Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

La genesi del moderno come "mutamento e rivoluzione continua"

PDF

Anzitutto desidero ringraziarvi per questo invito. È un grande onore per me avere la possibilità di festeggiare gli 80 anni del professor Paolo Prodi, insieme con i suoi amici e con autorevoli storici che hanno intrecciato con lui il loro itinerario umano e professionale nel corso di tanti anni di frequentazione e di scambio intellettuale. Negli interventi che mi hanno preceduto questa connessione sentimentale è emersa in chiara luce così come il fondamentale contributo che Prodi ha offerto al progresso degli studi storici in oltre cinquant’anni di laborioso lavoro.

Mi è stato chiesto di soffermarmi sull’ultimo libro che vede Prodi come autore, Storia moderna o genesi della modernità?, ora pubblicato da Il Mulino. Mi sembra significativo che questo primo volume tematico sia dedicato alla storia moderna come disciplina e che contenga nel titolo un punto interrogativo, una domanda alla quale, dopo averlo letto, possiamo rispondere senza esitazione: la storia moderna per Paolo Prodi è lo studio della genesi della modernità. Una modernità finita con la tragedia della seconda guerra mondiale che ha lacerato l’Europa, riducendola a un cumulo di macerie e con lo sterminio di milioni di ebrei, avvenuto nel cuore più evoluto del continente, dopo il collasso della forma di democrazia più avanzata fino ad allora conosciuta, quella di Weimar.

I cinquant’anni di guerra fredda che ne sono seguiti, con la loro ibernazione politica e civile, hanno avuto per Prodi la funzione di congelare e quindi di rallentare questo processo di crisi irreversibile della modernità come valore, che oggi, finalmente, si dischiude davanti a noi consentendoci di capirne in prospettiva le caratteristiche fondamentali. Il progressivo scioglimento di quel ghiacciaio è il fenomeno storico che oggi stiamo vivendo, un’erosione che restituisce, come se fosse un fossile, l’autentica essenza della nostra modernità, ossia il suo carattere eminentemente europeo e occidentale. Alcuni fondamentali contenitori come la scienza dello Stato dell’amministrazione, la politica come patto costituzionale e come tecnica di rappresentanza, il mercato e l’impresa, la gestione e l’organizzazione del lavoro hanno avuto origine e si sono sviluppati soltanto nel nostro continente. Ciò è avvenuto in un fazzoletto di mondo e lungo un arco di tempo che parte dall’antichità classica e giunge fino alla vigilia delle due guerre mondiali del Novecento. Nel corso di una lunga durata, dunque, che sul piano cronologico ha nella genesi del moderno, tra Quattro e Cinquecento, il suo epicentro propulsivo.

Prodi insiste molto, e certo non in senso eurocentrico, sul carattere continentale della storia moderna. L’Europa alla fine del medioevo era un’appendice dell’Asia, insidiata dall’espansionismo turco, ma cinque secoli dopo, alla vigilia della prima guerra mondiale, controllava il 90 per cento del globo. Tra i due estremi cronologici era corsa una storia galoppante, alimentata dall’espansione demografica e da un’incessante brama di conquista militare, economica, politica, culturale e religiosa. Per questa ragione la storia dell’età moderna è giustamente considerata una storia d’Europa e della conquista del mondo da parte dell’Europa. Una certezza che si accompagna con la consapevolezza che questo glorioso passato è definitivamente alle nostre spalle.

I saggi di questo libro affrontano una serie di problemi che provano a rispondere a una sola decisiva domanda: negli ultimi cinquant’anni come si è modificata l’indagine, ma anche il modo di vedere la realtà storica? Prodi è come se avesse compreso prima di altri il progressivo scongelamento di quel ghiacciaio e si è messo a esplorare i nuovi sentieri che venivano alla luce avendo come bussola non tanto il tema del potere, ma quello della sua riforma, non della storia come cronologia, ma della storia come problema. L’altra caratteristica principale della genesi del moderno è quella di presentarsi come «mutamento e rivoluzione continua», un’attitudine necessaria a conquistare, dominare, sfruttare il mondo che l’Europa con il suo espansionismo andava via via afferrando. Non a caso l’autore a esergo del libro ha scelto un’assai indicativa frase di Paolo Sarpi che descrive bene la seconda grande opzione scelta da Prodi per spiegare le origini della modernità: «Quando Dio vuol riformare il mondo, suole metterlo prima in moto, ricercando la nuova forma che la materia si spogli prima della vecchia. Sia fatta la sua volontà».

L’analisi di questi continui cambiamenti nell’espansione avviene valorizzando non il concetto statico di categoria ma quello dinamico di versante: economico, costituzionale, politico, sociale, antropologico. Per versante, e ritorna la metafora dell’esploratore di terre fino a vent’anni fa ancora congelate, si intendono i tanti percorsi possibili e sempre plurali che si possono intraprendere, senza la pretesa «che un singolo cammino storiografico possa fornire spiegazioni esaustive». Sono tanti versanti che costituiscono una vera e propria ascesa alla montagna incantata della verità storica, una verità sempre critica perché residuale, fragile e precaria, che Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli descrive così bene: «la storia, prima ancora che venga raccontata, ha già raccontato se stessa e con un’esattezza di cui soltanto la vita è capace e che il narratore non ha né speranza né probabilità di raggiungere».

Prima di lumeggiare alcuni contenuti di questo libro vorrei ricordare cosa sento di avere imparato dalla lettura dei libri di Prodi, da quando lo incontrai per la prima volta nel 1996, nella quiete della sua casa bolognese, al tempo in cui stavo avviando fra tante incertezze i miei studi di storia della santità e proprio la lettura dei due tomi dedicati a Gabriele Paleotti e un saggio sulle censure di Carlo Sigonio mi avevano rafforzato nella scelta di dedicarmi a questo mestiere.

In una sola parola: da Prodi, leggendo il suo lavoro su Paleotti, ho avuto modo di apprendere il valore politico e civile dell’attività storica non come petizione di principio o prova di militanza, ma come esempio che vive nella ricerca e nella moralità della scrittura. Secondo me quel testo resta ancora oggi un insuperato esempio dell’equilibrio che si può raggiungere tra erudizione e impegno, ricerca di archivio, quell’archivio della famiglia Isolani con le sue carte bruciacchiate che il giovane Prodi restaurava un brandello dopo l’altro, e cimento politico, civile e religioso per provare a riformare la Chiesa e, attraverso di essa, la società italiana. Si studiava il passato per capire il presente e si capiva il presente mediante il passato. Grazie a questo movimento critico che metteva in pratica l’insegnamento di Marc Bloch si approfondivano i tentativi riformatori e le sconfitte cinquecentesche per rafforzare e far vincere i germogli riformatori che il giovane Prodi vedeva affiorare davanti a sé in quegli anni e che sarebbero culminate con la stagione del Concilio Vaticano II e con le speranze del pontificato giovanneo. Questa politicità erudita, dal momento che mi andavo formando negli anni della cosiddetta crisi della ideologie e della fine della storia, ricordo che mi attrasse in modo irresistibile, come segno di uno stile profondo, quasi a prescindere dai contenuti delle successive opere di Prodi che andavo leggendo e che studiavo memore di quell’esempio.

Peraltro, come lo stesso Prodi spiega nella bella introduzione autobiografica a questo volume, la molla che lo spinse alla storia era l’idea che questa disciplina servisse e preparasse all’impegno politico e che la politica fosse l’unica forma per coniugare lo studio e la vita. In quegli anni, siamo nel 1951, per un cattolico come Prodi, politica significava Giuseppe Dossetti, vicesegretario della Dc, in procinto di lasciare il partito. Proprio in coincidenza di questa scelta mi sembra importante che Prodi maturò la decisione di abbandonare un’idea di storia moderna come fondamento dell’azione politica, per scegliere l’opzione di studio e di ricerca che ha accompagnato tutta la sua vita.

Come è noto, Dossetti lasciò la politica a causa della guerra fredda, che impediva – come scrisse – «ogni forma di educazione politica del nostro popolo perché eravamo tutti incantati intorno a due miti contrapposti». Il giovane Prodi condivise la diagnosi di Dossetti e il suo travaglio, convinto anche lui che la nascente divisione del mondo in blocchi avrebbe mutato la qualità delle prospettive politiche della Democrazia cristiana. Egli però si convinse che fosse necessario arretrare il punto di osservazione di alcuni secoli per capire il momento della genesi del sistema che stava entrando in crisi: ossia la nascita del moderno sistema degli Stati confessionali, in anni in cui l’Europa stava di nuovo vivendo un’ondata di guerre di religione con catechismi politici ormai affatto secolarizzati.

Le suggestioni che derivano da questa raccolta di saggi sono molteplici, ma per ragioni di tempo e di chiarezza espositiva ho voluto identificarne soltanto due, quelle che, a mio giudizio, più di altre caratterizzano in modo trasversale e pervasivo il contributo offerto da Prodi alla storiografia contemporanea e sono, allo stesso tempo, destinate, a mio avviso, ad avere maggiore influenza nel futuro. Il primo concetto è quello di dualismo: il sistema dualista che aveva caratterizzato i secoli del pieno medioevo nella tensione tra papato e impero, tra potere ecclesiastico e potere laico, subisce con l’età moderna una metamorfosi. Il dualismo tipico del cristianesimo occidentale, a sua volta prodotto dalla cultura greco-romana e risultato non di una predisposizione ontologica ma di una conflittuale dialettica storica con altri poteri, tra Quattro e Cinquecento si disloca diversamente, trovando nuovi punti di attrito e di tensione: nella concorrenza tra gli Stati, tra le Chiese, nella rivendicazione di diversi fondamenti dell’autorità, nella distinzione tra la sfera della coscienza e la sfera del diritto statale positivo. Non credo di esagerare se sottolineo che per Prodi la storia è sempre storia delle evoluzioni, dei cambiamenti, delle continuità di questa tensione dualistica, uno equilibrio dinamico che precede tutte le altre divaricazioni. Un dato ineliminabile dell’occidente, che lo produce, lo costituisce e che, se venisse meno, vinto dai fondamentalismi o da una nuova religione pagana dei consumi, finirebbe per esaurirlo.

Dentro questo dualismo si inserisce la gloriosa storia dello Stato moderno, la storia di un morto che nella misura in cui è cadavere ci dice che è esistito. Soltanto adesso è possibile l’anatomia dello stato moderno, ora che sono in crisi le strutture istituzionali e ideologiche che lo hanno sorretto. Ora che lo Stato nazionale non governa più la moneta, non gestisce direttamente la forza militare, ha perso il controllo della formazione dei cittadini, non è in grado di difendere l’ambiente perché l’energia nucleare non conosce confini, ora che l’individuo con cui si è storicamente relazionato può essere manipolato geneticamente e, potenzialmente, divenire altro, ora possiamo finalmente studiarlo fuori dalle nebbie dell’ideologia: sappiamo che è un concetto inventato, ma serve a definire una realtà conclusa, a dare il nome e a identificare un cadavere che riposa nell’obitorio della storia, travolto dalla nuova globalizzazione tecnologica.

Sul versante religioso la cartina di tornasole di questo dualismo tra sacro e profano, tra temporale e spirituale, non è stata tanto una generica secolarizzazione, quanto il ben più impegnativo processo di confessionalizzazione che ha caratterizzato la storia delle Chiese territoriali in tutta Europa. Un fenomeno certamente influenzato dalla necessità da parte dei sovrani di portare il prelievo fiscale alla nuova misura del nascente Stato nazionale. Questo processo storico è legato al disciplinamento, ma anche alle controversie giurisdizionali perché il dato che accomuna l’Europa moderna è la nascita di tante religioni di Stato con le conseguenti inevitabili intolleranze verso quanti criticano o si oppongono al nuovo patto: dal gallicanesimo francese, al regalismo spagnolo, al tridentinismo italiano, al calvinismo svizzero e olandese, al luteranesimo tedesco e dei paesi scandinavi, all’anglicanesimo inglese. Processi paralleli di confessionalizzazione che formano il suddito/fedele in cui il legame di fedeltà non è solo obbedienza, ma conformità e adesione interiore a un sistema di potere.

Il secondo convincimento che percorre l’intero libro è l’idea che il tempo della contrapposizione tra mondi separati, tra confessioni religiose e laiche, è definitivamente finito. L’autore, giustamente, rifiuta l’identificazione della Chiesa con il solo magistero romano. Così come è sbagliata un’idea di tradizione come «magistero immobile dei padri», peraltro già rifiutata dal Concilio di Trento. La tradizione è un testimone che passa da una generazione all’altra e, come Prodi scrive, «rappresenta proprio l’antica versione cristiana del rapporto continuità-discontinuità che si è codificato, secolarizzandosi nello storicismo». La Chiesa cattolica ha partecipato alla modernità nella misura in cui ha mantenuto il monopolio del sacro, riuscendo a resistere, a prezzo di un duro scontro interno e di una forte pressione esterna, alla tentazione di imporre una res-publica teocratica che facesse scomparire il dualismo di cui abbiamo detto. La desacralizzazione della politica, ad esempio, non può che avere avuto le proprie radici anch’essa in questo dualismo, sia nell’umanesimo, che nel razionalismo seicentesco, che nell’illuminismo, un dualismo tipico dell’impostazione cristiana dell’idea di sovranità: la «grandezza dell’occidente – scrive Prodi – è consistita soprattutto nel recintare e contenere il sacro, non nell’espellerlo come un demone».

A partire da questa constatazione, Prodi polemizza con una visione tradizionale sia da parte della storiografia laica (e qui, per essere coerente fino in fondo con il suo discorso avrebbe dovuto usare un altro aggettivo), sia da parte di quella confessionale. Entrambe considerano la modernità nata con i lumi come un processo di secolarizzazione e di esclusione del sacro dalla storia secondo un processo lineare che vedrebbe lo Stato contro la Chiesa, la ragione contro la religione e si differenziano solo per il giudizio opposto che danno sul valore di positività o di negatività di questo processo moderno.

Questo libro, infine, è percorso da una acuta riflessione sulla crisi della storia e del campo accademico e scientifico dei nostri studi. L’analisi della cause è asciutta e spietata, tipica dell’occhio di lince del grande storico. Anzitutto, anche se la storia è l’antenata di tutte le scienze dell’uomo, è stata privata della sua specificità dal prolificare di queste ultime e sembra ancora alla ricerca di un nuovo e più equilibrato statuto scientifico che non può che porsi in termini relazionali con gli altri ambiti del sapere. Inoltre, la società cibernetica in cui siamo immersi è una società senza tempo o che almeno tende a respingere la forma cronologica e lineare del tempo storico per edificarne uno del tutto diverso, segando dunque l’albero su cui siamo seduti. Sul piano gnoseologico si va formando un individuo diverso, perché la rete telematica non è basata sull’individuo occidentale come lo conosciamo, bensì sul gruppo e tende a considerare la profondità dello sguardo storico un fardello da abbattere, in quanto, per accedere a consumi sempre nuovi, è utile avere e promuovere cattiva memoria. Ma il nodo centrale, ovviamente, è come sempre quello del rapporto con il potere. Alla politica di oggi sono più utili discipline senza tempo come quelle psicologiche, sociologiche e della comunicazione. La verità è che la storia non serve più al potere come nelle epoche precedenti, al tempo della formazione degli Stati nazionali. Secondo Prodi lo storico non è mai stato tanto libero come oggi da un servizio diretto verso il potere (monarchia, chiesa, ordine religioso, patria, nazione, classe, partito), ma allo stesso tempo, appunto perché sempre più socialmente irrilevante, è diventato particolarmente corruttibile e così a rischio di diventare un buffone di corte, esposto ai venti e alle lusinghe dell’unico circo possibile, quello mediatico. Sono queste considerazioni amare, ma pungenti sulle quali saremo costretti a riflettere ancora a lungo.

In conclusione se la storia moderna ha visto l’Europa come un laboratorio della modernità, Prodi ne è stato certamente uno dei principali scienziati, animato dalla convinzione che studiare la genesi del mondo vecchio che stiamo abbandonando può aiutarci a capire la nuova epoca. Egli, all’alba dei suoi 80 anni, continua a offrire un contributo di intelligenza e di ricerca di ampio respiro e di questo suo impegno non sapremo mai come ringraziarlo, perché, tra i sentieri di quel ghiacciaio ancora in parte inesplorato, con le sue opere, sta lasciando tracce, cartelli e segnali che serviranno a orientare le nuove generazioni incerte e smarrite, ma come sempre anche loro in cammino.