firenze) nel 2016, esso risulterebbe più ampio cfr. ASIFFi, b. XXII 1915-1918, Tournées de conferences en Italie.

24. Solo nel novembre 1917 venne istituito al ministero dell’Interno un sottosegretariato per la Propaganda all’estero e per la stampa, che fu affidato a Romeo Adriano Gallenga Stuart fino al dicembre del 1918.

25. J. Luchaire, Vers l’entente économique des nations allinées, «Revue des nations latines», 1° giugno 1916, 304.

26. G. Ferrero, J. Luchaire, Avis au lecteur, ivi, 1° maggio 1916, 2.

27. G. Salvemini, La Triple Alleance, ivi, 1° agosto 1916; C. Barbagallo, Les responsabilités politiques de la guerre franco-prussienne de 1870-71, ivi, 1° marzo 1917.

28. Cfr. P. Savi-Lopez, Le retour des dieux, «Revue des nations latines», 1° maggio 1916, 25-39.

29. J. Luchaire, Vers la Fédération, ivi, 98 [traduzione mia]. Nella primavera del 1911 Rolland aveva tenuto un programma di conferenze a Firenze in qualità di direttore della sezione musicale dell’Istituto francese.

30. Id., Le front intellectuel e Le front économique, ivi, 1° gennaio 1917, 114-118 e 135-136. Sulla parallela attività di propaganda svolta dai giovani figli di Luchaire e Ferrero, Jean e Leo, si veda ora la tesi di laurea magistrale di C. Terilli, Giovani e politica tra Grande guerra e dopoguerra: la Lega latina della gioventù, a.a. 2016/2017, Università di Firenze, relatore R. Bianchi.

31. J. Luchaire, La notion d’effort dans la culture de demain, «Revue des nations latines», 1° febbraio 1917, 299-302.

32. Nel 1919 venne aperto un Istituto francese anche a Napoli.

33. ASIFFi, Copialettere, lettera di Luchaire del 29 giugno 1917.

34. ASIFFi, Corrispondenza autografa, ad nomen.

35. J. Luchaire, De l’Alliance à la Federation, «Revue des nations latines», 1° maggio 1916, 85-87 [traduzione mia].

36. Poi collaboratore del quotidiano romano «Il Mondo» (1922-26) di Amendola. Alcuni numeri del «Bollettino d’informazione politica intellettuale» sono conservati in ASIFFi, b. XIX 1916-1918, f. 7.

37. In una lettera del 5 marzo 1918 Luchaire sconsigliava un funzionario del tribunale civile di Marsiglia a far domanda di impiego presso l’Istituto francese di Milano, non essendoci garanzie sul suo futuro: ivi, Corrispondenza ordinaria.

38. Lettera di Papini a Soffici del 16 ottobre 1918.

39. Lettere di Papini a Soffici del 20 e 26 settembre 1918 e lettera di Soffici a Papini del 2 dicembre 1918.

40. Da «L’Europe nouvelle» (1918-1940) della femminista pacifista Louise Weiss, a cui collaborò nei primi anni Venti anche Crémieux, a «Clarté» (1919-1928): prima espressione intellettuale del comunismo francese; dalla difesa nazionalista dell’occidente latino-cattolico della «Revue universelle» (1920-44) di Jacques Bainville e Henri Massis all’«Europe» (1923-) di Rolland, indipendente da dogmi e partiti.