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Il lavoro femminile nell'industria italiana. Gli anni del boom economico

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Gli anni del boom economico rappresentano per il lavoro delle donne anni di profondo cambiamento. Fenomeni imponenti, come la fuga dalle campagne, l’inedito ed impetuoso sviluppo industriale, le migrazioni interne, ebbero un’influenza determinante sul rapporto delle donne col mercato del lavoro.

Donna al lavoro in un'industria italiana, 1963. Fonte: NOI DONNE, N. 47, A. XVIII, 30 novembre 1963
Donna al lavoro in un'industria italiana, 1963. Fonte: NOI DONNE, N. 47, A. XVIII, 30 novembre 1963

L’obiettivo di questo articolo è quello di ricostruire storicamente i mutamenti quantitativi e qualitativi che interessarono il lavoro femminile, focalizzando l’attenzione sul settore industriale, settore che trainò lo sviluppo economico di quegli anni e che condizionò in modo determinante l’evoluzione del mercato del lavoro nel quale le donne si inserivano e, in ultima analisi, l’intera struttura occupazionale.
Al fine di analizzare la specificità degli anni del miracolo economico (1958-1963), prenderemo in esame un arco temporale più vasto, il ventennio 1951-1971, poiché ciò consentirà di ripercorrere l’evoluzione di fenomeni di più lungo periodo e di grande rilevanza per il tema oggetto di analisi.

L’evoluzione dell’occupazione femminile tra anni Cinquanta e Sessanta

Uno dei mutamenti più significativi che interessò la forza lavoro femminile nel ventennio 1951-1971 fu la drastica riduzione del tasso di attività[1] e, parallelamente, dell’occupazione; riduzione che fu particolarmente accentuata nel corso degli anni Sessanta. Il calo del tasso di attività non può essere considerato né un fenomeno recente, né relativo esclusivamente alla manodopera femminile. Come hanno messo in luce diversi autori, il calo del tasso di attività è, invece, un fenomeno di lungo periodo che, iniziato alla fine del XIX secolo, continuò lungo tutto il XX secolo[2]. Questo stesso fenomeno, tuttavia, assunse proporzioni inedite e massicce nei primi due decenni post-bellici, in stretto collegamento con la transizione dell’Italia da paese con un struttura economica prevalentemente agraria ad una prevalentemente industriale, interessando sia la manodopera maschile sia quella femminile, sebbene con differenze significative[3].
Il calo dell’occupazione, invece, riguardò pressochè esclusivamente la manodopera femminile, pur con ovvie ripercussioni sull’occupazione complessiva. Tale calo fu costante e particolarmente accentuato tra fine anni Cinquanta e inizi anni Settanta, periodo nel quale andarono persi complessivamente più di un milione di posti di lavoro, dei quali oltre il 90% riguardarono la manodopera femminile[4]. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’evoluzione dell’occupazione nel periodo del boom economico non si discostò dall’andamento generale appena descritto: tra il 1959 ed il 1963, infatti, l’occupazione si ridusse di oltre 500.000 unità, calo che fu determinato esclusivamente dalla riduzione del numero delle lavoratrici[5] (vedi Tab. 1).

Un fenomeno così macroscopico, come il calo dell’occupazione femminile negli anni sessanta, non ha finora ricevuto in sede storica l’attenzione che avrebbe meritato[6]. Si tenterà, pertanto, di analizzare questo stesso fenomeno dettagliatamente ed in stretta correlazione con i principali mutamenti economico-sociali che giocarono un ruolo determinante nell’Italia di quegli anni e che in misura diversa paiono essere all’origine del fenomeno stesso.
A partire dagli anni Settanta, diversi studi hanno sottolineato come vi sia stata una generale sottovalutazione dell’occupazione femminile in quel periodo, che viene imputata principalmente ad una incapacità delle fonti statistiche di registrare le varie forme di occupazione femminile all’epoca esistenti[7]. A questo proposito merita di essere sottolineata la più generale inadeguatezza delle fonti statistiche nel rappresentare il lavoro femminile[8]. Il vantaggio di una ricognizione propriamente storica degli stessi fenomeni, come quella che ci accingiamo a fare, consiste nella possibilità di ricostruire più analiticamente gli andamenti e i loro fattori principali. Per questo ci varremo di una pluralità di fonti statistiche sul lavoro femminile (Rilevazioni trimestrali sulle forze di lavoro, e la fonte, sempre di provenienza ISTAT, Occupati presenti in Italia), oltre a quelle più usuali di carattere censuario, per giungere ad una ricognizione più esaustiva del fenomeno.

In primo luogo, riteniamo necessario soffermarsi sulle drammatiche trasformazioni che coinvolsero il settore agricolo tra anni Cinquanta ed anni Sessanta, e che rivestirono un ruolo decisivo nel determinare il calo occupazionale. Il fortissimo esodo che interessò le campagne italiane ed assunse proporzioni macroscopiche a partire dalla fine degli anni Cinquanta, determinò una riduzione di oltre 3 milioni di occupati nel settore agricolo tra il 1959 e il 1971, riduzione ancora più accentuata negli anni del miracolo economico, nei quali venne registrato un calo di ben 1,5 milioni di occupati[9].
Il drastico calo degli occupati nel settore agricolo coinvolse pressoché esclusivamente i lavoratori autonomi e quindi mezzadri, coloni, affittuari, piccoli contadini (90% del totale)[10], determinando, in molti casi, il vero e proprio abbandono dei poderi, fenomeno che nell’Italia centrale assunse i connotati di un vero e proprio “smottamento del sistema mezzadrile”[11]. I lavoratori agricoli alle dipendenze, come braccianti e salariati giornalieri, diminuirono in misura quasi residuale rispetto al totale, poco più di 400.000 unità rispetto agli oltre 3 milioni di occupati in meno nel settore agricolo tra il 1959 e il 1971[12].
Dal punto di vista geografico, l’esodo agrario e quindi il calo dell’occupazione in agricoltura coinvolse tutto il territorio nazionale, sebbene con modalità e tempistiche differenti nelle diverse aree del paese. Furono le regioni del nord quelle dove già nel corso degli anni Sessanta si ridusse in modo decisivo la popolazione agricola, riduzione che fu più accentuata nelle regioni ancora a più alto tasso di ruralità dell’Italia settentrionale come Emilia-Romagna e Veneto[13]. La contrazione della popolazione agricola nell’Italia centrale fu più tardiva, ma altrettanto imponente, tanto da determinare il vero e proprio abbandono di vaste aree rurali, precedentemente coltivate a mezzadria. Nelle regioni meridionali, invece, il calo della popolazione agricola fu indubbiamente più lento ed inscindibilmente connesso a quei vasti processi migratori che coinvolsero larghe fasce della popolazione, soprattutto maschile, in spostamenti verso il triangolo industriale e paesi del nord Europa.

Le dinamiche finora descritte presentavano delle significative differenze di genere. In primo luogo, gran parte delle lavoratrici espulse dal settore agricolo tra il 1959 e il 1971 (1.200.000 circa) non trovarono un nuovo impiego nel settore industriale o nel settore terziario, poiché l’occupazione femminile nel settore industriale nel corso degli anni Sessanta diminuì, mentre nel terziario crebbe limitatamente[14]. Il calo delle occupate nel settore agricolo fu, poi, inferiore a quello degli occupati, cosa che determinò un aumento della «femminilizzazione del settore agricolo»[15], fenomeno particolarmente accentuato nelle regioni meridionali e insulari. Ciò non stupisce, se si considera che proprio le regioni meridionali furono quelle maggiormente interessate dall’emigrazione della manodopera maschile, emigrazioni dirette verso le capitali del miracolo economico italiano o le regioni industriali dell’Europa continentale. Accadeva così che le donne rimaste sole e spesso con figli al paese d’origine, le cosiddette “vedove bianche”[16], per integrare le rimesse del marito non sempre sufficienti all’intero sostentamento, continuassero a dedicarsi ad attività agricole complementari, coltivando i piccoli e piccolissimi appezzamenti di proprietà o in affitto, od offrendosi giornalmente come braccianti[17].
Contrariamente alle aspettative di alcuni studiosi, che agli inizi degli anni Sessanta sostennero la tesi secondo la quale l’Italia si stava avviando «verso la piena occupazione»[18], la perdita di posti di lavoro verificatasi in agricoltura non venne compensata da una crescita altrettanto significativa di occupati nell’industria e nel terziario: nel loro insieme, infatti, questi settori riuscirono a re-impiegare meno della metà dei lavoratori espulsi dal settore agricolo.
La forte espansione economica dei primi anni Sessanta fu, si, trainata da uno sviluppo industriale senza precedenti che in pochi anni modificò la struttura economico-produttiva nazionale facendo dell’Italia un paese industriale a pieno titolo, ma non si tradusse in una altrettanto considerevole crescita occupazionale. Fenomeno del quale cercheremo di delineare le caratteristiche essenziali.
Nel settore industriale, l’occupazione complessiva tra il 1959 e il 1971 crebbe di quasi un milione di unità. Tale crescita si concentrò prevalentemente negli anni del boom economico, riducendosi dopo il 1963. Essa ebbe una netta connotazione di genere, interessando esclusivamente la manodopera maschile: mentre i lavoratori dell’industria crebbero di 1.154.000 unità, le lavoratrici calarono di ben 178.000 unità[19]. Questo calo fu determinato quasi esclusivamente dalla riduzione delle lavoratrici adulte delle fasce centrali di età, mentre le più giovani, generalmente non sposate e senza figli, entrarono in fabbrica quasi in misura analoga ai loro colleghi maschi[20].
La crescita complessiva dell’occupazione industriale della quale stiamo parlando, fu dovuta, inoltre, interamente all’aumento dell’occupazione dipendente, aumento che fu addirittura attenuato dal calo dei lavoratori autonomi. Se negli anni del boom economico i lavoratori dipendenti crebbero di quasi un milione di unità, quelli autonomi diminuirono di quasi 160.000. Mentre nel settore agricolo il calo del lavoro autonomo aveva interessato in maniera analoga uomini e donne, nell’industria interessò quasi esclusivamente le lavoratrici, come si vedrà più nel dettaglio nel prossimo paragrafo[21].
Alcuni caratteri distintivi dell’espansione industriale italiana di quegli anni meritano di essere citati, al fine di fornire elementi utili alla spiegazione delle dinamiche occupazionali appena descritte. Riteniamo pertanto opportuno richiamare l’attenzione sul carattere dualistico della struttura produttiva italiana, dualismo economico che venne ancor più accentuato in questa fase dell’espansione industriale e che si tradusse in squilibri di vario tipo: inter-settoriali, infra-settoriali e geografico-territoriali. Il sistema industriale italiano appariva caratterizzato da un numero ristretto di grandi imprese ad alta intensità di capitale, modernamente attrezzate e organizzate, e una miriade di piccole e piccolissime imprese a bassa intensità di capitale, il cui livello di innovazione tecnologica rimaneva assai limitato. Geograficamente, la produzione industriale si concentrava per lo più nel nord Italia, con l’eccezione di alcune regioni centrali. Inoltre, vi era una vera e propria spaccatura tra le industrie appartenenti ai settori più dinamici e quelle appartenenti a settori tradizionali, talvolta in declino[22].

Tutti gli elementi appena richiamati incidevano considerevolmente sulle dinamiche occupazionali: sulle possibilità di crescita, sulla distribuzione geografica, sulla collocazione settoriale della manodopera, sulla stabilità dell’occupazione. Nel caso delle lavoratrici industriali, il fatto che esse si concentrassero per lo più in settori tradizionali, alcuni dei quali già da diversi anni interessati da profondi processi di ristrutturazione con conseguente espulsione di manodopera, incise indubbiamente sulla mancata espansione dell’occupazione femminile nell’industria. A tal proposito, l’esempio più significativo è rappresentato dall’industria tessile. Questo settore, dove tradizionalmente si concentrava gran parte dell’occupazione femminile industriale, già all’inizio degli anni Cinquanta si trovò ad affrontare una grave recessione, dalla quale uscì al costo di una radicale trasformazione del comparto stesso ed una riduzione considerevole delle occupate[23].
Un altro elemento di decisiva importanza per l’evoluzione dell’occupazione nell’industria fu il progressivo aumento della produttività. Esso fu conseguito principalmente, anche se non esclusivamente, grazie all’introduzione di processi produttivi labour saving e all’intensificazione dei ritmi di lavoro. La crescita della produttività non ebbe le medesime ricadute occupazionali in tutti i settori. In quelli in cui l’innovazione tecnico-produttiva fu più limitata un maggiore sfruttamento della manodopera consentì una riduzione dell’occupazione. Nei settori in cui gli investimenti in capitale fisso erano più forti, il conseguente aumento della produttività (che di per se comportava una diminuzione dell’occupazione), fu compensato dal fatto che proprio quella forte concentrazione tecnico-produttiva e finanziaria determinò uno sviluppo produttivo particolarmente accelerato. La conseguenza di ciò fu che in quei settori si registrò anche un aumento dell’occupazione[24]. Nonostante la spinta all’aumento della produttività abbia caratterizzato gran parte degli anni Cinquanta ed in misura ancor maggiore tutti gli anni Sessanta, fu in seguito alla crisi congiunturale, verificatasi nel 1963 e soprattutto nella seconda metà degli anni Sessanta, che presero corpo veri e propri processi di ristrutturazione aziendale. Questi processi, mirando a ricostruire i margini di profitto delle imprese, accentuarono la tendenza a contenere i costi tramite la riduzione della forza lavoro impiegata e l’esasperato aumento della produttività dei lavoratori occupati[25]. Ne conseguì una sensibile riduzione della crescita occupazionale verificatasi negli anni del boom economico: infatti, tra il 1964 e il 1971 gli occupati nell’industria crebbero meno di 200.000 unità[26].
Per quanto riguarda il settore terziario, è possibile affermare che l’occupazione nei servizi ebbe un’evoluzione completamente differente rispetto a quella degli altri due settori, agricoltura e industria. L’occupazione complessiva crebbe di più di un milione e mezzo di unità. Aumentarono sia i lavoratori autonomi che dipendenti, sebbene questi ultimi in misura maggiore nel corso degli anni Sessanta. La crescita occupazionale verificatasi nei servizi, coinvolse in misura decisamente minore le lavoratrici, le quali tra il 1959 e il 1971 crebbero di 176.000 unità, a fronte di una crescita dei lavoratori di 781.000 unità[27].
Dal punto di vista geografico, la crescita del settore terziario si concentrò nelle regioni del nord, sebbene si verificò un aumento dell’occupazione anche nel centro-sud, grazie all’espansione della pubblica amministrazione.
Alla fine degli anni Sessanta, le lavoratrici del terziario si concentravano principalmente in tre ambiti professionali in forte sviluppo: nel terziario commerciale (come esercenti o commesse di negozi, bar, alberghi), nel terziario amministrativo (come cassiere, dattilografe, impiegate esecutive), nelle professioni di servizio a livello basso e medio-basso (inservienti, parrucchiere, infermiere ecc..). Nel ventennio 1951-1971, invece, la presenza delle donne non crebbe nel settore dell’insegnamento, pur rimanendo stabile su livelli elevati.
In estrema sintesi, quindi, è possibile affermare che l’aumento degli occupati nel settore terziario, verificatosi tra anni Cinquanta ed anni Sessanta, fu accompagnato da una costante crescita del settore stesso e del suo peso sull’economia nazionale. Il terziario, inoltre, nel ventennio considerato subì una radicale trasformazione che ne modificò la struttura interna e determinò l’emergere di nuovi ambiti professionali strettamente connessi all’espansione dei consumi, ambiti nei quali andarono ad inserirsi in gran parte le donne[28].

I dati esposti finora sull’evoluzione dell’occupazione tra anni Cinquanta e Sessanta ci spingono a riflettere più a fondo sul ruolo che le lavoratrici ebbero nel processo di sviluppo economico-industriale di quegli anni e sui mutamenti che investirono la stessa struttura occupazionale. In termini generali, è possibile affermare che le donne nel mercato del lavoro degli anni Sessanta rivestirono un ruolo secondario. Infatti, si ridusse significativamente non solo l’occupazione femminile, ma anche il numero delle donne in cerca di lavoro: come conseguenza un numero rilevante di donne uscì dal mercato del lavoro[29]. Il fenomeno è storicamente molto significativo perché indica una sostanziale rinuncia all’attività extra-domestica sia delle donne prima impiegate nel lavoro agricolo che di quelle dell’industria, determinando un generale calo dell'occupazione femminile. Il lavoro femminile, al di fuori degli aggregati domestici-rurali in forte contrazione, sembrava essere considerato meramente aggiuntivo rispetto a quello dell’uomo, in particolare per le donne che all’interno dei nuclei familiari ricoprivano il ruolo di moglie e madre[30]. Un’analoga riduzione del ruolo lavorativo e sociale delle donne si andava verificando nell’industria. Nel settore primario le lavoratrici calarono di 1.200.000, nel settore secondario, alla già sottolineata crescita della manodopera maschile nella misura di 1.150.000, non solo non corrispose una crescita analoga del lavoro delle donne, ma si registrò una contrazione di quasi 180.000[31]. Pertanto, nel passaggio di un nucleo familiare dall’agricoltura all’industria, gli uomini adulti trovavano generalmente lavoro nel settore secondario, mentre le donne adulte tendenzialmente rimanevano a casa. Il prevalere, anche all’interno delle classi sociali medio-basse, del cosiddetto modello socio-economico e culturale del male bread-winner[32], nel quale è pressoché esclusivamente il capofamiglia maschio ad occuparsi del sostentamento della famiglia, determinò la crescita del numero di casalinghe[33] ed in particolare di quelle che potremmo definire “casalinghe proletarie”. Nonostante il ruolo delle donne nel mercato del lavoro degli anni Sessanta possa definirsi secondario rispetto a quello che rivestirono gli uomini, protagonisti indiscussi della crescita economico-industriale di quegli anni, va ricordato che le occupate per tutto il decennio non scesero mai sotto i 5 milioni, circa un quarto del totale degli occupati del periodo. Il ruolo delle donne fu tutt’altro che trascurabile, seppur secondario in termini quantitativi e qualitativi. Un recente studio di Anna Badino sulle donne immigrate nella Torino degli anni Sessanta ha messo in luce come anche in quella realtà affatto peculiare e caratterizzata da un’abbondante domanda di lavoro, il lavoro femminile, delle immigrate in particolare, avesse un ruolo quantitativamente e qualitativamente tutt’altro che trascurabile, pur rimanendo ampiamente confinato nell’area della marginalità e della precarietà e scomparendo in larga parte dalle statistiche ufficiali[34].

Va sottolineato, infatti, il fatto che parecchie donne classificate nelle fonti statistiche come casalinghe di fatto svolgevano lavori saltuari di varia natura, sia nel settore agricolo, sia in quello secondario e terziario. A ben vedere, il fenomeno del lavoro saltuario delle casalinghe venne rilevato prima della famosa indagine ISTAT del 1971[35], indagine alla quale seguì il noto dibattito sulla contradditorietà della figura della casalinga talora apostrofata come “lavoratrice a domicilio”[36]. Già all’inizio del boom economico, infatti, l’Annuario di Statistiche del lavoro relativo al 1959 metteva in evidenza che quasi un milione di casalinghe svolgevano un’ attività lavorativa occasionale, più della metà di esse nel settore agricolo e le restanti si ripartivano equamente tra industria e servizi[37]. La stessa fonte mostrava come due terzi delle casalinghe con attività occasionali nel 1959 lavoravano tra le 15 e le 32 ore alla settimana e più di 65.000 tra le 33 e le 48 ore. Sembra, tuttavia, che anche il lavoro saltuario delle casalinghe tese a ridursi nel corso degli anni Sessanta, soprattutto in agricoltura. Già nel 1963, difatti, secondo l’Annuario ISTAT relativo a quell’anno, le casalinghe con attività occasionali si erano ridotte a poco più di 120.000 e continuavano ad essere concentrate in agricoltura, nonostante il divario con gli altri due settori si fosse attenuato[38].
Al di là dell’evoluzione quantitativa del fenomeno, l’esistenza di una quantita rilevante di donne, censite come casalinghe, che svolgevano più o meno regolarmente lavori extra-domestici è indice del fatto che le fonti statistiche sull’occupazione, come già anticipato, tendenzialmente sottostimavano il numero delle donne occupate, perché consideravano unicamente il lavoro femminile regolamentato. Sicchè generalmente sfuggivano forme di lavoro a domicilio o stagionale non regolamentate e/o affidate a rapporti tradizionali; tutta la vasta gamma di lavori informali che si collocavano nei servizi, settore all’epoca in forte espansione soprattutto nelle grandi città del triangolo industriale; le forme di part-time agricolo[39] praticato in tutta la penisola da donne ma anche da anziani ecc... Inoltre, le donne stesse che non svolgevano un lavoro salariale normale tendevano a percepire loro stesse come casalinghe[40].Riteniamo che la frequente auto-identificazione della donna italiana degli anni Cinquanta e Sessanta con la figura della casalinga vada spiegata anche con il fatto che la condizione di casalinga fosse desiderata da molte; oltre che corrispondente al ruolo sociale tradizionalmente assegnato alle donne. Come è stato messo in luce recentemente da Casalini, numerose inchieste condotte tra anni Cinquanta ed anni Sessanta[41] «sembrano […] rilevare una aspirazione generalizzata delle donne alla casalinghitudine»[42]. Tale aspirazione appariva determinata più che dall’influenza di modelli culturali tradizionali dalle pesanti condizioni di lavoro[43], aggravate, per le donne sposate e con figli, dall’onere della “doppia presenza”[44] e, quindi, dal carico di lavoro aggiuntivo derivante dai compiti di cura. Del resto, anche gli Annuari dell’ISTAT precedentemente citati, evidenziavano come il lavoro saltuario delle donne casalinghe, avesse prevalentemente una motivazione economica.
Analogamente a quanto concluse Vitali sulla riduzione delle donne attive in agricoltura, è possibile affermare che il calo dell’occupazione femminile verificatosi tra anni Cinquanta Sessanta fu un fenomeno estremamente significativo sia dal punto di vista storico che storiografico, al di là dei limiti intrinseci alle rilevazioni statistiche sull’occupazione femminile già evidenziati. A tal riguardo, tuttavia, ci preme sottolineare che dall’analisi di fonti statistiche assai diverse, come le Rilevazioni trimestrali sulle forze di lavoro e l’altra fonte di provenienza ISTAT, Occupati presenti in Italia, si evince un andamento generale dell’occupazione del tutto analogo, pur con delle ovvie discrepanze quantitative.

Caratteri del lavoro femminile dipendente nell’industria

La riduzione dell’occupazione femminile verificatasi nell’industria italiana durante gli anni Sessanta e già menzionata in precedenza, fu decisamente più accentuata dopo il 1963, anno che concluse il quinquennio di crescita ininterrotta del boom economico. Fu esclusivamente la considerevole riduzione delle lavoratrici autonome a determinare il calo dell’occupazione femminile nell’industria, dal momento che, seppur lievemente, le lavoratrici dipendenti aumentarono[45]. L’andamento dell’occupazione dipendente ed autonoma riscontrato nell’arco degli anni Sessanta fu analogo e, per alcuni aspetti, ancor più accentuato negli anni del boom economico. Tra il 1959 e il 1963, infatti, l’occupazione femminile dipendente aumentò di più di 120.000 unità, a fronte di un calo di quella autonoma di quasi 140.000 unità.La forte riduzione delle occupate autonome nell’industria può forse essere ricondotta alla trasformazione dello stesso settore industriale, sempre meno legato ad attività artigianali.
Nonostante tutti i limiti riguardanti quantità e qualità dell’occupazione femminile già sottolineati, resta il dato significativo che le lavoratrici dipendenti nell’industria negli anni del boom oscillarono tra 1.300.000 e 1.400.000, rappresentando più della metà delle lavoratrici dipendenti totali. Da un punto di vista geografico, le lavoratrici dell’industria si concentravano nelle regioni del nord, in particolare in Lombardia, ed in alcune regioni del centro tra le quali soprattutto Emilia-Romagna e Marche.
Tentando di tracciare un profilo delle lavoratrici dipendenti dell’industria negli anni del boom economico si farà riferimento principalmente a due categorie professionali molto diverse: le operaie e le impiegate. Per quanto riguarda le operaie, è possibile affermare che più della metà di loro erano giovani e giovanissime, con meno di trent’anni, e la stragrande maggioranza aveva un’istruzione molto limitata, ovvero la sola licenza elementare se non addirittura nessun titolo di studio. Lavoravano di norma tra le 33 e le 48 ore settimanali e quelle che lavoravano meno di 33 ore settimanali si ridussero della metà durante gli anni del boom economico[46]. La maggior parte di loro, poi, si concentrava in pochi settori tradizionalmente ad alto tasso di occupazione femminile: i comparti dell’industria tessile (seta, cotone, lana, canapa, lino, juta, fibre artificiali e sintetiche), del vestiario e dell’abbigliamento, secondariamente nell’industria alimentare (dolciaria e conserviera) ed in quella della carta e cartotecnica. La presenza femminile era, invece, estremamente ridotta nei settori metallurgici e meccanici, in quelli legati ai mezzi di trasporto e ai derivati del petrolio. Vi furono anche alcuni settori nei quali, tra anni Cinquanta ed anni Sessanta, la presenza femminile crebbe: l’industria del cuoio e delle pelli, delle apparecchiature elettriche e di telecomunicazioni, nonché delle materie plastiche[47]. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le operaie diminuirono il loro peso sul totale degli operai, scendendo dal 36,6% al 29,1. Nonostante esse fossero aumentate numericamente, tale aumento fu decisamente inferiore a quello degli operai maschi. Un elemento altrettanto significativo, è il fatto che il livello di specializzazione delle operaie diminuì, sia in termini assoluti che percentuali: operaie specializzate e con qualifiche intermedie diminuirono considerevolmente. Infatti, mentre nel 1951 costituivano il 37,1% del totale degli operai intermedi e specializzati, nel 1971 erano scese al 21,5%[48].
Le impiegate, invece, costituivano solo un ottavo delle lavoratrici dipendenti dell’industria[49]. La maggior parte aveva un’età inferiore ai 30 anni, sebbene quelle con un’età compresa tra i 30 e i 50 anni nel 1959 costituissero quasi un terzo del totale. Nel corso degli anni del boom economico, mentre crebbe il numero delle impiegate più giovani, quelle con un’età intermedia rimasero stazionarie riducendo, quindi, la loro incidenza sul totale. Due terzi delle impiegate possedevano la licenza di scuola media inferiore, meno di un quinto la licenza di scuola media superiore e pochissime la laurea[50]. Tra anni Cinquanta e fine anni Sessanta, le impiegate aumentarono significativamente, passando da quasi 70.000 a più di 200.00. Nonostante il forte aumento numerico, il peso delle impiegate sul totale degli impiegati aumentò in misura decisamente più limitata passando dal 27,7% al 31,8%. L’aumento delle impiegate nel ventennio 1951-1971, pertanto, non alterò gli equilibri di fondo dell’occupazione impiegatizia nel settore industriale, decisamente sbilanciati a favore della componente maschile. Gli impiegati maschi, infatti, continuarono a costituire poco meno del 70% del totale. La stragrande maggioranza delle impiegate rientrava, inoltre, in qualifiche medio-basse, le impiegate di prima categoria e le dirigenti, infatti, costituivano poco più del 5% nel 1951 ed appena il 6,5% venti anni dopo[51].
Nonostante la differente evoluzione quantitativa di queste due figure professionali, è possibile affermare che tra anni Cinquanta ed anni Sessanta sia le operaie che le impiegate furono interessate da un processo di dequalificazione. Tale processo fu indubbiamente più vistoso nel caso delle operaie, ma non risparmiò le impiegate. Le operaie specializzate e con qualifiche intermedie che in quegli anni uscirono dal mercato del lavoro non vennero sostituite con altro personale femminile qualificato. Nei settori dove le operaie costituivano una minoranza, esse furono generalmente sostituite da personale maschile. Tuttavia, in alcuni settori ad alto impiego di manodopera femminile, come ad esempio il tessile, in quegli anni interessati da ingenti processi di ristrutturazione, le operaie specializzate espulse dalle fabbriche non furono rimpiazzate. L’ammodernamento degli impianti, infatti, consentì non solo la drastica riduzione della manodopera impiegata, ma anche un impiego di manodopera meno qualificata. Per quanto riguarda le impiegate, invece, nonostante la considerevole crescita quantitativa di cui furono oggetto, oltre il 95% di loro continuava ad occupare posti di livello più basso. Questo avveniva in concomitanza con un aumento significativo di dirigenti ed impiegati di prima categoria, che passarono complessivamente da circa 51.000 a 151.000 nel ventennio considerato[52].
Al fine di tracciare un quadro più esaustivo del rapporto fra donne e lavoro nell’industria, è utile affrontare anche la questione salariale e nello specifico la disparità uomo-donna che vide le lavoratrici dell’industria, anche negli anni di maggior espansione del boom economico, ricevere un salario, a parità di mansione, inferiore ai loro colleghi maschi. Vere e proprie discriminazioni salariali non erano riscontrabili solo nei salari realmente corrisposti alle lavoratrici, ma erano sancite in primo luogo dai contratti stessi.
Prima di passare a tale analisi, bisogna premettere alcune considerazioni sull’evoluzione dei salari tra anni Cinquanta ed anni Sessanta. In tale periodo, la crescita dei salari reali nell’industria non rispecchiò l’aumento della produttività, decisamente più consistente. Infatti, mentre la produttività tra il 1953 e il 1961 crebbe dell’84%, i salari aumentarono circa del 47%. Fu solo tra il 1962 e il 1963 che si verificò una crescita consistente dei salari industriali, la quale, tuttavia, fu in parte vanificata dal deciso aumento dei prezzi che si verificò proprio in quegli anni[53].
Venendo alla specificità della condizione femminile, i bassi salari che contraddistinguevano il settore industriale, subivano un’ulteriore decurtazione. Secondo alcune stime, le lavoratrici guadagnavano in media il 30% in meno degli uomini sulla paga base, ma tale discrepanza poteva raggiungere fino al 50% del salario complessivo, considerando anche gli elementi variabili del salario. Nonostante le numerose lotte sociali condotte dalle lavoratrici negli anni Cinquanta contro le discriminazioni salariali e il raggiungimento nel 1960 dell’accordo sulla parità salariale nell’industria, di fatto la disparità tra salari maschili e femminili non terminò[54].
In termini generali, è possibile affermare che tra il 1959 e il 1963 si attenuò la disparità tra salari maschili e femminili per gli impiegati dell’industria. Nonostante le impiegate di prima categoria fossero le uniche ad avere beneficiato dell’applicazione totale dell’accordo sulla parità salariale del 1960, avendo ottenuto gli stessi minimi contrattuali dei colleghi maschi, la discrepanza retributiva tra impiegate ed impiegati si ridusse in tutte le aree geografiche e settori.
I salari operai subirono un’evoluzione completamente diversa. Nel 1959, le discriminazioni salariali tra operaie ed operai, sancite dai minimi contrattuali, erano considerevoli in tutti i settori compresi quelli ad alta occupazione femminile, come l’alimentare e il tessile. Le operaie di prima categoria e quindi operaie specializzate, indipendentemente dal settore industriale nel quale erano impiegate, guadagnavano meno di un manovale comune[55]. L’accordo sulla parità salariale del 1960 modificò la struttura delle qualifiche operaie, eliminando di fatto la divisione tra categorie operaie maschili e femminili e creando uno schema unico di qualifiche. Ciò, tuttavia, non contribuì ad eliminare le discriminazioni salariali tra operai ed operaie, bensì le legittimò da un punto di vista formale. Le lavoratrici vennero, infatti, collocate nelle categorie inferiori del nuovo inquadramento[56]. Nel 1963, non solo la disparità salariale uomo-donna non si era attenuata, ma in certi settori appariva pure aumentata.
Concludendo, il lavoro femminile dipendente nell’industria negli anni del boom economico non aumentò quantitativamente in modo significativo, alla luce dell’espansione del settore industriale di quegli anni. Da un punto di vista qualitativo, la maggior parte delle lavoratrici dell’industria aveva un grado di istruzione limitato e ricopriva mansioni ordinarie e scarsamente qualificate. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, è collegato non solo alla scarsa istruzione, ma anche ad un modello socio-economico e culturale, che tendeva a relegare le donne nelle posizioni lavorative più basse attraverso uno schema di qualifiche che spesso non rispecchiava né le capacità effettive delle lavoratrici, né, talvolta, le mansioni che realmente svolgevano. Questo è particolarmente evidente soprattutto dopo l’introduzione del nuovo schema di qualifiche del 1960. Nonostante il generale e generalizzato miglioramento dei salari verificatosi negli anni del boom economico, le lavoratrici dell’industria continuavano a guadagnare considerevolmente meno degli uomini.

Note

[1] Per tasso di attività si intende il rapporto tra popolazione attiva (persone occupate e in cerca di lavoro) e la popolazione totale in età lavorativa.

[2] Per uno sguardo di lungo periodo sul declino del tasso di attività si rimanda a G. Fuà (ed.), Lo sviluppo economico in Italia, Vol. III, Studi di settore e documentazione di base, Franco Angeli, Milano, 1975.

[3] Ibidem, Vol. I, Lavoro e reddito, Franco Angeli, Milano, 1981, p. 71.

[4] Tra il 1959 e il 1971, secondo le rilevazioni sulle forze di lavoro, gli occupati complessivi diminuirono di 1.524.000 unità di cui 1.212.000 donne. Cfr. ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Roma, 1976, Sezione Lavoro e retribuzioni, Forze di lavoro, TAV.107: Popolazione presente in Italia per condizione, posizione nella professione, settore di attività economica e sesso.

[5] Ibidem.

[6] Il fenomeno è stato pressochè ignorato sia dalla storia economica sia dalla storiografia a carattere più generale sull’Italia repubblicana. Sono, infatti, pochissimi i testi di sintesi che, trattando del periodo 1950-1970, fanno riferimento esplicito al calo dell’occupazione femminile, fenomeno assai specifico ma spesso assimilato al più generale calo del tasso di attività. Tra i pochissimi studi specifici sul tema, condotti da storici, si veda: M. Salvati, Studi sul lavoro delle donne e peculiarità del caso italiano, in A. Varni (ed.), Alla ricerca del lavoro, Tra storia e sociologia:bilancio storiografico e prospettive di lavoro, Torino, Rosenberg&Seller, 1998, pp.113-132.

[7] Tra i contributi più significativi tesi ad indagare criticamente l’evoluzione dell’occupazione femminile tra anni Cinquanta e Settanta si veda: L. Frey, Riesame dei problemi dell’occupazione femminile, «Mondo Economico», 28 giugno 1969; M. P. May, Il mercato del lavoro femminile, «Inchiesta», n. 3, gennaio-marzo 1973; L. Frey, Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, Angeli, Milano, 1976; D. Del Boca, M.Turvani, Occupazione femminile e lavoro eterogeneo, «Inchiesta», n. 34, luglio-agosto 1978; Furnari, M., Pugliese, E., Mottura, G., Occupazione femminile e mercato del lavoro, in «Inchiesta», 18 (1978); L. Frey, R. Livraghi, F. Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, Milano, Angeli, 1978; S. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, Il Mulino, Bologna, 1977; M. Cacioppo, La ricerca empirica sul lavoro femminile in Italia, 1950-1980, «Inchiesta», 56 (1982), pp. 1-18.

[8] In proposito, si veda, in termini generali: J. W.Scott, A Statistical Representation of Work: La Statistique de l’industrie à Paris, 1847-1848, in Idem,Gender and the Politics of History, New York 1999, pp.111-138; sul caso italiano; S. Patriarca, Gender Trouble: Women and the Making of Italy’s ‘Active Population’, 1861-1936, «Journal of Modern Italian Studies», 3 (1998), pp. 144-163; A. Pescarolo, I mestieri femminili. Continuità e spostamenti di confine nel corso dell’industrializzazione in «Memoria. Rivista di Storia delle Donne», 30 (1990), pp. 55-68; S. Ortaggi Cammarosano, Labouring women in northern an central Italy in the nineteenth century in J. A. Davis, P. Ginsborg, (eds.) Society and politics in the age of the Risorgimento: essays in honour of Denis Mack Smith, Cambridge university press, Cambridge, 1991; tra i contributi più recenti: B.Curli, A. Pescarolo, Genere, Lavori, “Etichette statistiche”. I censimenti in una prospettiva storica, in F. Bimbi, Differenze e disuguaglianze. Prospettive per gli studi di genere in Italia, Bologna 2003.

[9] Dati tratti da ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, TAV. 107, cit.. La discrepanza di questi dati con quelli dell’altra fonte ISTAT presa in esame è minima, ammontando a poche decine di migliaia di unità. Cfr . ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Stime per la contabilità nazionale, TAV. 108: Occupati presenti in Italia per settore e ramo di attività economica.

[10] Sul rapporto tra trasformazioni delle strutture agrarie e dinamiche dell’occupazione rurale mi limito a citare: P. P. D'Attorre, A. De Bernardi, (eds.) Studi sull'agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Milano, Feltrinelli, 1994; G. Barbero, G. Marotta, Mobilità e mercato del lavoro agricolo dal dopoguerra ad oggi in Storia dell’Agricoltura italiana in età contemporanea, Vol II. Uomini e classi, Venezia, Marsilio, 1990; F. Scaramuzzi, P. Nanni, Sviluppo recente e prospettive in Storia dell'agricoltura italiana, Vol III L’età contemporanea, Polistampa, Firenze, 2002.

[11] Questa espressione è ripresa da G. Crainz, Storia del miracolo economico, Roma, Donzelli, 1996, p. 103. Sul declino della mezzadria nell’Italia centrale, in una prospettiva di lungo periodo, si veda, tra gli altri, S. Anselmi, Mezzadri e mezzadria nell'Italia centrale, in S. Anselmi, Agricoltura e mondo contadino, Bologna, Il Mulino, 2001.

[12] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[13] Sulle caratteristiche dell’esodo agrario nell’Italia settentrionale segnalo, ad esempio, G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall'Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994.

[14] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[15] Sul processi di femminilizzazione del settore agricolo si rimanda a: M. G. Montanari, Struttura ed evoluzione della forza lavoro femminile in Italia nel secondo dopoguerra, in P. Alessandrini (ed.) Lavoro regolare e lavoro nero, Bologna, Il Mulino, 1978, 111-143.

[16] Sulla figura delle “vedove bianche” si veda, tra gli altri:A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in AA.VV., Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. 2, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Tomo I, Politica, economia, società, Torino, Einaudi, 1995, 589-697.

[17] Sul rapporto tra condizione femminile e lavoro agricolo tra anni Cinquanta e Sessanta si veda, tra gli altri, A. Signorelli, Il pragmatismo delle donne. La condizione femminile nella trasformazione delle campagne in P. Bevilacqua (ed.), Storia dell’Agricoltura italiana in età contemporanea,cit., 589-658.

[18] Una delle posizioni più rappresentative, a tale riguardo, è quella di Pasquale Saraceno, per la quale si rimanda a P. Saraceno, L’Italia verso la piena occupazione, Milano, 1962.

[19] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[20] Dati riportati in: Istituto Ricerche Economico Sociali del Piemonte, L’occupazione femminile dal declino alla crescita, Torino, Rosenberg&Seller, 1989, p. 93.

[21] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[22] Sulla struttura dell’industria italiana tra anni Cinquanta e Sessanta si veda, tra gli altri, V. Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Milano, Mondatori, 2003, G. Mori, L'economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il "secondo miracolo economico" (1945-58), pp. 132-230, in STORIA DELL’ITALIA REPUBBLICANA, VOL 1, La costruzione della democrazia: dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1994; R.Romeo, Breve storia della grande industria in Italia: 1861-1961, Bologna, Il Mulino, 1972.

[23] Sulle ricadute occupazionali della crisi dell’industria tessile si veda, tra gli altri, G. Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975), in Storia dell’Italia Repubblicana, cit., 355-417.

[24] Sul rapporto tra crescita della produttività ed evoluzione dell’occupazione industriale tra anni Cinquanta e Sessanta si rimanda a: G Faustini, L’obiettivo occupazione nell’esperienza italiana, Torino, Loescher, 1984; E. Pugliese, E. Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione in Italia: dal dopoguerra ai giorni nostri, Roma, Edizioni Lavoro, 2004.

[25] Sugli effetti della crisi congiunturale del 1963 si veda, tra gli altri: per un visione d’insieme: V. Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, cit., pp. 304-305; per l’evoluzione della congiuntura economica: A. Graziani (ed.), L’economia italiana. 1945-1970, Il Mulino, Bologna, 1972, Parte VI Gli anni della depressione, p.289-331; per i processi di ristrutturazione aziendale Idem (ed.), Crisi e ristrutturazione nell'economia italiana, Torino, Einaudi, 1975; per gli effetti sociali S. Turone (1992), Storia del sindacato in Italia, Roma, Laterza, 1992, 347-350.

[26] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[27] Ibidem.

[28] A. Delmonaco, “Non volo d’aquila ma di Rondine”: le impiegate tra società e sindacato in G. Chianese, (ed.), Mondi femminili in cento anni di sindacato, Roma, Ediesse, 2008, VOL I, 273-334; C.Giorgi, G. Melis, A. Varni, (eds.), L’altra metà dell’impiego. La storia delle donne nell’amministrazione, Bologna, Bonomia University Press, 2005; G. Vicarelli, Donne e professioni nell’Italia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007.

[29] A tal proposito, si vedano, anche i classici M. Paci, L’emarginazione delle donne dalla vita attiva, in Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973 ed il più recente E. Reyneri, La nuova partecipazione al lavoro delle donne in Idem, Manuale di sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2002.

[30] Sulla percezione del lavoro femminile extra-domestico nella società degli anni Cinquanta e Sessanta si rimanda a: G. Chianese, Storie di donne tra lavoro e sindacato, in G. Chianese, (ed.), Mondi femminili in cento anni di sindacato, cit., 19-83.

[31] ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, Forze di lavoro, cit.

[32] Sull’affermazione del modello occupazionale del male bread-winner nella transizione dell’Italia da paese agricolo a paese industriale si veda, ad esempio, M. Casalini, Tra guerra e dopoguerra, donne e uomini nel mondo operaio, in G. Chianese, (ed.), Mondi femminili in cento anni di sindacato, cit., VOL II, 45-97; A. Pescarolo, Il lavoro e le risorse delle donne in età contemporanea, in A. Groppi (ed), Il lavoro delle donne, Roma-Bari 1996. Sul modello familiare ad esso associato, tra i testi più recenti, si veda: C. Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 53-54; C. Calanca, Storia della famiglia italiana: ruoli e passioni nel XX Secolo, Pesaro, Metauro, 2005, Capitolo IV Famiglie nel Secondo dopoguerra. Per una prospettiva comparata e di lungo periodo sull’evoluzione del modello del male bread-winner e della famiglia nucleare si veda, rispettivamente:D. Simonton, A History of European Women's Work: 1700 to the Present, London-New York,1998; M. Barbagli, D. I. Kertzer, Storia della famiglia in Europa, Vol 3, Il Novecento, Roma, Laterza, 2005.

[33] Va precisato che ad una mera comparazione dei dati dei presenti nei censimenti della popolazione del 1951, 1961 e 1971 non è possibile parlare di crescita del numero di casalinghe. Tali dati, infatti, non sono omogenei e pertanto non direttamente comparabili, dato che nei censimenti successivi al 1951 le casalinghe appaiono sottostimate, poiché una parte consistente di loro sono inserite in altre categorie tra le quali, ad esempio, “ritirati dal lavoro”. Si rimanda alla classificazione delle professioni ed in particolare alla parte relativa a “Condizioni non professionali” dei seguenti volumi: ISTAT, IX Censimento generale popolazione, 4 novembre 1951, VOL. VII, Dati riassuntivi generali, Sezione Professioni; ISTAT, X Censimento generale popolazione, 15 ottobre 1961, VOL. IX, Dati riassuntivi generali, Sezione Professioni, ISTAT, XI Censimento generale della popolazione, 24 ottobre 1971, VOL. X, Dati riassuntivi generali, Sezione Professioni e attività economiche.

[34] A. Badino, Tutte a casa. Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni Sessanta, Roma, Viella, 2008.

[35] ISTAT, Indagine speciale sulle persone non appartenenti alle forze di lavoro, febbraio 1971, «Supplemento straordinario al bollettino mensile di statistica», 1971.

[36] Si veda, fra tutti, L. Bergonzini, Casalinghe o lavoranti a domicilio? in «Inchiesta», 10 (1973).

[37] ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro 1959, Roma, 1960; ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro e dell’emigrazione 1963, Roma, 1964.

[38] Ibidem.

[39] Tra gli studi sul fenomeno del part-time agricolo in continuità alla tradizionale pluri-attività della famiglia contadina si veda, tra gli altri,: R. Zangheri, Caratteri dell’economia emiliano-romagnola, estratto dagli Atti dell’Accademia delle scienze dell’istituto di Bologna, Rendiconti, vol. LXVI, 1978; F. Tassinari, L’evoluzione delle strutture agrarie nel II dopoguerra, in P.P. D'Attorre, (ed.), La Ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, Pratiche, 1980; R. Fanfani, Il rapporto agricoltura-industria tra passato e presente in P. P. D'Attorre e V. Zamagni, (ed.), Distretti imprese classe operaia, Milano, F. Angeli, 1992.

[40] Come già rilevò Ornello Vitali alla fine degli anni Sessanta, mutamenti avvenuti nella rappresentazione e nell’auto-rappresentazione delle donne e, in particolare, del loro ruolo nell’ambito sociale e familiare possono condizionare in modo significativo l’andamento statistico di alcuni fenomeni di grande importanza per la storia economico-sociale come, ad esempio, la riduzione nel lungo periodo delle donne attive in agricoltura, fenomeno che venne ridimensionato quantitativamente dal Vitali, pur rimanendo estremamente significativo dal punto di vista storico e storiografico. Cfr. O. Vitali, La popolazione attiva in agricoltura attraverso i censimenti italiani (1881-1961), Tip. Failli, Roma, 1968 ed anche O. Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva, Tip. Failli, Roma, 1970.

[41] Inchieste sul rapporto tra donne e lavoro extra-domestico e sull’aspirazione alla condizione di casalinga furono condotte dalle Acli, dalla Società Umanitaria di Milano, dall’Udi, da trasmissioni radiofoniche e giornali. Cfr. rispettivamente: L. Volpicelli, La famiglia in Italia, Roma, Armando, 1960; Società Umanitaria di Milano, La preparazione professionale della donna, Firenze, La Nuova Italia, 1959; M. Pastorino, Ogni giorno in gara con l’orologio, «Noi Donne», 2 (1958) e Le ragazze vogliono lavorare ma.., «Noi Donne», 24 (1955); A.Garofalo, L’Italiana in Italia, Bari, Laterza, 1956; R. Rovi, Ragazze d’oggi, «Il Tempo», 23 (1950).

[42] Cfr. M. Casalini, Tra guerra e dopoguerra, donne e uomini nel mondo operaio, cit., p. 81.

[43] Per una visione d’insieme sulle condizioni di lavoro delle donne nel II dopoguerra si rimanda, tra gli altri, a: M. L. Righi, Il lavoro delle donne e le politiche del sindacato: dal boom economico alla crisi degli anni Settanta, in G. Chianese, (ed.), Mondi femminili in cento anni di sindacato, cit., VOL II, 123-162; A. Di Gianantonio, Calze di seta o calze spaiate? La condizione operaia femminile dal secondo dopoguerra ad oggi, in S.Musso, Operai. Figure del mondo del lavoro nel Novecento, Torino, Rosenberg&Seller, 2006.

[44] Il problema della “doppia presenza”, ossia della difficoltà di conciliare lavoro extra-domestico e compiti familiari iniziò ad essere oggetto di studio a partire dagli anni Settanta, con il classico saggio di L.Balbo, La doppia presenza, «Inchiesta», marzo-aprile 1978.

[45] Tra il 1959 e il 1971, mentre le lavoratrici autonome passarono da 507.000 a 243.000, quelle dipendenti nel medesimo periodo aumentarono di 86.000. Si veda ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975, cit.

[46] ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro 1959, cit.; ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro e dell’emigrazione 1963, cit.

[47] ISTAT, III Censimento generale Industria e commercio, 1951, VOL XVII, Dati riassuntivi generali; ISTAT, IV Censimento generale Industria e commercio, 1961, VOL VII, Dati generali riassuntivi; ISTAT, V Censimento generale Industria e commercio, 1971, VOL VIII, Dati generali riassuntivi. TOMO I Imprese, TOMO II Unità locali.

[48] G. Geroldi, La segregazione occupazionale della manodopera femminile nell’industria manifatturiera italiana, in Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia (IRER), Lavoro femminile, sviluppo tecnologico e segregazione occupazionale,cit.,91-189.

[49] Sull’evoluzione economico-sociale della figura dell’impiegato nei decenni precedenti il boom economico e sulle differenze di genere ad essa relativa si rimanda al classico: R.Spesso, Variazioni degli organici impiegatizi nell'industria italiana, Milano, Feltrinelli, 1959.

[50] ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro 1959, cit.; ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro e dell’emigrazione 1963, cit.

[51] G. Geroldi, La segregazione occupazionale della manodopera femminile nell’industria manifatturiera italiana, cit.

[52] Ibidem.

[53] ISTAT, Annuario di statistiche industriali 1959, Roma, 1960; ISTAT, Annuario di statistiche industriali 1964, Roma, 1965.

[54] G. Chianese, Storie di donne tra lavoro e sindacato, cit.

[55] ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro 1959, cit.; ISTAT, Annuario di statistiche del lavoro e dell’emigrazione 1963, cit.

[56] M. V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, Il Mulino, 1979, 129-138.