Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Il “corpo a corpo” di Sergio Luzzatto con la Resistenza

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Introduzione

L’oggetto dello studio di Sergio Luzzatto si annuncia difficile ma cruciale, delicato ma appassionante: indagare un avvenimento relativamente marginale agli albori della guerriglia partigiana nel tardo 1943 – l’uccisione di due giovani “ribelli” per mano dei compagni in una banda infiltrata da ben tre spie fasciste, la cui presenza consente un rastrellamento che conduce alla dissoluzione della piccola formazione – per rintracciare le matrici e i caratteri originari della Resistenza italiana, spingendosi oltre i limiti cronologici del 25 aprile per coglierne gli sviluppi e le eredità nel dopoguerra. Un metodo di lavoro collaudato, tipico dell’approccio microstorico, e allo stesso momento difficile da praticare: individuare un fatto specifico, significativo e rilevante, ricostruirne minuziosamente i dettagli, quindi svilupparne i nessi con il contesto complessivo e trarne elementi di comprensione sul piano generale, relativamente a un’epoca storica nel suo insieme.

Del resto, l’intenzione dichiarata di Luzzatto è di estrarre da una storia della Resistenza gli elementi per la storia della Resistenza. Che la “piccola” storia ricostruita da Luzzatto sia quella della banda in cui militò Primo Levi, e che anzi lo spunto dell’indagine sia tratto proprio dalle poche pagine dedicate dallo stesso Levi a riassumere la breve esperienza partigiana (nel capitolo Oro del Sistema periodico, del 1975), accresce l’interesse di Partigia. Perché lo sforzo di contribuire a una riscrittura della “grande” storia della Resistenza si somma in Luzzatto all’intrigante tentativo di praticare un’archeologia della riflessione sulla violenza di Primo Levi, autore tra i più grandi – se non unico – nel piccolo Novecento letterario italiano, testimone senza pari per intensità di quel secolo. Muovendo dalle poche tracce disponibili – oltre le non molte righe di Oro, quelle ancora più concise di Se questo è un uomo, qualche verso della raccolta Ad ora incerta – Luzzatto propone infatti una rilettura della traiettoria di Levi filtrata proprio dai suoi fugaci ma indelebili trascorsi partigiani, quasi suggerendo che la sofferta e meditata osservazione dell’umano in Levi celi dietro la testimonianza di Auschwitz la reticenza e i fantasmi di quanto accaduto sui monti della Valle d’Aosta nel dicembre 1943.

Vocazione civile e registro letterario in Partigia

Il volume ha molteplici piani di lettura e diversi registri di scrittura intrecciati tra loro. Luzzatto cambia d’abito continuamente: lo storico professionalmente attento alle sfumature si trasforma nell’opinionista dalle affermazioni nette e recise, con l’evidente intenzione di entrare di slancio nell’elaborazione di un discorso pubblico sulla Resistenza; il testimone di una generazione divisa tra memoria partecipata della guerra partigiana e fastidio per gli eccessi della retorica pubblica antifascista si muta nel pedagogo alla ricerca di un antifascismo possibile per le nuove generazioni; il critico impietoso dei limiti e delle rimozioni della storiografia sull’età contemporanea si mostra a suo agio anche nei panni del critico letterario, muovendosi con spericolata destrezza tanto nella prosa quanto nei versi di Levi, analizzati al pari di documenti storici.

L’incalzare di piani diversi dell’argomentazione si riflette nell’alternarsi di ritmi e livelli linguistici differenti. A pagine di ricostruzione analitica di fatti, proprie della pratica storiografica, a volte persino ripetitive e ridondanti di particolari, seguono pagine di estro polemico, con più o meno brusche accelerazioni di ritmo, tipiche dell’opinion maker. A pagine d’ispirazione narrativa, dove, con compiaciuta ricerca di stile letterario, la storia è raccontata a chi non è professionalmente uso a essa, seguono pagine degne di una spy story, dove ipotesi, suggestioni, allusioni e rinvii all’immaginario tengono stretto il lettore al racconto. Il tutto sapientemente condito dal rinvio alla soggettività dello scrittore, quando in forma di diario di bordo, dove il Luzzatto autore di Partigia narra le tappe della ricerca, gli incontri con i protagonisti, le sensazioni dei luoghi, le ambasce dello studioso, i dubbi dell’uomo; e quando in forma autobiografica – al Luzzatto bambino, cui la madre legge le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, succede il Luzzatto giovane studioso colto a Parigi dalla notizia del suicidio di Levi, poi il Luzzatto odierno padre, che immagina di leggere a sua volta pagine dense di valori morali a figli e futuri nipoti. Non v’è dubbio che questa varietà di moduli narrativi e di frequenze comunicative costituisca un motivo di potenziale fascinazione per il lettore. E a Luzzatto va riconosciuta una notevole ed originale capacità di calcare sentieri diversi, non sempre chiaramente tracciati, come anche di interpretare più ruoli al contempo (dallo studioso al divulgatore, dal polemista al comunicatore), non sempre pacificamente riconducibili l’uno all’altro.

Il sovrapporsi e l’intrecciarsi di piani diversi corrisponde anche a fini differenti, e dunque a una varia gamma di criteri analitici, pratiche discorsive, temi trattati. Su tutto sembra prevalere il proposito di gettare le basi di una nuova storia della Resistenza, Luzzatto stesso lo dichiara e lo rivendica nell’introduzione. Ma questa rinnovata narrazione del 1943-45 non è da intendersi nei termini di un’operazione eminentemente storiografica, cioè di uno svecchiamento dei metodi di scavo e di un ampliamento delle fonti, di una revisione delle rilevanze e di una rimessa in discussione delle interpretazioni. Chi si attendesse questo dalla lettura del libro, ne uscirebbe deluso.

Piuttosto, nelle intenzioni di Luzzatto, si tratta di superare qualsivoglia rappresentazione oleografica della Resistenza, di porre fine a ogni retorica, di rigettare le non meglio definite mitologie della cosiddetta “vulgata resistenziale”. Non per nulla l’autore di Partigia ricollega la propria curiosità e passione per la Resistenza alla “spinta” dei libri – non certo contributi di intenzione e valore storiografico – di Giampaolo Pansa, dal Sangue dei vinti in giù, il cui successo Luzzatto assume «come sintomo di una crisi dell’antifascismo», confermata dall’esperienza di insegnamento universitario a «studenti sempre più equidistanti, estranei ai valori dell’antifascismo quasi altrettanto che ai disvalori del fascismo» (9).

Partigia è quindi un libro che non ha gli studiosi come suoi interlocutori principali, se non per richiamarli implicitamente alle loro inadempienze e invitarli a battersi sul terreno della narrazione pubblica del passato. Partigia è un libro di divulgazione militante, che ambisce a raggiungere un vasto pubblico e a promuovere un nuovo senso comune storico intorno alla Resistenza. Perciò, Partigia è anche un libro di battaglia, che si prefigge di contrastare il “pansismo” e la “vulgata revisionista” sul loro stesso terreno, accettandone i temi e accogliendone le domande, ma rilanciando: se in Pansa «tutto si somiglia, senza considerare le specificità dei contesti» (162), che fanno di ogni vicenda un unicum, si tratterà allora di rispondere sul piano della contestualizzazione dei fatti e della complessità delle situazioni. Solo in tal modo – è l’evidente monito di Luzzatto – si potrà davvero fare i conti con la verità contenuta nella denuncia della retorica resistenziale e antifascista portata avanti da Pansa, colui che ha sdoganato e legittimato definitivamente la “vulgata revisionista”. Tranne che assumere polemicamente l’esistenza di una “vulgata resistenziale” – e varrebbe la pena di ripercorrere la genesi e l’impiego di tale terminologia, in un tragitto che si snoda da Renzo De Felice a Pansa – imporrebbe almeno di sostanziare tale locuzione con riferimenti precisi e non esclusivamente allusivi, di indicare quali sono i saggi e i libri su cui poggia questa famigerata vulgata, quali le firme che l’alimentano di parole e immagini distorsive della realtà. Altrimenti, è fondato il dubbio che si confonda strumentalmente il piano della retorica pubblica con quello della pratica storiografica, imputando a quest’ultima i guasti – comunque da precisare e dimostrare – provocati dall’altra. Tale accusa, inoltre, si rivela tanto più paradossale ove si ponga mente al fatto che chi la fa propria, mentre da un lato si richiama insistentemente ai contesti, dall’altro, proprio come i “revisionisti”, la estende in forma di giudizio generale, accogliendola acriticamente e senza alcuna contestualizzazione; paradosso ulteriormente alimentato dal fatto che libri come Partigia sarebbero impensabili senza le ricerche e le pubblicazioni prodotte proprio da quegli enti (in primis, gli Istituti storici della Resistenza) e da quegli studiosi spesso annoverati nella vulgata resistenziale.

Si potrebbe peraltro discutere anche del fatto che tocchi agli storici un tale compito di contrasto delle vulgate, di qualunque colore si tingano. Si potrebbe concionare intorno alla funzione civile della ricerca storica, alla necessità che proprio dal campo degli studi debba venire l’individuazione degli elementi costitutivi di un nuovo senso civico o di una nuova religione civile. Chi scrive ritiene ad esempio che agli storici spetti in primo luogo il dovere di studiare, di comprendere senza giudicare, di restituire la complessità delle esperienze e la varietà dei contesti. Poi, spogliatisi delle vesti di studiosi, in qualità di cittadini, anche gli storici godono certo del diritto di essere parte della discussione pubblica sul passato, però senza l’illusione prometeica di poter essere gli agenti costruttori di una narrazione collettiva e di un senso comune storico, che altre figure (politici e giornalisti, sceneggiatori e registi), in altri luoghi, con ben altri mezzi e ben altre platee, elaborano. Comunque, è bene riconoscere questa vocazione civile del lavoro di Luzzatto, altrimenti si rischia di discuterlo non per ciò che è, ma per ciò che si vorrebbe che fosse. Perché se è vero che – nonostante le dimensioni – Partigia ha anche un’ispirazione pamphlettistica e una disposizione alla battaglia culturale, non è men vero che la militanza è espressa a foggia di saggio scientifico. Ci si potrebbe semmai interrogare se non si sia in presenza di un nuovo genere di letteratura saggistica, che prende a prestito da generi diversi registri differenti, per riversarli e miscelarli in una originale forma espressiva e comunicativa. L’alternarsi della narrazione alla tenzone civile, della partecipe soggettività dello scrittore al distacco accademico dello studioso, costituisce forse la premessa per il superamento della polarizzazione tra scienza e divulgazione? Si va forse configurando un inedito stile di comunicazione storico-culturale entro una quinta teatrale, ove i personaggi entrano ed escono dalla scena e la voce narrante ne accompagna e ne descrive gli atti, i comportamenti e le parole, ora con un timbro da tragedia, ora da documentario? Che la letteratura – da Littell a Binet, da Cercas a Englund – sia percorsa da un fremito analogo indurrebbe a una risposta affermativa, e inviterebbe ad ampliare la discussione sulle forme del rapporto con il passato della società attuale. Non potendo qui diffonderci oltre in argomento, ci limitiamo a porre la questione, disponendoci in attesa di prossime conferme o smentite.

Un discorso morale in forma di racconto storico

La proposta di Luzzatto si può dunque riassumere nella ricerca di un nuovo senso civile della storia della Resistenza, da intendersi «come corpo a corpo dei personaggi, impegnati a combattersi non soltanto per odio, ma per una diversa idea di umanità, di giustizia, di società. Il corpo a corpo dello storico con loro. Per guardare non a santini né a mostri, ma a figure vere. E per cercare di compiere, insieme alle migliori fra queste, un nuovo passaggio di valori e memorie» (18). Ecco perché muovere dalla vicenda di Primo Levi, che, man mano che si procede nella lettura, appare sempre più un pretesto, e non il centro dell’indagine. Perché Levi è a suo modo, e suo malgrado, un monumento – uno dei pochi rimasti – della cultura politico-civile italiana, in particolare – non esclusivamente – della sinistra, e un punto di riferimento anche al di fuori dei confini nazionali, uno tra i pochi autori italiani a essere universalmente noto. La scelta dell’oggetto non sembra cioè guidata dalla rilevanza storica dell’episodio raccontato, in effetti piuttosto marginale in sé, un momento tra i tanti, e non certo tra i più significativi, della Resistenza italiana. Appare semmai orientata a individuare un personaggio simbolo, crocevia intellettuale e morale della riflessione sulla violenza, sulla scelta antifascista, sul valore della testimonianza, sull’ambiguità della distinzione tra il bene e il male, per sospingere avanti una discussione sulla Resistenza, sulla possibilità di aggiornarne i valori al XXI secolo e di renderla tollerabile e trasmissibile alle nuove generazioni. In tal senso va intesa l’assunzione di Levi, il chimico Levi, come «reagente etico per questa storia della Resistenza» (19). In modo tale che il fascio di luce emanato da Levi possa riflettersi sul “corpo a corpo” condotto da Luzzatto.

Ciò spiega perché Levi, dopo l’avvio del racconto, si ritiri sullo sfondo, per lasciare spazio a una coralità di personaggi (quarantacinque i principali, oltre a lui, elencati in apertura, come nei testi teatrali), non sempre congrui al fatto storico, ma certo pertinenti all’obiettivo di fondo perseguito dall’autore: affollare la scena con la varietà e la casualità dei percorsi di attraversamento della guerra, quindi con la conseguente articolazione di atteggiamenti, intrisi di contraddizioni, ansie, ambiguità, nobili slanci, meschini tentativi di salvarsi. È un ventaglio di figure che vanno dai compagni e dai familiari di Levi agli ebrei in fuga, dai partigiani ai fascisti, sino a concentrarsi in particolare su uno di questi, Edilio Cagni (il collaborazionista, l’infiltrato, la spia, il delatore, l’agente provocatore), forse il vero protagonista del libro, cruciale figura di «semplice, puro, disinteressato cacciatore di prede umane. L’incarnazione perfetta del male novecentesco come male kafkiano, indecifrabile alla sola stregua di un calcolo morale o politico» (65). Cagni è quasi un alter ego inversivo di Levi, e insieme costituiscono i due estremi del racconto, attorno cui ruotano tutti gli altri personaggi: l’uno è – con le parole di Levi stesso, cui sono evidentemente ispirate quelle citate di Luzzatto – la «spia integrale [...] spia per nuocere, per sadismo sportivo, come abbatte la selvaggina libera chi va a caccia» [Levi 1987b, 552]; l’altro è il testimone della natura tellurica dell’esperienza partigiana, il comprimario di una Resistenza che va cercando se stessa, il reduce – della Resistenza prima che del Lager – che porta in sé i segni del corpo a corpo con i compagni e con se stesso, che – con le parole di Luzzatto – racconta «insieme con la storia di un bene, l’impagabile bene della lotta contro il nazifascismo, [...] la storia di un male insondabile, il male da cui nessun essere umano, nemmeno il migliore, può dirsi totalmente affrancato. Così tra il bianco e il nero, numerose si rivelano qui le tonalità del grigio. A volte, la storia dei partigia ha il fascino semplice dei contrasti. Più spesso, ha la verità complicata delle sfumature» (21).

Eccola, dunque, la chiave interpretativa della storia della Resistenza secondo Luzzatto: una storia dove esiste la realtà del “male” – e il collaborazionista Cagni, nella sua umana e non mefistofelica ordinarietà, ne pare l’incarnazione ideale – e la tensione mai del tutto risolta al “bene”, colta nella sua massima espressione in Levi, nel giovane Levi spinto a opporsi, a scegliere di mettersi in gioco, a incanalarsi nella rivolta contro il male, benché insicuro dei propri mezzi e soprattutto «con in cuore assai più disperazione che speranza» [Levi 1987b, 549], come egli stesso scriverà nel Sistema periodico. In mezzo a loro, uomini e donne che vivono e decidono come possono, secondo una moralità possibile, non assoluta, che li colloca lungo una scala graduata di comportamenti che li avvicina ora all’uno ora all’altro dei due poli, in una gamma infinita di grigi. Perché se Cagni si configura come l’eroe negativo, colui che, nella scala cromatica di Luzzatto, rappresenta, se non il “nero” del male, certo chi più vi si avvicina, è da lui che degradano grigi sempre più pallidi, sino a quello che tinge lo stesso Levi. Sembrerebbe infatti suggerire Luzzatto, ambiguamente slittando su un terreno morale più che storiografico, che se persino Levi – il migliore, appunto – ha condiviso e portato con sé una quota parte del grave peso del “segreto brutto” (la condanna a morte e l’esecuzione dei due compagni), allora proprio non può esistere l’eroe integralmente positivo, nemmeno quando è vittima, poiché nessuno è solo vittima.

Riprendendo la prima pagina di Se questo è un uomo, Luzzatto infatti interpreta l’affermazione di Levi di non poter «che considerare conforme a giustizia» la propria cattura il 13 dicembre 1943 e la successiva deportazione come l’ellittica ammissione della prostrazione morale dei componenti la banda per l’uccisione, quattro giorni prima, di due compagni (11). Una prostrazione che parrebbe celare la cognizione della “colpa”, non la consapevolezza della crudele necessità, pur dura da accettare, della giustizia partigiana. Luzzatto utilizza questa supposta lucidità leviana della colpa per rileggere da altra prospettiva la successiva testimonianza di Levi sull’esperienza del lager, connotata dal fatto di volgere lo sguardo non verso “eroi” e “traditori”, ma alla moltitudine, ai molti uomini non santi e non infami. E allo stesso modo, anzi in sequenza logica, la impiega per supportare l’idea che neppure i partigiani, che certo combattevano una guerra giusta, possono dirsi del tutto immuni al male, neppure loro sono integralmente “buoni”, totalmente nel “giusto”. Se non v’è dubbio che nel contesto della guerra civile le due fazioni si schierano l’una dalla parte giusta e l’altra da quella sbagliata, è altrettanto fuori discussione per Luzzatto che nessuno va però esente da errori, tragedie, ingiustizie.

Così, però, l’ambizione civile sottesa alle pagine di Partigia finisce con lo spingere il loro autore sul crinale del giudizio sui valori, favorendo una progressiva enfasi del discorso morale, al limite di una valutazione della condotta degli individui con il metro della moralità delle scelte. Si è in tal modo indotti – e i lettori vi sono trascinati dalla vis retorica e letteraria dello scrittore – a giudicare il reale con il metro dell’ideale, il comportamento assunto dagli uomini del passato con le aspirazioni etiche del presente. Così che il ricercatore – e con lui il pubblico – non si appaga dello sforzo di comprensione esercitato sui propri oggetti di studio, ma accentua la tensione al giudizio – morale, quando non moralistico – al fine di intervenire sulla società in cui vive e opera, auspicando di riuscire a migliorarla sulla scorta dei propri principi e modelli.

«Dove siete, partigia di tutte le valli?»[*]

Sul fatto che Levi stabilisse un nesso causale diretto tra il “segreto brutto” e la sua successiva deportazione Luzzatto non pare nutrire dubbi. Intreccia la lettura della prima pagina di Se questo è un uomo con quelle del Sistema periodico, mettendole in sequenza, in tal modo approdando a una concatenazione causale dal senso apparentemente compiuto e inequivocabile, che si legge come se Levi sostenesse che «il segreto che ci aveva esposti alla cattura» [Levi 1987b, 550] avesse reso «conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti» ([Levi 1987a, 5], dalla pagina aggiunta alla prima edizione Einaudi del 1958 di Se questo è un uomo). Come se, nel 1975, in occasione del trentesimo anniversario del 1945, apogeo della retorica resistenziale e antifascista, Levi avesse voluto consegnarci una discreta confessione pubblica di quanto occultato sino ad allora, un peso tale da fargli percepire – diciassette anni prima – la deportazione come una sorta di espiazione per ciò che era accaduto il 9 dicembre 1943.

Tuttavia, una lettura che assuma queste pagine nella loro autonomia di significato potrebbe forse indurre a una diversa accentuazione dell’interpretazione. Nel 1958 Levi scrive di avere scelto la via della montagna tra molte difficoltà:

mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in malafede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di un’organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe. A quel tempo non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti [Levi 1987a, 5].

Nel 1975, conferma il carattere precario della banda – «eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti» – e arricchisce il racconto scrivendo esplicitamente del tradimento che conduce alla cattura («qualcuno ci tradì») e dell’interrogatorio e della detenzione che ne seguono, soffermandosi in particolare sul divieto di comunicare tra reclusi:

Questo divieto era doloroso, perché fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di esistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù. Non tardai a convincermene, esaminando la mia cella palmo a palmo, poiché i romanzi di cui anni prima mi ero nutrito erano pieni di meravigliose evasioni: ma lì i muri erano spessi mezzo metro, la porta era massiccia e vigilata dal di fuori, la finestrella munita di sbarre [Levi 1987b, 550-1].

Appare evidente come, diversamente da Luzzatto, la conformità a giustizia di cui Levi scrive nel 1958 si riferisce alla “dottrina” appresa nel lager ed enunciata nella stessa frase, e cioè alla necessità nella lotta di una ferrea consapevolezza di sé, di una lucida capacità – in situazioni estreme, quali la guerriglia o il campo – di commisurare gli obiettivi alle forze e alle risorse per conseguirli. In quest’ottica, gli errori, la vera colpa pagata con la cattura, sono dunque il velleitarismo e la disorganizzazione della banda, incapace di controllare l’afflusso di «gente squalificata», e anche di individui in «malafede», violando le regole di base della guerriglia e mettendo così in grave pericolo il gruppo. In tal senso, le pagine del Sistema periodico sembrano in realtà apportare elementi di conferma a tale ipotesi, giacché l’infiltrazione di spie e il conseguente tradimento, se non la stessa presenza in banda di uomini dai comportamenti dubbi, per l’appunto “squalificati”, inclini alle estorsioni, possono appunto costituire fattori di “colpa” nel senso appena esposto.

D’altro canto, le pagine del 1975 denunciano, è vero, un segreto doloroso, “brutto”, ma non necessariamente colpevole: la punizione estrema è decisa in coscienza, come non se ne potesse fare a meno, laddove il carattere di costrizione etico-morale della decisione parrebbe suggerire la indiscussa gravità della colpa dei compagni. In tal caso, la natura lacerante del segreto sarebbe piuttosto dovuta al dolore provocato dal forte trauma derivato dall’incontro con la morte, che essi stessi danno, dall’impatto con la drammaticità della violenza estrema che si è stati costretti ad infliggere, pur agendo secondo coscienza – «Spento dai miei compagni per mia non lieve colpa», si legge peraltro nella poesia Epigrafe, del 1952 [Levi 1988b, 541], più volte citata da Luzzatto (305). E la natura traumatica dell’atto è amplificata dal fatto che questi uomini consumano la loro prima e più violenta azione di guerra proprio contro i loro stessi giovanissimi compagni. Di qui una prostrazione che discende dall’appuntamento necessario, inevitabile, con la violenza e la morte, e dalla impossibilità di esorcizzarlo perché impediti a comunicare tra commilitoni, e per di più impossibilitati anche a ogni tentativo di fuga dalla solidità della cella (la trappola), dunque con un solo destino possibile, l’uscita all’in giù, verso l’inferno del lager.

Se questa lettura ha un fondamento, Levi risulterebbe dunque forzato nelle maglie di un’interpretazione che ha a che fare più con il discorso morale e gli obiettivi civili di Luzzatto, che con i contesti storici dei fatti di cui lo stesso Levi ha reso testimonianza. Nelle argomentazioni di Partigia, l’abbondante uso di “se” e di “forse”, i frequenti richiami all’immaginazione e alla fantasia dello storico, potrebbero essere spie di questo faticoso ed estenuante “corpo a corpo” di Luzzatto con i pochi riscontri di cui dispone, dai quali si è sforzato di trarre le maggiori indicazioni possibili a supporto della sua tesi. Primo Levi è infatti immaginato ad Amay, con la madre e la sorella, stretto tra le ansie per l’incolumità delle due donne e la maestosità degli scenari alpini. Poi – in base a una labile traccia lasciata in Epigrafe – è colto nell’immaginario momento – di cui non esiste testimonianza alcuna – dello scavo della fossa da parte dei due giovani morituri, di cui si immaginano addirittura gli ultimi pensieri – sulla scorta del Calvino del Sentiero dei nidi di ragno – e il destino qualora non fossero stati uccisi in quell’ormai lontano 9 dicembre: «quasi sicuramente sarebbero sopravissuti al rastrellamento del 13 […]. E se quel giorno fossero sfuggiti alla cattura […]. E se fossero passati indenni attraverso scontri a fuoco, rastrellamenti, rappresaglie, avrebbero vissuto l’ebbrezza dell’aprile 1945» (295-296). Si tratta di una struttura ipotetica e immaginativa che deriva dall’opzione narrativa diffusamente praticata nel testo, reso in tal modo evocativo e suggestivo, quasi un racconto romanzato. Ma che rinvia anche al codice etico-morale sotteso all’interpretazione, perché immaginare “cosa sarebbe potuto accadere se”, ovvero supporre nientemeno che sensazioni e pensieri, è un modo di rimarcare le conseguenze effettive (e negative?) della decisione allora assunta, e al contempo di suggerire ambiguamente che fossero davvero possibili esiti differenti e opzioni alternative alle scelte e agli atti concreti, i soli che invece dovrebbero essere di pertinenza degli storici. Poiché è facile altrimenti slittare dal “cosa è successo” al “cosa avrebbe potuto accadere se”, ponendo così le basi di un giudizio normativo che non solo è l’anticamera del “cosa avrebbe dovuto avvenire”, ma che ottunde la comprensione storiografica di un evento.

In effetti, la stessa scelta di muovere da Levi, quindi di tentare la storia della Resistenza da una storia partigiana durata appena una manciata di settimane e conclusasi con il rapido precipitare nell’uccisione dei compagni, nel tradimento, nella dissoluzione della banda, nella deportazione di tre suoi componenti (oltre Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro), marca profondamente non solo il racconto della resistenza in quell’angolo di Val D’Aosta, ma soprattutto l’indole della generalizzazione che viene praticata lungo una sottile linea di confine, continuamente oltrepassata, che fa di quella vicenda un calco su cui modellare e raffigurare le caratteristiche della Resistenza nel suo complesso.

Concentrare l’attenzione su queste poche settimane è per Luzzatto il modo di individuare «il momento genetico della Resistenza italiana, rivelatore, nel bene o nel male, di certi suoi ingredienti originari» (15-16). E quali? Nell’elenco stilato dall’autore di Partigia ritroviamo «il carattere politico o impolitico del ribellismo della prima ora, la qualità del rapporto tra formazioni partigiane e popolazioni locali, l’iniziale dipendenza dei ribelli dall’esperienza delle armi dei transfughi del Regio Esercito, la permeabilità delle bande all’infiltrazione di ladri o di spie». A questi temi vanno poi aggiunti il “problema nel problema”, cioè il contributo degli ebrei, “italiani-non più italiani”, alla guerra partigiana, e, ovviamente, su tutto, «la realtà per cui, nel mondo crudele della guerra civile, ai partigiani era toccato anche di decretare la morte di altri partigiani» (14).

L’elenco è di per sé sufficiente a mettere in evidenza che nella vicenda della banda di Levi Luzzatto riassume uno dei tratti distintivi a suo parere della guerra partigiana: il caos originario, quindi la disorganizzazione e l’impreparazione delle bande, così che la rappresentazione si tinge di caratteri picareschi, di imprese approssimative, di slanci generosi non privi di risvolti ambigui. Non a caso si torna a Levi, il romanziere di Se non ora, quando?, per ritrovare nella sua descrizione della banda di partigiani ebrei, «sbandati, o disertori, o partigiani, o banditi, a seconda dei punti di vista» [Levi 1988a, 222], sia un precipitato dell’esperienza personale dello stesso Levi, sia un’impronta valida oltre i confini della fiction letteraria per descrivere il processo di formazione, disfacimento, riaggregazione delle prime bande partigiane (313). Che – efficacissima l’immagine di Levi ripresa da Luzzatto – come «gocce di mercurio si fondono, si scindono, si riuniscono» [Levi 1988a, 245]. E se nel romanzo solo l’incontro con la formazione di Ulybin, operante a stretto contatto con l’Armata rossa, permetterà alla banda di ebrei capeggiata da Mendel di entrare in una dimensione militarmente organizzata e politicamente motivata, tale da consentire loro una ben diversa efficienza, nella realtà delle valli valdostane ciò non sarà possibile, se non marginalmente, al punto che la guerriglia in parte si dissolve e il movimento partigiano è diviso da contese interne e assorbito dalla dialettica tra le diverse tendenze autonomistiche.

Insomma, la Resistenza delle origini è un “brodo primordiale”, «fatta di un’abbondante, estemporanea, insidiosa promiscuità fra uomini e donne, giovani e vecchi, militari e civili, renitenti e refrattari, italiani e stranieri, antifascisti e opportunisti» (70). E questa varia umanità si muove nelle fila partigiane o ai margini della Resistenza per interesse, per mancanza di alternative, per gusto dell’avventura, per spirito d’anarchia, per riscatto, per sottrarsi alla leva. Le formazioni in cui questi uomini si vanno agglutinando non possono essere organizzate, non possono essere del tutto senza macchia, non possono trovarsi sempre in sintonia con le popolazioni locali. Anzi, l’esposizione al rischio, da una parte, e, dall’altra, il conflitto ora latente ora esplicito derivante dalla scarsità di risorse per gli uni e gli altri, fanno sì che i rapporti siano spesso tesi, che i partigiani siano percepiti come “mangiapane”, come fonti di guai: «sordi alle passioni della politica, i valligiani ragionavano da poveri, sulla base di un’istintiva, disperata avarizia. Mentre i ribelli ragionavano da duri: se non mi dai ciò che mi serve, sarò costretto a prendermelo» (74). Già, «perché la guerra civile italiana fu questo ancora: un gioco delle parti, fra pietà e cinismo, passioni e interessi, in attesa che la storia decretasse vincitori e vinti» (152).

Ricondotti a questa rappresentazione prepolitica, intrisa di quotidianità, con mille sfumature e mille contraddizioni, i partigiani di Luzzatto senza dubbio si riappropriano della loro sofferta e difficile umanità, ma il loro agire non ne guadagna in comprensibilità, poiché il loro comportamento appare a un certo punto guidato quasi esclusivamente dalle intemperanze giovanili e dai moti impetuosi e insondabili dell’animo, dagli interessi e dagli opportunismi, dall’ingenuità e dalla generosità. Le matrici della decisione di lottare, delle forme con cui farlo, degli obiettivi da perseguire, restano sullo sfondo, quasi non fossero elementi essenziali. E la Resistenza viene fissata al momento del suo big bang, colta nei suoi confusi e incerti inizi, nella fase in cui gli indirizzi d’azione non sono chiari, in cui mancano le armi e l’esperienza della guerriglia, in cui l’afflusso di uomini è disordinato e non facile da controllare. Si perde il senso della prospettiva temporale, delle fasi successive, di quando e come i picari si trasformano in guerriglieri.

Questo crea qualche problema rispetto all’impiego della categoria di guerra civile, che Partigia dà per scontato sia l’habitat entro cui si svolgono le vicende narrate. Ma più si accumulano, pagina dopo pagina, bozzetti di questo “gioco delle parti” meno la dimensione fratricida dello scontro appare concepibile. Certo, da una parte vi sono personaggi come Cagni, o anche il prefetto Carnazzi, che somma la caccia al partigiano a quella all’ebreo (ma neppure egli si rivelerà integralmente “cattivo”, avendo contribuito a salvarne almeno uno), e dall’altra si trovano figure come quella di Alimiro, Mario Pellizzari, valoroso comandante giellista, combattente spregiudicato e coraggioso, questore alla liberazione, moralizzatore di ogni malcostume tra le fila partigiane, emigrato in Brasile anche per l’accumulo di delusioni e sconfitte maturate in Italia. Ma la gran parte dei figuranti è costituita dal grigio coacervo di uomini comuni che abbiamo visto via via infoltirsi di personaggi, la cui partecipazione alla lotta non necessariamente è agita da motivazioni forti, né da particolari consapevolezze politiche. Più spesso è mossa un po’ per caso, un po’ per necessità, un po’ per l’ebbrezza dell’agire fuori dalla legge, dal vincolo della norma, dei valori e della consuetudine, mentre tutt’intorno la popolazione è sostanzialmente intenta alla sopravvivenza, a difendersi dagli eccessi, da qualsiasi parte provengano, e dagli effetti della guerra. La guerra civile di conseguenza appare una cornice astratta, preacquisita, convenzionale, priva di qualsiasi ancoraggio alla dialettica politico-ideologica, una guerra per bande piuttosto che una guerra civile, dove attorno ai combattenti manca un collateralismo partecipato, anche da parte di chi non si arma e non spara. Il collaborazionismo, dove una minoranza ideologicamente motivata ma isolata si mette al servizio dell’occupante nella pratica della controguerriglia e del controllo del territorio, appare una categoria storiografica più appropriata a concettualizzare quanto descritto in Partigia, e del resto il termine non di rado si affaccia, benché anch’esso non messo a tema. Ciò che non esclude che nel contesto dell’occupazione tedesca e del collaborazionismo fascista si diano tragici scenari di guerra civile, ma in un quadro che non è di guerra civile.

C’è da chiedersi semmai quanto l’uso di questo termine non sia piuttosto da riconnettersi alla battaglia di Luzzatto contro la vulgata revisionista, la quale proprio sulla natura di guerra civile del periodo 1943-45 ha tentato di rifondare la propria legittimazione politico-culturale, sostenendo l’equiparazione tra vincitori e vinti. Forse, accettarne il terreno di scontro ha significato trovarsi a combattere in condizioni di per sé sfavorevoli e non propizie alla vittoria, come ben sapevano i partigiani che erano riusciti a superare quel difficile momento degli esordi su cui Luzzatto ha inteso concentrare la propria attenzione.

Bibliografia

Levi P. 1987, Opere, vol. I, Torino: Einaudi.

– 1987a, Se questo è un uomo (1958), in Levi 1987, 1-181.

– 1987b, Il sistema periodico (1975), in Levi 1987, 427-649.

Levi P. 1988, Opere, vol. II, Torino: Einaudi.

– 1988a, Se non ora, quando? (1982), in Levi 1988, 183-517.

– 1988b, Ad ora incerta (1984), in Levi 1988, 519-607.