Storicamente. Laboratorio di storia
Aborto a pagamento
Vi è una differenza fondamentale tra il considerare l'aborto unicamente come una conseguenza del disagio economico e il fatto invece che esso sia inscrivibile in un sistema che è sociale, culturale e anche economico, di cui donne e uomini sono parte con il loro bagaglio di diritti di cittadinanza. Scriveva con molta chiarezza in proposito Natalia Aspesi nel 1976: «una donna non ha diritto di abortire solo perché è particolarmente disgraziata, tanti figli, tanta miseria, mariti inesistenti o irresponsabili e neanche un cane che le dia una mano. Una donna […] ha comunque diritto di abortire per il solo fatto che ha deciso, anche se non è in grado di elencare una serie di disgrazie particolarmente allucinanti. Poiché l’aborto in nessun caso può essere un'elemosina, una specie di sussidio, qualcosa che può essere giustificato solo da condizioni economiche terribili» [N. Aspesi, Quando l’aborto arriva in tribunale, «La Repubblica», 17 febbraio 1976].
Abortire in una clinica a metà degli anni settanta poteva costare dalle 250. 000 a un milione di lire e in cinquanta milioni di lire si può stimare il giro d’affari mensile, del tutto esente tasse, in un sistema di copertura che garantiva vantaggi per tutti [S. Luzzi, Salute e sanità, cit. ,   255-256]. Le altre donne, pur sempre pagando l’intervento una cifra considerevole - dalle 20. 000 alle 150. 000 lire, a seconda se si chiedeva l’anestesia oppure no e a seconda del tipo di “professionalità” di chi lo praticava- rischiavano la vita giornalmente sui tavoli da cucina di medici compiacenti che praticavano gli aborti in casa loro o di altre donne, di ostetriche improvvisate e praticone di ogni genere, che non avevano né scrupoli né sufficienti conoscenze per agire altrimenti, e la rischiavano quasi sempre per quella condizione di impossibilità di scelta data dalla povertà, dal disagio, dall’indigenza.