Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Confini, migranti e rifugiati. Studi Cartografici

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È impossibile parlare delle migrazioni di esseri umani senza evocare i confini che altri esseri umani erigono. La relazione tra i due fenomeni è infatti molto stretta, dal momento che il confine è l'ostacolo più pericoloso in cui si imbatte il migrante, clandestino o meno, nel corso del suo viaggio.

Il confine si inscrive in modo contrastante nel paesaggio: o si impone come una barriera spessa, o finge di sparire. Dà l'illusione di un mondo perfettamente organizzato in regioni e paesi. I confini allo stesso tempo raggruppano gli uomini e li separano. Si muovono nel tempo e nello spazio quando la storia sconvolge la geografia del mondo.

Le carte qui esposte sono schizzi fatti a matita, il cui aspetto incerto testimonia la natura del confine stesso: ambivalente e paradossale.

Lo schizzo prefigura la mappa, permette di esprimere più liberamente e più soggettivamente il carattere instabile o arbitrario di queste linee di spartizione, insieme alla diversità del loro statuto.

In questo modo la cartografia incontra l'arte e il cartografo si cimenta in un esercizio che gli permette di essere più diretto e incisivo.

Le carte rispondono prima di tutto alla domanda “dove?” e permettono in seguito di capire “cosa”, cioè in quale modo le comunità umane producono il loro territorio. Dietro ogni mappa, c'è un'intenzione. La mappa nasce da un'idea, è una costruzione mentale prima che cartacea. Lo schizzo mostra l'umore e le esitazioni del cartografo, il quale annota in disordine le idee che costituiranno la trama della storia da raccontare. Il disegno è così concepito e organizzato come un gioco di costruzione: ogni pezzo si trova in contatto con tutti gli altri. Cambiare il posto di uno di questi pezzi significa tornare a ricomporre il paesaggio.

Lo schizzo è un “opera di transizione” malleabile, è il luogo di sperimentazioni grafiche, un rivelatore più autentico e più fedele al pensiero del cartografo rispetto al computer, che invece lo tradisce: cristallizza in modo freddo e artificiale situazioni spesso mutevoli.

È anche più dinamico: movimenti, forme e colori si esprimono in modo più vivace. È possibile rinforzare i tratti, giocare sui contrasti, insistere sul carattere aleatorio della geografia del mondo. Tutto questo suscita un'emozione sia artistica sia politica.


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Mi piacciono le frontiere,
Senza fuoco, senza fiamme, senza fumo e senza apparecchiature:
Io mi accontenterei di fior di vilucchi
Attorno alle dogane e alle loro piantagioni.

Jean Cayrol,
Citato da Michel Foucher in Fronts et frontières, Fayard, Parigi, 1991.


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Costrette ad abbandonare la propria casa, le persone dislocate vivono la stessa condizione dei rifugiati, senza però poter ambire a questo status poiché non hanno varcato alcun confine internazionale.

Queste popolazioni, spesso abbandonate a se stesse, sono difficilmente raggiungibili dagli aiuti internazionali.
Alcuni Stati, appellandosi alla loro sovranità e denunciando il rischio di “ingerenza nei loro affari interni”, rifiutano ogni intervento umanitario. Va precisato che questi Stati sono spesso responsabili dell'oppressione che ha costretto
alla fuga una parte della loro popolazione…

Il centro di monitoraggio per i dislocati interni (IDMC) del Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC), che gestisce una banca dati sull'argomento, stima 25 milioni di persone dislocate nel mondo. Questo se si considera solamente i dislocamenti legati ai conflitti, alle violenze politiche e alle violazioni dei diritti umani…

Gli spostamenti di popolazione hanno anche altre cause: i grandi progetti di sviluppo (dighe, centri industriali, piantagioni) provocano il dislocamento di quindici milioni di persone ogni anno. Nel 2006, i problemi ambientali hanno colpito circa 145 milioni di persone… È difficile stilare statistiche affidabili, però, mettendo insieme tutte
le cause, si può ritenere che i dislocamenti forzati riguardino oggi tra i 100 e i 200 milioni di persone.

Data la situazione, un riesame della definizione del dislocamento forzato sarebbe la benvenuta. Essa permetterebbe di affrontare situazioni come quella statunitense, dove 400.000 vittime – le  più povere – dell'uragano Katrina non sono ancora potute tornare a casa. Oppure permetterebbe di valutare l'importanza degli spostamenti legati allo sviluppo delle grandi piantagioni in tutta la regione della foresta amazzonica…


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Alla fine del 2006, l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) contava dieci milioni di rifugiati nel mondo, tra cui l'80% in paesi in via di sviluppo. Le cifre più elevate si riscontrano spesso nei paesi più poveri: la Repubblica democratica del Congo ne accoglie tra i 200.000 e i 300.000, la Siria più di un milione, lo Yemen 100.000, la Tanzania circa 500.000, il Pakistan più di un milione, la Giordania tra i 2,3 e i 2,5 milioni…

Nessuno di questi avrebbe i mezzi per assumersi da solo questa responsabilità senza l'aiuto logistico e finanziario degli Stati del nord del mondo, che agiscono attraverso organismi internazionali.

L'UNHCR, istituzione mandataria dell'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni unite (ONU) incaricata di rispondere alle crisi umanitarie, ha saputo allestire un apparato logistico che le permette di portare aiuto a 500.000 persone in meno di quarantotto ore. Una cosa che non si improvvisa. I suoi vantaggi? Trecento addetti alla logistica e personale sanitario “di guardia” nei cinque continenti, centinaia di migliaia di teloni, tende, coperte, zanzariere, utensili da cucina, ma anche Tir, depositi prefabbricati e gruppi elettrogeni pronti ad essere imbarcati dai magazzini di Dubai, Copenaghen, Amman, Accra o Nairobi. L'azione umanitaria comincia con una corsa contro il tempo per salvare delle vite: nutrire, curare e offrire riparo.

Una volta passata l'emergenza, comincia un lungo e difficile percorso finalizzato alla registrazione e alla protezione dei rifugiati. Varcando il confine, hanno perso la cittadinanza del loro paese d'origine, senza per questo trovarne una nuova nel paese che concede loro asilo. A questo punto l'UNHCR è incaricato di assicurare la protezione fisica e giuridica a tutti coloro che ne hanno bisogno. Per questo, però, bisogna poterli identificare…

La registrazione presso l'UNHCR nei paesi d'accoglienza è facoltativa: i rifugiati stessi decidono se ufficializzarsi, e spesso capita che giudichino tale procedura inutile, nonché pericolosa. Ovunque sul pianeta, alcune centinaia di migliaia di persone aventi il diritto di ottenere lo status di rifugiato beneficiario di protezione internazionale rimangono in questo modo invisibili e sfuggono alle statistiche.


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Essere “rifugiati” nei paesi del Nord non è come esserlo nei campi dell'UNHCR dei paesi poveri. I primi hanno chiesto e ottenuto l'asilo da parte di un governo che ha accettato di concederglielo, mentre i secondi hanno semplicemente attraversato un confine internazionale per fuggire la guerra.

In un nota di aprile 2003, la Commissione nazionale consultiva dei diritti umani (CNCDH) sottolinea che “l'accezione del diritto d'asilo della legge francese riduce la questione dell'asilo a un problema di politica migratoria. Questa confusione tra concetti è comune nei paesi occidentali. Se l'immigrazione è effettivamente di competenza dello Stato, l'asilo è un diritto riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra (1951). L'arsenale di misure deterrenti adottate contro l'immigrazione ha di fatto conseguenze sull'accoglienza dei rifugiati.

In Francia, secondo l'Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA), il numero di richieste d'asilo è diminuito del 33,6% dal 2005. Nel 2007, solo 7.354 domande sono state accettate a fronte delle 13.770 nel 2005… E considerando l'insieme dei paesi ricchi, il numero dei richiedenti asilo è passato da 600.000 nel 2002 a circa 300.000 nel 2007.

Questa diminuzione drastica si può spiegare col numero sempre più alto di controlli effettuati, ma anche con l'approvazione di nuove misure, come l'istituzione tramite la legge sull'asilo (2003) di una “lista di paesi sicuri”, che contiene ad esempio la Bosnia, l'Ucraina e l'India, (l'Albania e il Niger sono stati cancellati poco tempo fa a seguito di un pronunciamento del Consiglio di Stato), oppure come la “procedura prioritaria”, che permette di trattare le domande in quindici giorni senza rilasciare alcuna autorizzazione provvisoria di soggiorno (APS). Ci si può interrogare sulla pertinenza di una distinzione così netta tra migranti economici e rifugiati che fuggono le guerre e le persecuzioni. In effetti, sebbene non percorrano sempre le stesse strade, affrontano i peggiori pericoli negli stessi luoghi: le isole Canarie, Gibilterra, Lampedusa, il mar Egeo, il golfo di Aden (dove gli scafisti sono di una crudeltà inimmaginabile), il confine tra Messico e gli Stati Uniti… Queste popolazioni sono davvero così dissimili, da volerle differenziare a tutti costi? Il migrante economico forse non ha avuto altra scelta che partire: perché non può anche lui aspirare a una protezione internazionale?

Provare a distinguere oggi non è più pertinente, dal momento che, sebbene le cause degli spostamenti siano varie, le conseguenze sono le stesse: tutte queste vittime meritano la stessa assistenza e gli stessi diritti. Forse vedremo presto il linguaggio dell'Onu arricchirsi di una nuova espressione: “rifugiati economici”?


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Da qualche parte, in un campo di rifugiati in Giordania:

"Mio marito era ufficiale nell'esercito precedente, racconta Amina. Dopo l'invasione, delle milizie hanno cominciato a minacciarci. Quindi siamo andati a Falluja, ma il nostro passato ci ha perseguitato. È uscita una lista con i nomi di tutti quelli che erano stati nell'esercito. Abbiamo lasciato tutto e siamo venuti in Giordania all'inizio del 2005. Aquell'epoca era ancora facile entrare in Giordania. Mio marito non poteva lavorare, quindi è tornato in Iraq per provare a guadagnare un po' di soldi. È rimasto 15 giorni. Non so cosa sia successo, ma mi ha chiamato per dirmi che voleva tornare in Giordania. A un posto di controllo, tra Abu Ghraib e Ramadi, c'erano uomini che sembravano appartenere alle forze governative, ma più tardi abbiamo saputo che era l'Esercito del Mahdi [milizia di obbedienza sciita]. Gli hanno chiesto i suoi documenti, e poi lo hanno portato via. Sono quattordici mesi che non ho sue notizie. Vivo sola con i miei cinque figli. Non ho nessuna fonte di reddito”[1].

Da nessun'altra parte del mondo la circolazione delle persone che fuggono le guerre è così intensa. Quelli che si incrociano sulle strade dell'esilio – sfollati e rifugiati – si contano a milioni: il conflitto afghano, tra i 2 e i 5 milioni a seconda delle stime, il conflitto iracheno, tra i 4 e i 5 milioni, i conflitti in Sudan tra i 5 e i 5,5 milioni, il conflitto israelo-palestinese tra i 4,5 e i 5 milioni… È necessario continuare? Questi numeri stordiscono.

La Giordania accoglie sul suo territorio due milioni di rifugiati palestinesi presenti da due generazioni, e tra 500.000 e 800.000 Iracheni arrivati dall'inizio del conflitto del 2003. Ossia complessivamente 2,5 milioni di persone per un paese di 5,7 milioni di abitanti… Uno dei paesi più poveri di risorse idriche del pianeta.

[1] Rifugiati, Alto commissariato delle Nazioni uniti per i rifugiati, numero 146, volume 2, 2007.


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Siamo all'inizio del nuovo millennio, molto prima dell'edificazione di ciò che è chiamato il “muro dell'apartheid” dal lato palestinese, e la “recinzione di sicurezza” dal lato israeliano. Durante le discussioni sullo status di Gerusalemme, uno dei negoziatori palestinesi ci confida il suo sconforto di fronte al complesso e incomprensibile imbroglio territoriale che gli Israeliani proponevano loro: “se firmiamo un accordo su queste basi, bisognerà in futuro dotare ogni Palestinese di scarpe con piccole luci rosse. Esse si accenderanno quando entreranno per sbaglio
nella zona C (sotto il controllo israeliano) e si spegneranno quando torneranno in zona A o B (sotto il controllo palestinese o misto)”.

Ora però c'è il muro. Un immenso muro di cemento, da otto a dieci metri d'altezza, che serpeggia ai margini della città, penetra nel cuore della città, attraversa la strada, frattura lo spazio urbano e lo spazio sociale palestinese.

“Non è un confine!” ripeteva Ariel Sharon a chi lo ascoltava quando è cominciata la costruzione. Che paradosso, però! La Linea Verde, il confine legittimo riconosciuto a livello internazionale, viene rifiutata sia sul terreno che sulle mappe israeliane. È invisibile. Al contrario, il muro è molto ben visibile… Esso è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale di giustizia ed è pressoché invalicabile. Pur essendo illegittimo, i suoi terminal ed i suoi checkpoint sono così simili a posti di dogana da poterli facilmente scambiare... E di fatto esso costituisce il vero confine, un confine fisicamente e massicciamente radicato all'interno del territorio occupato.

Una cittadina di Betlemme ne parla:

“Dalla mia finestra avevo una vista magica, la dolcezza del paesaggio, i colori… il verde scuro dei miei ulivi, l'ocra chiara della sabbia e della roccia, la secchezza dell'atmosfera. Era caldo. Fuori dalla mia finestra avevo
tutto l'universo, il mio universo, migliaia di anni di storia! La polvere e l'erba rasa. Dalla mia finestra potevo ammirare un paesaggio stupendo, abbracciare Gerusalemme!

Il tempo passa, il muro si alza e ci rende ciechi. Stiamo diventando ciechi. Finiamo per dimenticare cosa c'è dietro, quelli che vivono dietro. Loro invece non ci dimenticano: ci occupano. Questo muro è… come dire, imponente. È anche… senza fine, senza speranza. Chiude il paesaggio, e chiude anche le nostre vite. Questo muro è enorme e la sua ombra ancora di più. Essa copre le nostre strade, le nostre case e i nostri giardini. Copre anche, e soprattutto, la nostra speranza.

Questo muro è incomprensibile, inspiegabile. Cioè, “loro” lo spiegano… Il loro popolo è traumatizzato dagli
attentati-suicidi. E quindi lo hanno costruito, dicono, per assicurare la propria sicurezza, e, secondo le statistiche, gli attacchi si sono fermati.

Dalla comparsa del muro, però, la mia anima vive nell'ombra. Come l'anima di milioni di persone. Da quando è lì, i nostri negozi chiudono uno ad uno, le nostre stazioni di servizio scompaiono. Il muro frammenta i nostri spazi di vita, ci separa dai nostri luoghi di preghiera, dalle nostre scuole, dai nostri ospedali. Il muro fa a pezzi le nostre vite. Ci divide dai nostri amici e, ancor peggio, dalla nostra famiglia…”.


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“Un tempo, l'uomo aveva solo un corpo e un'anima. Oggi gli serve anche un passaporto altrimenti non viene trattato come un uomo”.
Stefan Zweig (apolide dal 1938 alla sua morte, nel 1942)

 Mentre ascolto Philippe Leclerc, dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR Link www.unhcr.org) raccontare storie di apolidi, questi esseri umani senza nazionalità, e quindi “senza patria”, come posso non pensare ai miei
nonni? Arrivati in Francia nel 1928, provenienti dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia e dall'Ucraina, furono dichiarati apolidi dal momento del loro ingresso in territorio francese. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la loro richiesta di naturalizzazione era quasi riuscita. L'arrivo delle truppe tedesche e l'Occupazione cambiò il corso degli eventi: alla fine dovettero aspettare il 1948 per ottenerla. A parte il periodo di guerra, durante quei venti anni, malgrado tutto, avevano dei documenti, erano registrati, potevano lavorare e beneficiavano all'incirca degli stessi diritti dei cittadini francesi.

Sessanta anni dopo, la situazione mondiale non sembra essere così “favorevole”. La grande maggioranza degli apolidi è condannata a vivere nell'ombra, emarginata dalla società e molto spesso privata dei diritti più elementari.

La popolazione apolide è invisibile per definizione: come sottolinea Stefan Zweig, “l'essere umano non può nulla davanti alla macchina amministrativa”. Solo i documenti provano l'esistenza dell'individuo, non la realtà della sua carne. In questa situazione paradossale, la contraddizione a volte si può spingere fino a questa domanda: quali carte presentare per avere un certificato di apolide?

Gli apolidi sono così condannati a navigare in acque torbide, nei vuoti lasciati da leggi mal concepite, dagli sconvolgimenti geopolitici frequenti e da diverse discriminazioni...

Fenomeno poco conosciuto dal grande pubblico, se non ignorato, l'apolidia nasce da quattro grandi processi: dalla privazione ufficiale di nazionalità (come fu il caso, ad esempio, delle persone fuggite dalla Germania nazista), dalla sua perdita, che spesso avviene in seguito al non compimento delle pratiche, dal rifiuto di registrarsi (soprattutto per ragioni politiche, come avviene, in particolare, per le minoranze e le popolazioni autoctone) e da errori di registrazione. Ed è proprio su quest'ultimo punto che le organizzazioni internazionali concentrano i loro sforzi, considerando che uno dei mezzi più efficaci per lottare contro l'apolidia è di promuovere un sistema efficace di registrazioni delle nascite.

In Europa, la caduta dell'URSS nel 1991 ha trasformato centinaia di migliaia di cittadini sovietici in apolidi. In Lettonia, 400.000 Russi si vedono ancora rifiutare la nazionalità. Alcune note verbali del governo lettone indirizzate all'UNHCR alla fine degli anni '90 testimoniano il dibattito che circonda la questione: con esse, il governo rifiutava all'UNHCR il diritto di definire “apolidi” quelli che lui chiamava “non-cittadini”.

Recentemente, alcuni paesi dell'Asia e del Golfo hanno realizzato importanti progressi politici e legislativi. È il Nepal, in particolare, che resterà a lungo impresso nella storia dell'apolidia: nel novembre 2006, questo piccolo paese ha votato una legge sulla cittadinanza che ha permesso a 2,6 milioni di persone su 3,4 milioni di ottenere la nazionalità nepalese. Questa regolarizzazione di massa indica una certa presa di coscienza da parte degli Stati che finalmente comprendono i vantaggi del riconoscere e registrare queste popolazioni, che, se isolate e fuori controllo, potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza interna.

L'UNHCR stima il numero di persone apolidi nel mondo di circa 5,8 milioni, ma ammette che potrebbe arrivare fino a 15 milioni...


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La scelta di un colore solo, la tinta ocra, simboleggia l’unità di un popolo sparso in una moltitudine di paesi: la nazione Rromani, che raggruppa in particolare i Rrom (con due “r”), i “Manouches” (Sinti) e i “Gitani” (Kalé).

Essa si definisce come una nazione “senza un territorio compatto e senza la pretesa di avere un tale territorio” (quinto congresso dell’Unione internazionale Rromani, Praga, luglio 2000). Le sue rivendicazioni non riguardano lo spazio, ma il diritto e la giustizia.

Una proposta di statuto-quadro, elaborata dal RANELPI LINK a www.rroma-europa.eu (Rete di attivisti rrom sulle questioni politiche e giuridiche) per l’Unione Europea, definisce il popolo rrom come “un elemento costitutivo dell’Europa, alla quale ha apportato un contributo umano, materiale, artistico, economico, militare e morale troppo spesso trascurato”. Questo popolo desidera “iscriversi in una dinamica progressista, orientata verso l’integrazione sociale, l’uguaglianza dei diritti, il rifiuto dell’esclusione e il rispetto reciproco di tutte le identità rappresentate in Europa”.

Ecco un documento che Nicolas Sarkozy sicuramente non si è preoccupato di leggere, e nemmeno certi politici che riprendono in coro i suoi discorsi apertamente razzisti e “rromofobi”.

Come, ad esempio, Dominique Leclerc, senatore UMP (Unione per un movimento popolare) di Indre-et-Loire. La scena si svolge al Senato il 31 luglio 2002, nel corso dei dibattiti sulla cosiddetta legge Sarkozy: “Abbiamo parlato dei nomadi! Sono la piaga di domani. […] Costituiranno problemi enormi […]. Sono gente asociale, aprivativa [sic], che non ha alcuna radice e per cui le parole che noi usiamo non hanno significato. […] Noi, i sindaci, che facciamo ronde, che vediamo ogni notte tre, quattro o cinque camioncini di zingari che vengono a scopare – non ho altre parole - bambine di dodici o tredici anni fin sotto casa dei loro genitori, e questo non interessa a nessuno!”.
Si può leggere nel resoconto ufficiale, a conclusione di questo elegante panegirico: “Sostegno ed applausi dalle file dell'RPR, [Raggruppamento per la repubblica], dei Repubblicani ed Indipendenti, dell’Unione centrista, ed anche su certi banchi del RDSE [Raggruppamento democratico e sociale europeo]”.

Dal 2002, lo Stato francese tenta di criminalizzare i Rrom di Francia per poterli espellere più facilmente. Mentre per i cittadini europei “riconosciuti” i confini scompaiono, per i Rrom, così spesso discriminati e a cui i diritti più elementari sono costantemente negati, essi rimangono un autentico incubo…

Sulla mappa quei confini sono i brutti sfregi rossi e neri.


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Esiste una linea nella sabbia che separa il Sahara occidentale dal Marocco? Ma sì!
“C’è effettivamente una linea che i saharawi non possono attraversare a meno che non accettino di diventare
Marocchini…”
Kamel Fadel, rappresentante del Fronte Polisario[1] in Australia.

Ma no!
“Neanche la migliore cartografia del mondo può negare con un semplice tratto la lotta legittima del popolo marocchino per il completamento della sua unità territoriale…”
Un professore dell’università di Casablanca.

Ma sì!
“Ho risolto la questione del Sahara occidentale che ci avvelenava da venticinque anni…”
Mohamed VI, re del Marocco, in un esercizio di autosuggestione abbastanza ben riuscito, durante un’intervista con i giornalisti de Le Figaro, settembre 2001.

[1] “Il Fronte Polisario è un movimento politico e armato attivo nel , creato nel 1973 e principalmente composto da indipendentisti saharawi” (secondo Wikipedia).


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È strana questa paura paranoica dell'invasione, questa volontà di “proteggersi” a tutti i costi dalle decine di milioni di esseri umani in miseria che, ogni anno, prendono la strada dell'esilio verso le regioni ricche, che essi immaginano come terre di speranza. I ricchi, però, hanno deciso che questa parte di umanità è indesiderabile. Rinforzano le frontiere, erigono barriere invalicabili e costruiscono muri sempre più alti. In fondo si tratta di una vera e propria strategia di guerra, messa in atto per contenere l'invasore minaccioso.

Per effetto a catena, altri grandi paesi come il Brasile, la Cina o la Russia mettono in atto allo stesso modo una “fortificazione interna”, per tentare di limitare le migrazioni economiche dalle regioni povere verso le zone di forte crescita.

Questi ostacoli fisici sono uno degli strumenti più efficaci per criminalizzare l'immigrazione e giustificare l'uso di espressioni come “immigrato illegale” o “clandestino” per chi trasgredisce la legge. Questi nuovi ostacoli, giuridici
o fisici, permettono di creare in maniera artificiale nuove categorie di delinquenti: diventa così un crimine migrare per ragioni economiche, per raggiungere la propria famiglia o per richiedere asilo.


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Abbiamo composto questa carta per la prima volta nel 2003, grazie al meticoloso lavoro di Olivier Clochard, del laboratorio di Migrinter Link a www.mshs.univ-poitiers.fr (Migrazioni internazionali, spazi e società, di Poitiers). Nella prima versione sfortunatamente le cifre erano notevolmente sottostimate. Aggiorniamo questo documento abbastanza di frequente e, sfortunatamente, ogni volta dobbiamo aggiungere punti neri, ogni volta dobbiamo cambiare le cifre in rosso. E mettere al loro posto cifre sempre più elevate.

Il 1° gennaio 1993, Gerry Johnson, un cittadino della Liberia - paese in quel momento devastato da una sanguinosa guerra civile -, viene ritrovato morto, soffocato in un vagone-merci a Feldkirch, in Austria. Il 16 febbraio 2007, i guardacoste constatano la morte di ventiquattro persone, tra cui una donna, tutte originarie della Somalia - paese attualmente dilaniato e smembrato da una guerra sanguinosa - in seguito al naufragio della loro piccola imbarcazione, vicino all'isola greca di Samo. Tra queste due date e questi due luoghi, circa altri 9.000 migranti - come minimo - hanno perso la vita tentando di raggiungere l'Europa, terra di libertà e dei diritti dell'uomo.

Questa cifra spaventosa è fornita dall'organizzazione non governativa United, che si basa sui rapporti giornalistici e sulle segnalazioni delle organizzazioni locali. Solo i decessi conosciuti figurano sulla carta, che rappresenta quindi solo una minima parte di un'ecatombe ignorata.

Questa carneficina è il risultato delle scelte dell'Europa, che ha posizionato un po' dappertutto le sue “reti di protezione”. L'ha fatto coscienziosamente, a partire da lontano, molto lontano dal suo proprio territorio: da Nouakchott a Tripoli, passando da Niamey e Agadir, l'Europa si dota di una “pre-frontiera”. Già nel cuore del deserto, controlli polizieschi, espulsioni, raggruppamenti informali e primi campi. Il pericolo si ripropone presto per coloro che oltrepassano le maglie di questa prima barriera e arrivano alla vera “frontiera”, in assoluto la più mortale. Tutti quelli che sono riusciti a passare questa linea rossa, sopravvivendole, saranno attesi ai punti neri, nei cosiddetti campi di accoglienza, cioè alla “post-frontiera”.

Ma non si muore solo arrivando. Si muore anche ripartendo, come Marcus Omofuma, cittadino nigeriano, che il 1° maggio 1999 è stato molto semplicemente assassinato (col viso quasi del tutto bendato) in un aereo della Balkan Air, da tre sadici poliziotti austriaci incaricati di scortarlo nel suo viaggio di ritorno, dopo che la sua domanda di asilo era stata rifiutata.


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I paesi dell'Europa occidentale completano la loro “unità territoriale” raggruppandosi e compattandosi all'interno dello spazio Schengen. In questo modo, essi danno l'illusione di aprirsi agli altri e di facilitare la circolazione degli esseri umani. In verità, con questa zona di libera circolazione si rinchiudono su loro stessi, si ritraggono.

Con un movimento pressoché simultaneo, gli ex-paesi comunisti dell'Europa dell'est viaggiano in senso contrario.
Si frammentano in parti piccole o grandi, si separano come si divorzia consensualmente, e, di comune accordo, erigono nuovi confini.


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Ecco! Finalmente l'Est è passato all'Ovest... Le vecchie democrazie popolari, insieme a tre ex-repubbliche sovietiche, sono state assorbite nello spazio Schengen, che si costruisce senza i suoi “estremi”.

Ai margini dell'Europa “schengenizzata”, gli esclusi sono innanzitutto i più ricchi, Svizzera e Liechtenstein in testa, seguite da Andorra, dal Vaticano, dal Regno Unito e dall'Irlanda. Poi, i più poveri: la piccola enclave russa di Kaliningrad, l'ex-Jugoslavia (eccetto la Slovenia), l'Ucraina, la Moldavia... e la Georgia! Ebbene, i Georgiani sono ottimisti. Da loro, non un solo edificio pubblico ostenta una bandiera georgiana senza affiancarla a quella dell'Unione europea. E, l'anno scorso, sul parlamento erano i colori della bandiera europea a dominare... Non si potrebbe
esprimere più chiaramente le proprie aspirazioni.

Quando anche la Bulgaria e la Romania entreranno in Schengen, resteranno solo queste poche isole in Europa, più o meno grandi e isolate.

Nel settembre 2007, l'Unione europea (UE) firmava un accordo di liberalizzazione parziale del regime dei visti per alcuni paesi balcanici, tra cui la Macedonia. C'è, però, un'importante eccezione: la Grecia che, anche se membro dell'UE, applica gli accordi Schengen... eccetto che per i cittadini macedoni, dai quali esige uno specifico visto greco. In modo del tutto illegale. È vero che esiste qualche dissapore tra questi due paesi, ma questo è davvero un colpo basso...


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In Mali, all'inizio del 2006, una radio ha messo in scena un falso processo alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale (FMI). Questo episodio in seguito è stato ripreso da un adattamento cinematografico esilarante, “Bamako” di Abderrahmane Sissako. Le autorità finanziarie internazionali ridicolizzate. Tutto questo potrebbe in effetti essere divertente, se le conseguenze delle loro successive politiche non fossero state assolutamente reali e così disastrose per il continente africano. Gli aggiustamenti strutturali imposti dalle istituzioni di Washington per “risanare” le economie hanno distrutto l'Africa.

All'inizio del XXI secolo, la Banca mondiale ha riconosciuto di essersi sbagliata e ha pubblicato un comunicato stampa di circa dieci righe che annunciava l'abbandono di questi piani, sottolineandone “gli effetti negativi”, riconoscendo che “la situazione dello sviluppo umano in Africa si è degradata” e scusandosi “dei disagi provocati alle popolazioni dei paesi che ne erano state vittime”. A Washington ci si scusa per dei “disagi” che hanno ucciso centinaia di migliaia di persone, derubato le popolazioni, distrutto le economie e annientato intere branche del settore pubblico.

Si è così passati al “Quadro strategico di lotta alla povertà” (CSLP), una nuova impostura inventata e promossa dalle stesse autorità, a spese della stessa popolazione e che conduce alle stesse impasse. L'America fa generosamente dono all'Africa delle geniali politiche della Banca mondiale e dell'FMI.

In cambio, l'Africa dà petrolio e minerali.

Da parte sua, l'Europa offre orgogliosamente le politiche di aiuto allo sviluppo della Commissione europea, che non valgono molto di più. Cosa che il sociologo svizzero Jean Ziegler sosteneva in Libération (ottobre 2007): “L'Europa favorisce la fame in Africa”, scriveva. Cosa a cui Peter Mandelson e Louis Michel, commissari europei, risposero che “solo gli accordi di partenariato economico (APE ) permettono la crescita e lo sviluppo del benessere in Africa”.

Dietro questa bella espressione che coniuga le parole lusinghiere di “partenariato” e “accordi” si nasconde un temibile strumento di dominazione, che permette alle potenze occidentali di esercitare un certo controllo sull'economia africana, e alle multinazionali di attingervi tutto ciò che c'è di valore.

In cambio, l'Africa dà petrolio e minerali.

Anche la Cina rinforza i suoi rapporti con l'Africa. Essa ha di recente dato prova del suo senso dell'umorismo, accordando alla Repubblica democratica del Congo un prestito di 5 miliardi di dollari per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e di produzione mineraria, togliendo così il terreno da sotto i piedi all'FMI... Il quale ha qualche difficoltà a rimettersi da questo scherzo, ora che i suoi progetti nella regione sono compromessi.

In cambio, l'Africa dà petrolio e minerali.

È dunque solo questo tutto ciò che l'Africa ha da offrire? Se ne sa poco, ma l'Africa offre anche cultura, musica e teatro. Diplomati, professori ed esperti. Studenti, lavoratori qualificati e intellettuali. Scrittori. Molti altri esseri umani che l'Europa rinvia in aereo talvolta legati come salami, se non in una bara.

Le parole di conclusione sono affidate a Eva Joly, ex-giudice istruttore franco-norvegese, che, in un capitolo del suo ultimo libro (La force qui nous manque, [La forza che ci manca], Les Arènes, Parigi, 2007) intitolato molto a proposito “Giustizia per l'Africa”, esclama: “Chi contesterà i contratti conclusi da Areva per l'uranio in Niger o da Sadiola per le miniere d'oro in Mali, da Elf-Total in Nigeria o in Gabon per il petrolio? Paesi tra i più poveri del globo che toccano solo una parte derisoria delle ricchezze prelevate dai loro suoli? La Repubblica[francese]
ha contratto un debito che dovrà onorare. La nostra prosperità è nutrita dalla ricchezze che noi rubiamo. A qualcuno di questi migranti clandestini che rischiano la vita per raggiungere l'Europa, si potrebbe offrire una rendita invece dell'avviso di espulsione. Io sogno [per la Francia] un risveglio collettivo...”


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Circa 21.000 Africani vivono oggi in Austria. Nel 1991, se ne contavano 8.500. Un po' più della metà vive a Vienna e nelle zone limitrofe. A questo numero bisogna aggiungere circa 19.000 persone originarie dell'Africa che sono state naturalizzate, per un totale di circa 40.000 persone.

Tendiamo a dimenticarlo: l'Africa non è una, ma è multipla. E la comunità africana che vive in Austria non è una, ma multipla. Essa raccoglie una popolazione molto varia che proviene da tutti i paesi dell'Africa, e che costituisce un'innegabile ricchezza umana e culturale. La maggioranza viene dalla Nigeria, dall'Egitto, dal Ghana, dalla Tunisia,
dal Marocco, dall'Algeria, dal Sud Africa e dal Camerun. Non tutti sono rifugiati, esiliati o bisognosi, non tutti sono fuggiti dalle guerre, dalla povertà o dai disastri ambientali... E non sono neanche tutti drogati, spacciatori, ladri o ricettatori. Tra di loro ci sono anche insegnanti e diplomati. Lavoratori, scienziati, studenti o membri delle organizzazioni internazionali. In Austria sono tutti, spesso e senza distinzioni, vittime di discriminazioni, talvolta estremamente brutali.
Questo razzismo ordinario, essenzialmente fondato sulla criminalizzazione generale della popolazione africana, è radicato nel pensiero popolare. Esso è nutrito e diffuso da media compiacenti.


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Marcus ha solo sette anni quando è oggetto per la prima volta di discriminazioni brutali. Siamo a Yola, capitale dello Stato di Adamawa, nel nord-est della Nigeria. Sua madre è morta da molto tempo e il suo padre biologico è sconosciuto. Marcus vive dal patrigno, che lo caccia da casa... Il suo crimine? Essere cristiano. Il suo patrigno è musulmano. E il bambino non ha nessun posto dove andare.

La storia di Marcus si iscrive in un contesto di violenze etnico-religiose che, da una ventina di anni, ha provocato
la morte di una decina di migliaia di persone nell'intera Nigeria, dove circa il 50% della popolazione è musulmana
e il 40% cristiana.

A Yola (ma anche in altre città, come Numan, nello stesso Stato), le violenze religiose sono regolari. Marcus, cacciato
dalla sua casa, dorme ormai nel garage in cui lavora. Per un certo periodo viene accolto da una giovane donna di venticinque anni che ha incontrato in chiesa; ma è costretto a tornare a dormire nel garage quando il suo patrigno comincia a minacciarla seriamente. Nei cinque anni che seguono vive in questo modo, dormendo tra le macchine in riparazione e lavandosi nel fiume. All'epoca ha 13 anni e migra verso il mercato, nella speranza di trovare dei piccoli lavori, ma è vittima di gang che non gli permettono di restare.

Allora ritorna alla chiesa, dove i preti tentano di convincerlo a tornare dal suo patrigno; quest'ultimo sarebbe pronto
ad accettarlo, a condizione però che diventi musulmano. Marcus si rassegna e alla fine accetta il compromesso, ma qualche giorno più tardi ritratta. È di nuovo cacciato da casa.

Questa volta, la situazione e molto più grave: poiché Marcus è ormai adolescente, il patrigno non accetta l'affronto.
Il ragazzo vive metà del suo tempo per strada e l'altra metà nella chiesa. Un giorno, un gruppo di uomini, amici del suo patrigno, lo avvicinano. Sono venuti a ucciderlo. Marcus ha giusto il tempo di vederli sfoderare le lame dei coltelli e di fuggire via il più velocemente possibile. Deve la vita alla sua velocità.

I preti della chiesa dove si è rifugiato organizzano subito una fantastica catena di solidarietà per portarlo fuori dalla città e metterlo al sicuro. Viene nascosto nel bagagliaio di una macchina che parte nel mezzo della notte in direzione di Port Harcourt, da dove è immediatamente trasferito in un cargo con destinazione Europa. Il viaggio, interminabile, durerà sei settimane, durante le quali Marcus non uscirà mai dalla stanza in fondo alla stiva dove è recluso.

I ricordi di Marcus circa il suo arrivo sono molto incerti. Si ricorda di un grande porto – Rotterdam o Amburgo -,della pioggia e di migliaia di container. Deve passare il più possibile inosservato. È tutto quello che si ricorda. Viene affidato a un uomo, che rimane in silenzio durante il tragitto, con cui prende il treno per Vienna, via Monaco. Alla stazione, un altro intermediario lo prende in carico e lo accompagna fino al campo di Traiskirchen, dove la polizia  gli dice che è in Austria. “Il freddo percuoteva violentemente il mio corpo, racconta Marcus, e questo campo non
è di sicuro il luogo più allegro del mondo, ma al mio arrivo, dopo il viaggio estenuante, faceva caldo, c'era il necessario per dormire e mangiare, e, soprattutto, mi era permesso restare senza essere minacciato di niente...”.


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La storia di Daniel comincia nel piccolo villaggio di Boya, nel sud del Camerun. Nato nel 1981, compie studi scientifici all'università e poi torna al villaggio, dove non gli si offre alcuna prospettiva. Nel 2004, dopo un primo tentativo fallito, decide di compiere il grande passo e di lanciarsi nell'avventura europea. Destinazione Bochum, in Germania, dove vive una sua amica.

Prima tappa: Yaoundé, per ottenere il sesamo magico, un visto Schengen. Il visto gli viene rifiutato in diversi consolati (di Germania, Spagna e Italia) prima di ottenerlo finalmente in quello francese. Daniel, però, è rimasto diversi giorni nella zona della “strada delle Ambasciate”, luogo conosciuto dai poliziotti corrotti che vi impongono un racket ai danni dei candidati all'esilio, condannati a dormire per strada in attesa dell'ipotetico documento che apre le porte dell'Europa. Daniel non vi scappa ma, fortunatamente, conserva una parte del suo denaro nascosto nelle scarpe.

Di ritorno a Boya, deve raggiungere un porto nigeriano. È impossibile passare per la frontiera terrestre: il viaggio avverrà dunque via mare. Due ore di motoscafo lo portano fino a Malabo, in Guinea Equatoriale; da lì, un'altra barca lo porta in Nigeria, dove incontra il suo “scafista”. Chiuso nel fondo della stiva di un cargo, impiega una settimana per raggiungere Accra, nel Ghana, e si imbarca sul volo regolare di Air France per Parigi.

A Parigi, il suo destino precipita. Per una serie di casi infelici, non raggiungerà mai la città tedesca di Bochum. L'impiegato dello sportello della gare du Nord gli vende un biglietto per la Germania, ma via Svizzera anziché via Belgio. Daniel cambia stazione, prende il treno ed è respinto alla frontiera svizzera, dove il suo visto non è valido. Torna a Parigi dove, per la seconda volta, gli viene venduto un biglietto... per l'Italia, mentre credeva di partire per Bochum. Arrivato nella stazione  di Milano, non capisce nulla, non sa dov'è... Vaga due giorni per la stazione, vende i suoi vestiti per potersi comprare un biglietto del treno e poi del bus per Innsbruck, che finalmente raggiunge dopo aver compiuto a piedi l'ultima decina di chilometri.

Passerà ancora una settimana in stazione e dormirà, con un freddo glaciale, in uno stadio di calcio, prima che un passante gli consigli di recarsi al posto di polizia. Passa allora ventiquattro ore in prigione, poi viene trasferito per due mesi a Salisburgo in un centro per richiedenti asilo, dove resterà tre mesi in condizioni sociali e sanitarie che definisce “atroci”. In seguito viene trasferito per due mesi al centro di Traiskirche, vicino a Vienna, e ritorna in Bassa Austria dove, vivendo in una pensione lontana dal centro della città, aspetta ancora che la sua domanda di asilo venga accettata. Alla fine, il viaggio di Daniel è durato due anni.


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La storia di Djewe è spettacolare, ma non tanto per la complessità dell'itinerario compiuto: il suo è stato abbastanza semplice, un volo diretto Africa-Europa... No, la storia di Djewe è incredibile piuttosto per la catena di avvenimenti che hanno impedito il suo ritorno in Camerun.

Nel 1995, Djewe viene invitato in Austria per partecipare a un congresso. Deve presentarvi la situazione del giornalismo in Camerun, caratterizzata soprattutto dalla difficoltà di esercitare questa attività in modo indipendente in un paese dove la repressione è feroce.

Munito del suo visto Schengen, si imbarca sul volo regolare di Air France diretto a Parigi, Charles de Gaulle, dove lo aspetta la corrispondenza per Vienna. Allo sbarco dall'aereo, però, viene fermato e maltrattato dai doganieri per alcune ore, perde la corrispondenza, per poi essere alla fine dirottato su un altro aereo. Il congresso dura una settimana, durante la quale tutto ha luogo normalmente...

Quando tutto si è concluso, Djewe si reca all'aeroporto in largo anticipo per imbarcarsi con calma. Improvvisamente, si sente chiamare dagli altoparlanti del terminal e si presenta all'ufficio informazioni, dove la hostess gli dà un pezzo di carta con un messaggio e un numero di telefono da richiamare con urgenza. Sono gli organizzatori del congresso che lo supplicano di non salire sull'aereo. Delle informazioni provenienti dal Camerun lasciano pensare che sarà catturato dalla polizia all'arrivo a Douala e rinchiuso in prigione. Più tardi saprà che nello stesso momento sua madre veniva arrestata e imprigionata.

È tutta una catena di avvenimenti, come in un in brutto sogno: l'aereo decollerà dopo tre minuti, ci sono ancora da passare i controlli di sicurezza e c'è da raggiungere il gate di imbarco. Djewe ha esattamente tre minuti per decidere del proprio destino. Le opzioni? Rinunciare a rivedere la propria famiglia e gli amici per anni, perdere il lavoro, ma avere la certezza di continuare a vivere, oppure tornare nel proprio paese e rischiare di farsi uccidere nelle sinistre prigioni di Paul Biya.

In quel momento Djewe decide di “mancare” il proprio aereo e si reca in centro città per presentarsi all'ufficio dei richiedenti asilo. Comincia un anno da incubo. Deve instancabilmente provare che la sua vita è in pericolo in Camerun ad agenti dell'amministrazione austriaca, che continuano a non credergli e che non smettono di provare a intrappolarlo con domande contraddittorie. Eppure è aiutato da colleghi austriaci che testimoniano per lui. La sua prima domanda di asilo è respinta. Fa appello e ottiene infine, qualche mese più tardi, una risposta positiva. Da allora Djewe, perfettamente integrato, vive e lavora a Vienna, munito di un titolo di soggiorno illimitato...


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Gabriel, originario della Guinea Bissau, porta a termine i suoi studi di medicina all'università di Lomé (Togo). È membro attivo dell'Unione delle forze di cambiamento (UFC), partito che si oppone al generale Eyadema, che all'epoca governava il paese con il pugno di ferro. Durante una notte di repressione, però, Gabriel è minacciato e deve fuggire in macchina verso il Benin. Poi, continua la sua fuga in taxi collettivo verso il Burkina Faso via Niamey (Niger).

Resta sei mesi in Burkina Faso, dove lavora nei mercati di Ouagadougou e di Koudougou. Successivamente, riparte per Bamako, in Mali, dove per un anno vive di nuovo di piccoli lavori. Infine raggiunge Conakry, in Guinea, dove fonda una clinica privata. Ci resterà circa quattro anni, e sarà tra l'altro ingaggiato come medico volontario per lavorare nei campi di rifugiati di Kankan e Nzérékoré. Siamo allora nel mezzo della guerra in Sierra Leone e in Liberia: centinaia di migliaia di persone fuggono verso la Guinea per scappare ai combattimenti e al terrore.

Vittima di racket, Gabriel deve lasciare Conakry. Raggiunge Bissau, dove lavorerà per un anno per conto di missionari brasiliani. Diviene responsabile dell'organizzazione dei giovani del Partito della rinnovazione sociale (PRS) del presidente Kumba Yala, rovesciato poi nel settembre 2003. Gabriel è allora arrestato e trasferito in una prigione militare. Un giorno, i prigionieri sono portati nella boscaglia, e, per una coincidenza straordinaria, arrivano proprio vicino a Obiam, il villaggio di cui Gabriel è originario. Conosce la regione come le sue tasche. Dopo essere riuscito a scappare ai suoi carcerieri, raggiunge la capitale, distante quaranta chilometri, a nuoto e a piedi.

Viene nascosto presso i missionari brasiliani e spedito la notte stessa su un piccolo peschereccio verso la Casamance.
Da Ziguinchor raggiunge Dakar in un taxi collettivo. Prosegue il suo viaggio e si ferma quattro mesi nelle isole di Capo Verde. Di ritorno in Senegal, si nasconde di nuovo da altri missionari per un mese, il tempo di far fare un visto Schengen.

Perché l'Austria? “Mi sono ricordato dei miei corsi di storia, della prima guerra mondiale e dell'impero austro- ungarico”, spiega...

Si imbarca su un volo regolare di Alitalia per Roma con una corrispondenza per Vienna, tutto questo dopo essersi preoccupato di effettuare una prenotazione a suo nome per tutt'altro tragitto, al fine di confondere le tracce...
Sbarca quindi regolarmente in Austria e incontra per caso a Vienna quello che chiamerà “il suo piccolo angelo”, una persona che si prenderà cura di lui, gli darà alloggio e lo aiuterà a compiere tutte le pratiche per la domanda di asilo. Gabriel subirà più volte la brutalità della polizia viennese. Alla fine, la sua epopea sarà durata dieci anni.

Crediti

Le carte qui pubblicate sono state presentate in occasione della esposizione svoltasi nell'ambito dei seminari di Le Monde diplomatique 2008/2009 (Bologna, Dipartimento di Discipline Storiche 25/30 maggio 2009) dal titolo Un mondo in gestazione: dall’iperpotenza al policentrismo, a cura di Raffaele Laudani.

Carte e testi di:
Philippe Rekacewicz, nato nel novembre 1960 a Parigi, è geografo, cartografo e giornalista. Dopo aver completato gli studi di geografia all’Università Paris I (Panthéon-Sorbonne) nel 1988, diventa collaboratore permanente del mensile internazionale “Le Monde diplomatique”, che conta, oggi, 70 edizioni internazionali in 26 lingue. Dal 1996 al 2006 dirige il dipartimento di cartografia di un’unità – delocalizzata in Norvegia – del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (United Nations Environment Programme, UNEP), il GRID-Arendal. Si interessa alle relazioni tra la cartografia e l’arte, la scienza e la politica (contributo dell’arte alla produzione cartografica, utilizzo politico della carta come oggetto di propaganda e manipolazione). Dal 2006, pur continuando a collaborare con “Le Monde diplomatique”, partecipa a diversi progetti artistici in Germania, Svizzera, Norvegia e Austria.

Traduzione italiana dei testi:
Giulio Frigieri, Marianna Pino, Marion Lecoquierre

Edizione italiana delle carte:
Giulio Frigieri

Link utili:
Cartografare il presente
Le Monde diplomatique
Dipartimento di Discipline Storiche - Università di Bologna