Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Bandito o brigante? Il caso di Nunziato Di Mecola nella provincia di Chieti (1860-63)

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Abstract

This paper concerns the political, social and individual aspects of one episode of brigandage which followed the process of Italian unification in the province of Chieti (Abruzzi). The main character of the paper is Nunziato Di Mecola, a peasant who led a mass revolt proclaiming the restoration of the Bourbon monarchy between December 1860 and January 1861. Analyzing the official record of the trail against the brigands, the paper reflects upon the politicization of brigandage during an outright civil war.

Aspetti politici, sociali e individuali di una guerra civile

Il protagonista principale di questo saggio è Nunziato Di Mecola, un contadino nativo di Arielli (Chieti), che tra il 2 dicembre 1860 e il 6 gennaio 1861 capitanò una banda armata capace di trascinare con sé centinaia e centinaia di abitanti dei comuni contigui, mettendo a ferro e fuoco la provincia chietina in nome della restaurazione del governo borbonico di Francesco II.

La stessa Arielli, nonché Ari, Miglianico, Tollo, Orsogna e altri comuni contigui vennero scossi dalle gesta di quelli che immediatamente vennero definiti “briganti”, contribuendo a creare un’ondata di ribellione all’annessione dei territori meridionali al Regno d’Italia: dall’estate del 1860 a tutto il 1861, infatti, si susseguirono in tutto il Sud numerosi moti popolari (la “reazione”) in favore della decaduta monarchia borbonica, accompagnati da saccheggi, vendette private e omicidi. Dallo studio delle carte processuali, degli avvenimenti e dei personaggi di quell’intenso periodo emerge chiaramente come pochi argomenti oggetto di studi storiografici si mostrino così sfaccettati, complessi e delicati quanto quello del cosiddetto brigantaggio post-unitario. La vicenda di Nunziato Di Mecola, della sua banda e delle popolazioni da lui guidate sta a dimostrare proprio l’inestricabile complessità della fase della reazione, caratterizzata dalla coesistenza di protesta politica, criminale e sociale, e contribuisce a fare luce sulle intricate dinamiche del conflitto e della crisi meridionale nelle province abruzzesi.

Al contrario, ultimamente è successo troppo spesso che questa tematica sia stata semplificata e strumentalizzata da una discutibile recente pubblicistica che si presenta tanto indignata nei toni, quanto povera nelle ricerche, colme di anacronismi e distorsioni [Di Fiore 2007; Guerri 2011][1]. Di tutt’altra caratura è stato poi un altro tipo di revisionismo, quello di un personaggio come Gramsci [2010], del quale sono ampiamente note le riflessioni sulla questione meridionale.

Per molti anni la storiografia scientifica ha invece interpretato il brigantaggio come un fenomeno legato a doppio filo alla questione demaniale e letto sostanzialmente come problema “di classe”. L’attività delle bande, in tutto il meridione, non sembra tuttavia caratterizzata da proteste contro le usurpazioni, né da richieste di diritti comunitari, né da progetti di quotizzazione delle terre del demanio. Se una matrice demaniale può essere individuata in alcuni casi, ciò appare come conferma del carattere multiforme del brigantaggio. La ripartizione delle terre pubbliche, al contrario, viene molto più spesso invocata proprio dai patrioti, sia piemontesi che meridionali, come possibile rimedio al malcontento popolare, del quale si negavano ostinatamente gli aspetti politici. L’interpretazione di tipo sociale venne infatti abbozzata già nella celebre inchiesta Massari [Pedio 1983], ma in campo storiografico si è affermata in seguito alla pubblicazione del classico testo di Franco Molfese [1966], che, pur restando un punto di riferimento obbligato per chiunque sia interessato alla questione, sembra essere influenzato proprio dal giudizio dei contemporanei.

Briganti prigionieri in posa (Archivio di Stato di Torino, raccolta Caviglia).
Briganti prigionieri in posa (Archivio di Stato di Torino, raccolta Caviglia).

Larga fortuna e influenza, anche sui vari Molfese e De Jaco [1969], ha poi avuto il celebre paradigma del “banditismo sociale”, proposto da Eric Hobsbawm [1965; 1969]. Secondo lo storico britannico il nostro brigantaggio rappresenterebbe al tempo stesso una difesa dell’ordine tradizionale, mitizzato, e un esempio di “primitiva” sollevazione della classe contadina, capitanata da banditi sociali raddrizzatori di torti, ma ancora incapace di concepire una vera rivoluzione agraria. La pur suggestiva formulazione di Hobsbawm, almeno nel caso italiano, mostra però parecchi limiti, dato che nella sua affermazione del carattere essenzialmente sociale del brigantaggio finisce per negarne il carattere politico, in realtà preponderante. C’è da segnalare il fatto che una forma estremizzata della tesi del brigantaggio sociale è stata in voga negli anni settanta, e ha interpretato sostanzialmente – e con disinvoltura – il brigantaggio come un proto-movimento contadino [Cutrufelli 1974].

Prendendo le distanze dalle interpretazioni “neoborboniche” da un lato, e “sociali” dall’altro, credo che un confronto più proficuo sia da aversi con le recenti riflessioni di Salvatore Lupo [2002; 2011], il quale pone in evidenza la distinzione, peraltro non troppo netta, tra la fase delle reazioni legittimiste (dall’estate 1860 a tutto il 1861) e quella del grande brigantaggio (dalla fine del 1861 al 1865), seguite da alcuni anni di fenomeno residuale. Per Lupo, inoltre, «la questione va inquadrata non nel tempo del dopo, nell’età post-unitaria, ma nel suo tempo» [Lupo 2011, 134], e questo è uno spunto validissimo: non considerare il brigantaggio come inizio della questione meridionale, ma come prosecuzione e momento ultimo delle guerre risorgimentali.

Si è molto discusso se fosse il caso di applicare alle reazioni e al brigantaggio la categoria di “guerra civile”. Questo concetto, già elaborato nella cultura patriottica come pericolo estremo e catastrofico, ultimamente si è imposto in campo storiografico, aprendo nuovi spazi alla riflessione sugli aspetti politici del brigantaggio e sull’intreccio tra violenza pubblica e violenza privata ad esso collegato[2]. Credo che inquadrare il brigantaggio – e nella fattispecie la prima fase della reazione – all’interno della categoria di guerra civile sia utile alla riflessione sul tema dei conflitti politici e personali che emergono dalla vicenda di Nunziato Di Mecola.

In tal senso questa breve esperienza politico-criminale si presta a una riflessione sul grado di politicizzazione delle province abruzzesi durante la crisi unitaria[3]. Nell’inverno 1860-61 i rancori personali, la polarizzazione sociale e la competizione per il potere locale si intrecciarono alle questioni politiche maggiori. Il conflitto sociale, tuttavia, non è scindibile da quello politico, il quale a sua volta richiama un altro tema centrale, quello della coscienza, individuale o collettiva. Questo elemento «non può essere per nulla trascurato. L’individuazione di figure sociali di estrazione popolare non esime lo storico dallo spiegare la soggettività, le forme, gli obiettivi, le idealità su cui si basa l’azione collettiva. […] In linea generale movente sociale, movente politico e movente criminale non si escludono l’un l’altro» [Lupo 2002]. D’altro canto è innegabile che, al contrario di quanto ha sostenuto la maggior parte dei patrioti risorgimentali, un certo grado di politicizzazione delle popolazioni tumultuanti si manifesta, quanto meno a livello di simboli, e ciò non può essere ignorato. Occorre tuttavia problematizzare la componente politica e metterla in relazione alle ristrettezze economiche, alle finalità individuali (dei paesani così come dei “galantuomini”) e, soprattutto, al vuoto istituzionale che tipicamente genera forme di spontaneismo, pur tenendo conto dell’esistenza di legittimisti con motivazioni politiche non riducibili ai finanziamenti borbonici[4]. Del resto, «il momento del crollo [dello Stato] appare affollato di personaggi. In parte, nuovi personaggi. Nel tempo breve della crisi, lo spazio pubblico si dilata a macchia d’olio, perché in esso confluiscono segmenti sociali, professionali e generazionali usualmente nell’ombra» [Macry 2003, 20]. Le vicende abruzzesi vanno dunque collocate nel quadro più generale della crisi meridionale, oggetto di numerosi studi dai quali emerge la sostanziale instabilità e il relativo isolamento delle province periferiche, teatro di conflitti locali non per questo meno complessi[5]. La fase del 1860-63, nell’Abruzzo chietino come in altre parti del meridione italiano, vide scontrarsi duramente coloro che credevano nella nuova patria italiana e coloro che combatterono, per una ragione o per un’altra, con l’intento di restaurare la patria napoletana. Secondo Lupo, «si trattò di una guerra da definirsi in ogni caso civile: perché a rivolgere le armi gli uni contro gli altri furono non solo meridionali e “piemontesi”, ma anche meridionali e meridionali» [Lupo 2011, 17].

Attenendomi al mio caso di studio, credo che l’adesione personale del bandito Nunziato Di Mecola alla fase della reazione non si manifesti poiché egli sia politicizzato, ma piuttosto segni il momento in cui ha inizio il processo di politicizzazione dello stesso, culminato con il viaggio verso Roma e fallito con il disperato tentativo di salvarsi entrando nella Guardia Mobile Provinciale (gli ex garibaldini!).

Non potremo dunque non tenere conto della storia personale di Nunziato Di Mecola, per il quale parlerei più di opportunismo che di adesione compiuta alla causa legittimista: il bandito trova finanziamento e seguito, quindi si politicizza. Strumentalizza il legittimismo, presente senz’altro nel suo territorio, e ne viene al contempo strumentalizzato. È una vicenda dinamica che pone problemi sull’uso stesso della parola “brigante”; problemi che sembra porsi anche il procuratore Giuseppe Ferreri, curatore del processo contro la banda Mecola del quale analizzerò alcuni testi, che si chiede chi siano effettivamente i “briganti” tra le centinaia di insorti giudicati dalla Corte d’Assise di Chieti. La caratterizzazione dei legittimisti e degli unitari – presenti al contempo nello stesso territorio – manifesta notevoli sfumature all’interno di una realtà fatta di particolarismi e fazioni locali che prevalgono sull’esistenza di due blocchi granitici contrapposti.

Utilizzando le parole di Paolo Pezzino, «se si focalizza la visione sul “micro”, nell’analisi di casi singoli, il mondo ordinato delle grandi spiegazioni ideologiche, logiche e razionali nello spiegare anche i momenti di conflitto, lascia il campo al vario, confuso, intricato, ribollire delle passioni; e quando il tema è quello della violenza […] lo scarto fra quelle spiegazioni razionali e l’infinita varietà dei casi è particolarmente forte, la storia perde il carattere di ordinata successione di eventi per avvicinarsi maggiormente ai complessi e spesso contraddittori impulsi che regolano le relazioni tra gli uomini» [Pezzino 1994, 62].

Da criminale comune a Generale di Francesco II

Le vicende politico-militari italiane del 1860 ebbero conseguenze anche nelle terre di Abruzzo Citeriore, riportando a galla contrapposizioni e tensioni che risalivano fino all’età napoleonica. Le popolazioni cittadine, guidate dai ceti colti di tendenza liberale, avevano accolto tendenzialmente con favore l’andamento della rivoluzione nazionale, come è dimostrato dai fatti di Aquila (Abruzzo Ulteriore II), dove venne costituito un governo prodittatoriale fedele a Vittorio Emanuele e a Garibaldi, oppure dalle vicende di Teramo (Abruzzo Ulteriore I), dove si formò un triumvirato di prodittatori tra cui troviamo Clemente de Caesaris, già fautore delle ribellioni liberali di Penne degli anni precedenti. A Chieti la situazione era analoga, tanto che venne proclamato un nuovo governo unitario e venne nominato intendente della provincia Vincenzo de Thomasis. L’8 settembre, in concomitanza con l’ingresso di Garibaldi a Napoli, si mise in armi la Guardia Nazionale, mentre le forze fedeli alla monarchia borbonica continuavano a resistere nelle fortezze di Gaeta (che cadrà solo il 14 febbraio 1861) e, nel teramano, di Civitella del Tronto [Buccella 1996, 30-37].

Anche i borghi rurali della provincia chietina furono coinvolti nella drammatica vicenda del crollo del Regno delle Due Sicilie. La coesistenza, sull’intero territorio abruzzese, di una fazione dichiaratamente liberale-annessionista e di una borbonica è stata da tempo ben messa in luce: in sostanza, benché ciò venga spesso taciuto nella recente retorica neoborbonica, non si dovette attendere un’invasione militare piemontese affinché le idee unitarie iniziassero a diffondersi [Canosa 2002; Colapietra 2011].

Naturalmente il collasso della capitale napoletana e quello delle province sono strettamente connessi, tanto che gli eventi politici in atto provocano un fenomeno di rilevante importanza: «tra centro e periferia esiste una significativa osmosi sul piano idiomatico. La periferia utilizza rapidamente ed efficacemente i nuovi linguaggi della rivoluzione nazionale [e della contro-rivoluzione] ma inserendoli all’interno delle proprie dinamiche e articolazioni locali» [Macry 2003, 16]. Il proliferare di simboli – unitari o legittimisti che fossero – di fatto contribuì alla costruzione di motivazioni ideologiche per azioni personali e collettive le cui origini andrebbero forse ricercate altrove.

E dunque, mentre i fedeli del governo borbonico organizzavano la cosiddetta reazione, che esplose definitivamente in tutti e tre gli Abruzzi nell’autunno 1860, il fronte degli unitari aveva preso il potere nelle maggiori città e richiedevano a gran voce, soprattutto da Teramo e Chieti, la discesa dell’esercito regio oltre i confini del fiume Tronto. Mi sembra che una coincidenza curiosa mostri chiaramente i prodromi del conflitto civile che si andava preparando: il 20 ottobre, mentre Vittorio Emanuele entrava trionfalmente a Sulmona, dopo l’accoglienza festosa già ricevuta a Chieti, il generale borbonico Klitsche de la Grange entrava con il suo esercito fatto di gendarmi e contadini a Avezzano, vale a dire a una sessantina di chilometri di distanza [Colapietra 2011, 83].

La breve vicenda da capobanda di Nunziato Di Mecola si consumerà poco dopo questi avvenimenti, tra il dicembre 1860 e il gennaio 1861. Chi fosse questo personaggio lo rivelano le carte d’archivio. Da una copia dell’atto di nascita apprendiamo che egli nacque il 17 aprile 1834, da Adamo Di Mecola e Giovanna Stella, entrambi contadini di Arielli[6]. All’epoca dei fatti reazionari Nunziato aveva quindi ventisei anni e «tanto in suo nome, che sotto nome di altri, non [era] contribuente al di sopra di ducati sei, ossia non [possedeva] beni immobili soggetti alla contribuzione maggiore di tale somma», inoltre «non [aveva] industria visibile, non [era] mercante trafficante, impiegato, o maestro di alcuna arte, ma [viveva] soltanto col travaglio giornaliero delle proprie braccia»[7].

Dunque un contadino povero, giovane, che abitava in un comune di poco più di un migliaio di abitanti nel circondario di Tollo. All’interno di un interrogatorio leggiamo che egli era «ammogliato con tre figli»[8], non sapeva né leggere, né scrivere, e appariva di statura alta, con barba e capelli neri. Da altre carte scopriamo che il suo aspetto incuteva timore, e che la sua stazza era tale da poterlo definire «il nerboruto Nunziato Di Mecola»[9].

Vale la pena soffermarsi sulla vasta lista dei precedenti penali di Nunziato. Stando a un certificato rilasciato dal Cancelliere del Giudicato Regio di Tollo, il 17 aprile 1852 egli avrebbe compiuto un «ratto violento per abusarne e per oggetto di Matrimonio […] in persona di Maria di Fabio d’anni 18». L’8 dicembre 1854 si sarebbe reso colpevole di «empia esecrazione del Santo nome della Immacolata Concezione e della Madonna, non che di quelli di tutti Santi», per poi accoltellare, procurandogli lievi ferite, tale Antonio Testa.

La descrizione di una personalità violenta ci viene confermata da altri casi di aggressione con armi detenute illegalmente, ossia quella contro i compaesani Germano Silveri (9 febbraio 1859) e Nicola Di Piero (2 gennaio 1860), ma soprattutto quella catalogata come «percosse lievi volontarie e minacce semplici di vita commessi in Arielli nel dì 7 Febbraio 1860 in persona del proprio padre Adamo di Mecola». In ultimo, una vicenda che credo sia decisiva nel definire il personaggio in questione: «furto di oggetti d’oro e denaro contante del valore di Ducati 292.40 […], avvenuto in tenimento di Arielli la notte del 27 a 28 Gennaio 1860» e dell’«incendio volontario di diversi oggetti mobili del valore complessivo di Ducati 461.80, commesso dentro una casina abitata nell’atto dell’incendio […] nella sopradetta epoca ed incidenza»[10].

Al dicembre 1860, dunque, Nunziato era già un criminale comune (per intenderci, un “bandito”) anche per il governo borbonico, che lo aveva più volte incarcerato. Le sue azioni erano state dettate sicuramente da una condizione economica particolarmente sfavorevole quale poteva essere quella di un bracciante, ed è probabile che fossero state influenzate da un’indole non propriamente pacifica. Gli avvenimenti politici in corso – il plebiscito, la discesa di Vittorio Emanuele II negli Abruzzi, la resistenza di Francesco II a Gaeta – coinvolsero anche il giovane ariellese. Come avvenne che un “marginale” poté arrivare a proclamarsi Generale dell’esercito borbonico? In che modo, e quanto compiutamente, il “bandito” divenne “brigante”?

È ampiamente noto che la tattica del governo borbonico, già sfruttata in passato, mirava a creare un ponte tra Gaeta e il fedele popolo delle campagne, con l’obiettivo di affiancare alla resistenza militare una vera e propria sollevazione popolare nella periferia del regno. Per far ciò si ricorse a una rete di sostegno, formata dai “manutengoli”, il più delle volte grandi proprietari terrieri o antichi nobili spinti talvolta da sinceri motivi politici, e talaltra da meno limpidi interessi personali.

Sulle origini della banda Mecola le carte parlano diffusamente. Stando alla dichiarazione rilasciata il 5 agosto 1861 da Raffaele Palumbo, un maccaronaio domiciliato ad Arielli e “luogotenente” del Mecola:

Due o tre giorni prima che in Arielli precedesse la reazione Don Tobia dell’Arciprete parlò con Nunziato di Mecola, come costui mi raccontò, e gli tenne discorso sulla reazione che doveva farsi in Arielli, e che doveansi uccidere il fratello Don Giuseppe dell’Arciprete, ed i Signori di Fabio. Il Mecola non volle condiscendere a questa uccisione, ma erano di accordo in tutto il dippiù della reazione[11].

Questa circostanza venne poi confermata dallo stesso Nunziato, il quale dichiarava di essere stato chiamato presso la sua abitazione da don Tobia dell’Arciprete, che era un notabile ariellese, per capitanare sì la reazione filo-borbonica ma anche – e soprattutto? – per uccidere la famiglia rivale dei di Fabio e il fratello don Giuseppe dell’Arciprete, in fama di liberale. Per far ciò gli si fornì in quell’occasione persino la polvere per i fucili, nascosta in un orinale[12]. Don Tobia, successivamente processato, scontò una sorta di libertà vigilata all’interno dei confini della provincia chietina.

Sopra al Mecola, un “galantuomo” suo compaesano; ancora più su, abbiamo il marchese Antonio Crognale, della città di Lanciano. Quest’ultimo venne indicato da Raffaele Palumbo e altri come il principale istigatore della rivolta, il vero tramite tra Gaeta e la piccola comunità di Arielli. Lo stesso Palumbo segnalò altri “manutengoli”, lamentandosi più volte del fatto che egli era in carcere mentre chi lo aveva fomentato rimaneva libero. In realtà il 16 agosto 1861 il Procuratore Generale della Gran Corte Criminale Cesare Crispo aveva ordinato la cattura del marchese e degli altri “don” coinvolti, ma Crognale era ormai già fuggito a Napoli, da dove poi partì alla volta di Roma, al seguito di Francesco II, palesando il suo coinvolgimento. Il ruolo chiave rivestito dal marchese lancianese era confermato dalla voce popolare, la quale sosteneva che «il Crognale aveva ospitato e tenuti nascosti numerosi sbandati dell’esercito borbonico, che aveva avuto 50.000 ducati dal Borbone per fomentare la reazione, che i briganti avevano rispetto per le sue proprietà» [Amicarelli 1971, 204]. Non sorprende a questo punto che durante la propria attività la banda Mecola soggiornò ad Arielli proprio nel palazzo di proprietà del marchese.

Contro di lui fu istruito un processo nel quale emerse la sua posizione di principale istigatore delle masse tumultuanti (e non solo di quelle di Arielli e dintorni), ma ciò non bastò a condannarlo, poiché poté giovarsi della sovrana indulgenza del 17 novembre 1863, con la quale si estingueva l’azione penale per i reati politici che non fossero stati accompagnati da crimini contro persone, proprietà e leggi militari[13].

Mi sono dilungato su quelli che potremmo definire sobillatori della banda Mecola poiché il loro ruolo assume un’importanza cruciale: abbiamo un marchese in diretto contatto con il monarca deposto, un notabile locale che, oltre a fornire armi e cibarie, segnala con precisione alcuni rivali da eliminare, e un altro che, frustrato dal disinteresse mostrato nei suoi confronti dal regime unitario, decide di travalicare il recinto politico. Approfittando del vuoto istituzionale, delle tensioni politiche, delle rivalità personali, dei finanziamenti materiali offertigli, il “bandito” Nunziato decide che quella è la sua occasione di riscattare la propria esistenza. In fondo gli si offriva la possibilità di uscire dall’anonimato, di diventare un temutissimo Generale dell’esercito borbonico (come lui stesso si definì), di guadagnare del denaro e, soprattutto, la stima di un re che, se fosse riuscito vincitore nella lotta contro i piemontesi, sarebbe stato più che magnanimo nelle ricompense. A questo punto, sicuro di essere protetto, certo di ricevere aiuti materiali, stuzzicato dalle possibilità di guadagno, Nunziato poté iniziare a comportarsi da brigante.

Il brigante Di Mecola

L’attività della sua banda si sviluppò nella ristretta rete di paesini nelle vicinanze di Arielli – peraltro senza mai puntare al capoluogo Chieti, centro del potere unitario – e ebbe inizio con una sollevazione popolare, la notte del 2 dicembre 1860, nella stessa Arielli, seguita dal disarmo delle Guardie Nazionali con il nostro Nunziato che capitanava le operazioni armato di fucile, con una spada sul fianco, e con in testa un fazzoletto bianco, segno del restaurato potere dei Borbone. Il mattino seguente un drappello di Guardie Nazionali di Tollo, accompagnate da 25 carabinieri, accorse per riportare l’ordine e costrinse i più compromessi a fuggire nel bosco del Feuduccio, nel quale venne organizzata la “truppa” agli ordini del novello Generale.

Vale la pena riflettere sul fatto che il conflitto tra patrioti e borbonici si diffuse immediatamente in una scala assolutamente locale: le Guardie Nazionali, ossia le prime persone che si trovarono a affrontare la reazione, erano anch’esse “meridionali”, spesso addirittura compaesane degli insorti. Il 2 dicembre il primo a scontrarsi con Di Mecola fu il capitano Nicola Di Fabio, della confinante Vill’Arielli. La lotta politica andava così a intersecarsi a rancori personali, certamente anche sociali – nei quali in ogni caso si presentano dei reticoli interclassisti – ma si inseriva prepotentemente in una tradizione conflittuale che nel territorio abruzzese risaliva fino agli anni del famoso 1799. L’ostinata attività della Carboneria, la rivolta liberale di Penne guidata da Clemente De Caesaris nel 1837, il processo per reati di stampa contro Gianvincenzo Pellicciotti nel 1849, solo per citare alcuni episodi, testimoniano delle tensioni politiche durature che finirono per esplodere nella fase critica del 1860 [Archivio di Stato di Chieti 2011].

Tornando alla banda Mecola, quando essa finì per formarsi il sottogovernatore di Lanciano venne informato della situazione, ma dovette registrare le titubanze dei vari distaccamenti di Guardie nazionali della zona, e ammise che l’autorità era «nelle deficienza, almen per ora, di una forza regolare per spedirsi costà nel fine di perseguitare la banda»[14]. Il campo era libero.

Dopo qualche giorno di vero e proprio proselitismo, a partire dal 21 dicembre la banda Mecola compì una serie di scorrerie nei vicini comuni, nei quali si ripeté sempre il medesimo schema: la “truppa” giungeva nel paese dopo essersi assicurata, anche tramite corrispondenza, di essere ben accolta dalla popolazione. Si procedeva poi al disarmo delle Guardie Nazionali, si rialzavano rapidamente gli stemmi borbonici, si celebrava una messa in onore di Francesco II, e infine si assaltavano le case dei possidenti locali (conosciuti come di parte liberale), aprendone le porte al saccheggio da parte dei paesani, ma pur sempre dopo che la banda avesse preso le cose migliori.

Il 21 dicembre toccò ad Ari, il 24 a Canosa Sannita e Vill’Arielli (attuale Poggiofiorito), il 27 a Tollo, dove collaborarono due ex gendarmi borbonici, il 28 ancora ad Arielli e il 31 a Miglianico e Giuliano Teatino. Una riflessione a parte occorrerà per i fatti del 4 gennaio a Orsogna. Non mi dilungherò sul racconto dettagliato degli avvenimenti in ogni comune, ma cercherò di mettere in evidenza alcuni episodi che portano utili spunti di riflessione[15].

Pensiamo per esempio ai saccheggi: ad Ari una delle maggiori vittime fu il sindaco, il dottore don Giuseppantonio d’Alessandro, zelante liberale artefice, a suo dire, del successo del plebiscito nel suo paesino [Martucci 1980, 262-280]. La massa rivoltosa iniziò il saccheggio della casa, dopo averne sfondato le porte, «rubando in danaro effettivo la somma di Ducati 400 circa tra rame ed argento; nonché oggetti d’oro […], come pure gli oggetti di argento, le biancherie tutte, e coverte che vi si rinvennero»[16], e infine sottrasse vino, olio e grano dal magazzino. Prima di lasciare le porte spalancate alla “turba” di contadini, Nunziato Di Mecola e i suoi compagni avevano già preso i pezzi più pregiati, costringendo d’Alessandro a prostrarsi ai loro piedi, malmenando la moglie e strappando i baffi al figlio. Terminato il saccheggio del palazzo del sindaco, la massa si rivolse al magazzino del Monte Frumentario, dal quale vennero trafugati generi appartenenti al d’Alessandro, ma venne portato via in parte anche il grano appartenente al Monte, non essendo stato possibile contenere la furia dei paesani. In tutto ciò gran ruolo ebbero i contadini del posto, tra cui in particolare tale Emidio Di Bene, «mosso da particolari vedute d’interesse, per le quali amava sbarazzarsi del predetto d’Alessandro, il solo che gli era stato d’inciampo nell’affitto di beni del barone Nolli a cui egli agognava»[17].

Gli obiettivi di tipo politico, che si mostrano a livello di simboli con l’esposizione degli stemmi borbonici e dei ritratti dei sovrani, andavano quindi a intrecciarsi a rivalità personali (il sindaco scampò fortunosamente all’omicidio), fornendo al contempo un utile pretesto per ottenere ciò che comunque stuzzicava la “truppa” e alcuni paesani, ossia ducati e beni materiali. Ciò è dimostrato, oltre che dalle numerose liste di oggetti sottratti nelle palazzi dei liberali, dalle innumerevoli estorsioni di denaro. Un episodio poi fa riflettere: durante il saccheggio di alcune abitazioni a Tollo si unirono i contadini delle ville di Ortona e dei paesi contigui. L’arrivo dei “forestieri” infastidì non poco i tollesi, secondo i quali il frutto dei saccheggi spettava soltanto ai naturali del posto, tanto che venne organizzato una sorta di cordone armato, ai confini dell’abitato, per impedire l’accesso al comune dall’esterno. Più che a un fronte compatto di restaurazione borbonica, mi sembra che in questa circostanza siamo davanti a meri interessi di campanile nell’accaparrarsi quanto più possibile.

Costante corollario dei saccheggi erano le “tasse” imposte dal Generale, che tramite estorsioni intascò somme notevoli di denaro. Solo un esempio: i signori Palermo, di Tollo, ebbero salva l’abitazione grazie all’interposizione dei propri coloni, ma dovettero comunque consegnare 300 ducati direttamente a Nunziato.

Veniamo agli omicidi. A Canosa il tenente della Guardia Nazionale Carlo Filippo Matteucci «fu prima ferito non gravemente con colpo di archibugio nel braccio, e poscia coi codazzi dei fucili ebbe franto il cranio; e fu lasciato là cadavere insepolto per ben due giorni»[18], come monito per la cittadinanza, fino a quando il Mecola cedette alle preghiere della moglie del defunto, tale Anna Torrese. In realtà l’omicidio avvenne per mano di Giacomo Matteucci, un paesano che era stato carcerato in passato per crimini comuni proprio per ordine del suddetto tenente. Se l’intreccio tra politica e privato risulta evidente, c’è anche da aggiungere che non vi è ancora nessun “invasore” piemontese impegnato in questa guerriglia. Ancora più interessante è un altro tra i vari omicidi di quei giorni, quello di Giuseppe Tiberi, che venne ucciso a Tollo mentre andava incontro alla banda sventolando un fazzoletto bianco. Anche in questo caso il fatto sembra riconducibile più alla «vendetta di nemici personali; tra’ quali primo, ed autore del colpo mortale, un tal Francesco Zeccamoneta»[19], tanto più che la vittima era stata appena eletta dai tollesi come Capo Urbano del restaurato governo borbonico.

Durante i tumulti reazionari si parla spesso, e con fiducia, di Francesco II, mentre il grande assente sembra essere Pio IX. La religiosità dei briganti e dei paesani sembra risolversi in piccole messe con correlato Te Deum, cosa che peraltro avveniva in modalità identiche anche in quelle città che nel frattempo avevano accolto Vittorio Emanuele II nel suo viaggio verso sud. L’unico rapporto con le autorità ecclesiastiche sembra essere quello con il clero locale, ed è però un rapporto ambiguo: i parroci di parte borbonica accolgono festosamente i briganti, tessendone anche le lodi, mentre ad esempio il sacerdote di Tollo Michele dell’Arciprete, conosciuto dal Mecola in quanto suo compaesano, subisce il saccheggio della propria abitazione.

Nell’assenza di altre autorità – fatta eccezione per qualche drappello di Guardie Nazionali intento a sommarie fucilazioni, ad esempio a Tollo – Nunziato Di Mecola emanava pubblici bandi intimando alla popolazione e ai soldati congedati, sotto pena della fucilazione, di mettersi ai suoi ordini, e annunciando che era possibile provvedersi di legna, cibarie e grano nelle case messe a saccheggio. Dispose inoltre l’apertura delle prigioni di Tollo, e cominciò a recarsi spesso nella Casa Comunale di Arielli, ispezionando la valigia postale con lo scopo di intercettare eventuali richieste di aiuto e di ricevere notizie dell’auspicata restaurazione borbonica, diventata oramai per lui l’unica speranza di non tornare a essere un criminale qualsiasi.

È innegabile che tutte le azioni di saccheggio e violenze avvennero in nome del potere borbonico e con l’esplicito intento di restaurare il passato governo, ma ne possiamo dedurre che esse vennero compiute poiché Nunziato era un fervente contro-rivoluzionario, o piuttosto dobbiamo ritenere che egli avviò allora un processo di politicizzazione delle proprie azioni? Il bandito Nunziato trovò nella reazione borbonica l’occasione di avere finanziamenti, seguito e bottino, quindi si politicizzò e diventò il brigante Mecola: strumentalizzando la lotta politica per fini personali, venne a sua volta strumentalizzato dalla contro-rivoluzione? Siamo di fronte a una vicenda più dinamica e complessa di quanto possa apparire a prima vista.

Mentre Nunziato e la sua truppa stazionavano ad Arielli, tale don Giovanni Cucchiarelli, un dottore di Orsogna, chiese di poter tenere un colloquio con lui il 3 gennaio 1861. Egli era stato un liberale durante il ’48, ma, dopo l’Unità, si era mostrato ostile al nuovo governo, specialmente per il fatto di non essere stato graduato nella Guardia nazionale. Quando ad Orsogna giunse un mugnaio con la notizia che la banda di Arielli pretendeva mille ducati per non saccheggiare il comune, don Giovanni si offrì volontario per andare a trattare col Generale, sostenendo di voler salvare il paese, mentre altri possidenti raccolsero circa ottocento ducati per persuadere la banda a rimanere ad Arielli.

Cucchiarelli si presentò a piedi sventolando una bandiera bianca e, accompagnato da una quindicina di contadini che facevano echeggiare i consueti “evviva Francesco II”, ottenne di essere ricevuto dal capobanda. Dopo il colloquio, i membri della comitiva si aggiravano per il paese «intimando a tutti, fatto pena della immediata fucilazione, di unirsi ai briganti, […] aggiungendo che un galantuomo di Orsogna […] erasi presentato a Mecola a dirgli che tutti gli Orsognesi lo chiamavano ed attendevano per rimettere Francesco sul Trono»[20]. La circostanza è confermata da Raffaele Palumbo, il quale tra l’altro aggiunse che «si fece sapere al Mecola che il Marchese di Lanciano, ossia Crognale, avrebbe data qualunque somma [e che] il detto Marchese aveva un buon numero di uomini armati, denaro, munizioni ed armi da somministrare»[21].

Don Giovanni aveva invitato i briganti, ma era riuscito ad ottenere che essi collaborassero con lui, evitando di saccheggiare un paese nel quale il partito borbonico era in maggioranza fin dai giorni del plebiscito (e già il 29 dicembre c’erano stati dei disordini anti-unitari). Difatti il giorno dopo, 4 gennaio, la banda giunse a Orsogna e il dottore «s’insignì dei colori borbonici; si mise tra mezzo i capi di quella masnada; li assistette in tutte le loro inique operazioni e fatti; distribuì il cerimoniale in Chiesa su chi dovesse portare i quadri di Francesco Secondo e di Maria Sofia», e inoltre «fece emanare diversi bandi, cioè di accendersi i lumi, di consegnarsi le armi, e fra gli altri vi fu quello che il paese era salvo per la sua intercessione»[22]. Il processo contro il dottore di Orsogna, iniziato dalla Gran Corte Criminale e proseguito dalla Corte d’Assise di Lanciano, terminò con un proscioglimento per insufficienza di prove. Il Generale venne omaggiato da altri “galantuomini” e da tutto il Decurionato in un corteo popolare con in testa la banda musicale, la statua di San Nicola e il ritratto di Maria Sofia. Per prima cosa intascò gli ottocento ducati che i possidenti avevano radunato, poi fece aprire le prigioni liberando tutti i detenuti. Durante la messa venne riconosciuto come “valoroso condottiero” dal sacerdote don Marino Simeone: il bandito era finalmente diventato brigante?

Non appena le istituzioni unitarie seppero organizzarsi risultò però evidente che Nunziato e i suoi compagni erano stati lasciati soli, tremendamente soli. A Orsogna giunsero i bersaglieri piemontesi e vi furono almeno venti fucilazioni, tra cui quella del padre del capo-banda, Adamo. A Tollo le Guardie Nazionali di Chieti posero fine all’organizzazione disposta dal Generale nei giorni precedenti. Infine, il 6 gennaio, giunse a Vill’Arielli il definitivo attacco da parte di due colonne di Guardie Nazionali giunte da Lanciano, che ingaggiarono uno scontro a fuoco con i paesani e la “truppa” nel quale perirono dieci soldati, sui quali poi si infierì:

[…] osservai che un brigante tolta la scure ad un ragazzo, che non distinsi chi fosse, si appressò a me, e presentandomi la scure mi diede ordine di tagliare il capo ad uno di quei cadaveri che colà stavano prostesi per terra. Mi negai, ed a questo tristo uffizio venne adibito un altro, che non conosco. Costui si diede a recidere, ma non riuscendo all’opera con la scure, venne pure adibita la mia ronca, la quale mi fu tolta da quell’istesso brigante che mi volea far compiere quella orribile opera[23].

Il corpo dal quale venne reciso il capo era quello del tenente Prosini. «Spiccata la testa dal busto […], que’ scellerati la conficcarono ad un palo, ed in segno di barbaro trofeo la fecero portare dall’infelice compagno Carmine Mammarella, così malconcio e sanguinante com’era»[24], mentre alcuni si adoperarono nello spogliare i cadaveri, rubando tutto ciò che avevano indosso. Parte della massa aveva intanto invaso la casa di Orazio Di Fabio, uccidendo il fratello Nicola, il capitano della Guardia Nazionale protagonista dei fatti del 2 dicembre precedente. Tutti i coinvolti nel sanguinoso scontro erano “meridionali”, nativi per esempio di Lanciano (Prosini e le altre guardie rimaste uccise), o addirittura della vicinissima Vill’Arielli (Di Fabio).

Soltanto quando arrivarono duecento bersaglieri in rinforzo ai lancianesi la banda fu sgominata mentre Nunziato Di Mecola gridava: “chi si salva, si salva”. I più fortunati, tra cui lo stesso Generale e i suoi più fidi compagni, riuscirono a fuggire, dotati com’erano di cavalli. Su chi restò sul posto si abbatté la vendetta dei piemontesi, i quali fucilarono tutti coloro che furono trovati con una qualsiasi arma, ossia almeno venticinque persone.

Il vuoto delle istituzioni si stava colmando, e l’oramai brigante Mecola, scacciato dai propri territori, del tutto compromesso, non ebbe più alternative: dopo alcuni giorni di vagabondaggio si unì al generale Lagrange, che tentava un’ultima, disperata, resistenza militare per conto di Francesco II. Si trattenne quindi a Roma per circa due mesi, dove riceveva, insieme ad altre quattrocento persone circa, una mancia giornaliera da un barone la cui identità non è nota. Venne spedito da Lagrange a Napoli, con altri trecento, ma fu arrestato dai piemontesi e tradotto prima nel Castello del Carmine, poi nel carcere di Ponza, in cui passò circa tre mesi prima che riuscisse ad evadere. Sbarcato a Terracina tornò a Roma, centro della contro-rivoluzione dove ormai si era stabilito anche Francesco II. Qui qualcosa andò storto, dato che Nunziato, due mesi dopo, decise di recarsi a Napoli sotto falso nome e in un ultimo tentativo di salvarsi cercò di aggregarsi agli ex garibaldini: «Domandato perché si aveva cambiato nome, ha risposto che essendo fuggito da Ponza era necessario cambiarsi il nome perché voleva essere ammesso nella Guardia Mobile Provinciale»[25].

Francesco II non aveva più bisogno di lui? Dov’erano le ricompense e i premi promessigli nei giorni della reazione? Probabilmente Nunziato, realmente abbandonato a sé stesso, si rese conto che ormai non era più un brigante, ma che era tornato a essere un bandito, un disperato, un emarginato. Nella sua situazione non poté fare altro che cambiare casacca, cercando la salvezza presso il nemico (ma era davvero un nemico per lui?) sperando di non essere riconosciuto. Invece a Cicciano, nel distretto di Nola, fu arrestato nel novembre del 1861 e immediatamente tradotto nel carcere di Chieti, ove terminò definitivamente il suo vagare[26].

«Pretesto e mantello»?: il processo contro la banda Mecola

Fino al 15 agosto 1863 la legge Pica non era in vigore, pertanto la responsabilità di giudicare i briganti era ancora demandata alle regolari Corti d’Assise locali e non ai tribunali militari[27]. Al contrario di quanto era accaduto ad alcuni contadini fucilati a Tollo, Arielli, Orsogna e altrove, in base a una pratica che rispondeva spesso ai capricci dei comandanti, Nunziato Di Mecola fu dunque sottoposto a regolare processo penale dalla Corte d’Assise di Chieti, apparendo come “capo supremo della banda” in cinque differenti cause (Arielli-Vill’Arielli, Ari, Tollo, Canosa-Miglianico e Orsogna), motivo per il quale le imputazioni a lui relative vennero riunite in un’unica procedura, separandole da quelle contro i cosiddetti “complici non necessari”.

Il caso del processo Mecola, come è stato dimostrato [Martucci 1980, 79-91], rappresenta una realtà piuttosto comune nel periodo antecedente l’approvazione della legge Pica, ed è motivo di riflessione proprio su questa particolare fase. Gli ambienti governativi – e soprattutto militari – lamentavano il fatto che la magistratura meridionale utilizzasse ogni spiraglio offertole dalla giurisprudenza per mitigare le pene contro gli insorti, pratica questa che in realtà ben si inseriva nella tradizione giudiziaria napoletana. I nodi chiave della discussione erano ovviamente la pena di morte, raramente comminata dalle Corti d’Assise, e l’eccessivo numero di proscioglimenti per insufficienza di prove, che seguivano ai rastrellamenti di massa praticati dall’esercito.

In questo clima di reciproco sospetto incontriamo una figura interessante, ossia il Procuratore del Re a Chieti, l’avvocato Giuseppe Ferreri (successivamente Procuratore del Re a Firenze, e Sostituto Procuratore Generale). Costui, Pubblico Ministero nelle cause in questione, seppe resistere alla tentazione di etichettare come “briganti” tutti i soggetti coinvolti nei fatti, abbozzando un’analisi differente da quelle proposte dai poteri esecutivo e militare, e mettendo in luce la differenza che intercorreva tra gli effettivi capi reazionari e coloro che, spinti dalla foga del momento, si erano resi colpevoli di reati minori. Riferendosi ai fatti di Tollo, infatti, scriveva che

al sommo di questo quadro, ossia al suo capo, conviene che anzi tutto si raffigurino, in gruppo distinto: Nunziato Di Mecola, il Generale; Raffaele Palumbo, e Pietro Maria Scenna, i Luogotenenti Colonnelli della famosa banda brigantesca di Arielli. Questi gli daranno luce e colorito. Da questi tutto procede; senza di loro nulla sarebbe succeduto di quanto si raccoglie sul fondo della scena. Un po’ più abbasso, ma in gruppi pur distinti, si devono collocare: da un lato, due ex-gendarmi borbonici, mascherati da Reali Carabinieri; e dall’altro alcune donne dell’infima plebe, con ispiedi, o coltelli in mano, con piccole sacche sulle braccia, che strillano – Viva Francesco II, viva il Generale Mecola, viva il povero popolo!! – […]. Più sotto, sul largo del campo, una turba infinita di cafoni e di braccianti, armati di mazze, di accette, di scuri, di bastoni, che si agita, si urta, urla e schiamazza, e non sa prendere un partito; ma pende intenta da un ordine, o da un segnale che parta dal Generale Di Mecola, o da’ suoi aiutanti Colonnelli[28].

Una distinzione di questo tipo, seppure fatta con un retrogusto paternalistico tipico del ceto colto dell’epoca, di fatto andava ad addossare la responsabilità dei fatti a pochi soggetti, ritenuti effettivamente “briganti”, e risultava diametralmente opposta all’idea repressiva di una certa parte del Governo e soprattutto dell’esercito, i quali invece spingevano affinché le punizioni fossero non solo esemplari, ma anche estese a tutta la popolazione complice delle bande. A quei giorni, invece, coloro «i quali non fecero che profittare dell’occasione, e trovando aperto accesso tolsero alcuna cosa del bottino, quasi abbandonato al pubblico, non [potevano] rispondere che dei fatti particolari relativi a ciascuno»[29], ed erano in tal modo esclusi dalle accuse più gravi. L’implicita critica alla pratica degli arresti di massa testimoniava un certo grado di autonomia della magistratura chietina, la quale, ritenendo di attenersi ai fatti, finì per ridimensionare una vicenda giudiziaria che negli intenti del governo – al caso si interessò anche il guardasigilli Pisanelli – doveva invece risultare esemplare.

Ecco come inquadrava Ferreri l’azione del Generale Mecola:

Egli comparisce tumultuante, cospiratore, attentatore, invasore, capobanda, masnadiero, e Generale di Francesco II. […] Or bene, costui non sarà colpevole di attentato politico? Sarà costui né più, né meno che un ladro, un rapinatore comune? No, Signori. È impossibile l’eliminare dalla presente Causa il reato politico, che fu pretesto e mantello a tutti gli altri. Il vero è là. Negarlo non giova, poiché non lo farebbe punto scomparire. E Nunziato Mecola, il capo-masnadiero, convien lasciarlo, come realmente fu, agli ordini ed al servizio di Francesco II. [Ferreri 1886, 54][30]

Azione politica come “pretesto e mantello” dunque. Ferreri individuava già l’intreccio tra criminalità comune e contro-rivoluzione. Riconoscendone i caratteri politici il procuratore attribuiva di fatto alla vicenda una problematicità tutt’altro che scontata. Le motivazioni politiche, comunque, erano ancora intese nell’ottica, diffusissima tra i patrioti dell’epoca, secondo la quale la politicizzazione delle masse derivava solamente delle trame borbonico-clericali che sfruttavano gli istinti popolari: «A noi il bottino; da Roma, se mai occorre, l’assoluzione. Al saccheggio! Al saccheggio!!» [Ferreri 1886, 54]. E infatti Ferreri, pur mettendo in campo la questione politica, si chiedeva poi se i responsabili materiali delle restaurazioni fossero da ritenersi del tutto consapevoli nelle proprie azioni. Su questo punto il Procuratore, come molti altri patrioti, riteneva che

la responsabilità degli atti, e soprattutto degli eccessi delle masse oppresse ed ignoranti non sta quasi mai in loro; ma vuolsi ricercare più in alto, e farsi risalire a cui tocca, ovunque tocchi. E che, nei fatti di cui particolarmente ci occupiamo, male assai ci avviseremmo se guardassimo solo agli attori, e dimenticassimo i promotori, gli eccitatori, i fautori […]. Dietro ai cafoni stanno i briganti, sopra i briganti i capi-briganti, ma sovra tutti Gaeta e Roma […]. Verso là dunque la responsabilità e l’accusa; di là sempre la misura della colpa, dei danni, dell’infamia. [Ferreri 1886, 68-70]

Era comunque davvero credibile ritenere tutti gli accusati dei “briganti”? Era possibile arginare il fenomeno delle reazioni seguendo la legislazione ordinaria? In che rapporto erano le motivazioni per così dire contingenti e quelle effettivamente politiche? Il Pubblico Ministero (e quindi l’istituzione) gettava uno sguardo quanto meno problematico sulla vicenda, ma al tempo stesso sminuiva il significato di alcune scene registrate negli interrogatori, se è vero che si raccontava che a seguito della banda «andava una quantità di gente, uomini, donne e ragazzi, i quali cantando un inno contro Garibaldi, facevano risuonare l’eco degli Evviva Francesco II»[31].

Mentre un disperato Nunziato negava ogni responsabilità di questo tipo e affermava che «non vero è che avesse detto “voi volete Vittorio Emanuele, e noi vogliamo Francesco II”»[32], la corte si riunì nell’aprile del 1863 per emanare la sentenza: dei ventisei imputati finali nel processo contro la “truppa” vennero condannati «Nunziato Di Mecola [e altri sette] alla pena dei lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici, ed all’interdizione patrimoniale»[33], mentre altri diciannove ricevettero pene relativamente più lievi, chi i lavori forzati a tempo, chi la reclusione, e chi il carcere. I restanti sette andarono a ingrossare la lista dei prosciolti, già infoltita dagli altri procedimenti.

Il Generale venne ritenuto colpevole di dieci capi d’imputazione, tra cui «attentato che ha avuto per oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo», costituzione di «banda armata organizzata per commettere lo attentato suddetto», e «ribellione in riunione armata d’individui nel numero maggiore di dieci, accompagnata da omicidi volontari […] e da mancati omicidi […] commessi come conseguenza immediata della ribellione»[34]. Lo stesso andamento del processo, che aveva riconosciuto ai tumulti l’aspetto politico filo-borbonico, aveva dunque spinto la Corte a considerare la vicenda entro i margini degli articoli 156 e 162 del codice penale Rattazzi, quelli per i quali Di Mecola venne effettivamente condannato, che prevedevano come massimo della pena appunto i lavori forzati a vita. In questo modo gli omicidi, nell’interpretazione della Corte, venivano assorbiti nel reato politico.

A seguito della sentenza si scatenarono reazioni indignate: lo stesso Ferreri impugnò la sentenza, ritenendo che il reato di omicidio superasse per gravità il delitto politico e quindi implicasse la pena di morte come da codice penale; la Corte di Cassazione di Napoli gli diede ragione, ma il ricorso conteneva errori di procedura; il Comandante dei Carabinieri di Chieti, come prevedibile, accusò la corte di “borbonismo”; il sindaco di Ari scrisse scandalizzato al ministro Pisanelli, il quale si interessò alla vicenda, ma ben poco poté fare [Martucci 1980, 262-280].

Nel frattempo, durante il governo Rattazzi, nel maggio 1862 la magistratura meridionale era già stata riorganizzata, tramite un’ampia epurazione, proprio perché giudicata eccessivamente mite con i processati e colpevole di un atteggiamento ostruzionistico verso l’esecutivo. Il processo Mecola si inserisce proprio nella fase in cui da un lato il potere giudiziario riteneva di dover esercitare la propria autonomia, mentre dall’altro gli ambienti governativi ne richiedevano una sorta di ripiegamento verso esigenze prettamente politico-strategiche. Di lì a poco, coloro che erano stanchi di assoluzioni e pene minime, riuscirono a ottenere il passaggio della competenza dei reati di brigantaggio dalle corti ordinarie al potere militare. Nel frattempo, il bandito-brigante Nunziato venne trasferito nel bagno penale di Genova, dove trovò la morte «nel Forte Castelluccio alle ore undici ed un quarto antemeridiane del giorno 4 maggio 1876»[35], tredici anni dopo la conclusione del processo.

Conclusioni

Cosa dimostra il caso di Nunziato Di Mecola? Innanzitutto che non è in alcun modo possibile giungere a semplificazioni e generalizzazioni quando si parla di brigantaggio, specialmente nella sua prima fase. Nell’intenso periodo 1860-61 si diffusero anche nelle più remote province del regno napoletano le parole chiave dello scontro tra rivoluzione nazionale e contro-rivoluzione, portando alla ribalta su scala locale una molteplicità di personaggi impossibili da ridurre ad archetipi. Dalla pur breve vicenda della banda Mecola emerge in tutta la sua forza una questione rilevante come quella della politicizzazione della provincia chietina: questo territorio, la cui importanza anche strategica non va dimenticata, divenne uno dei primi teatri di un conflitto civile frutto certo della crisi di breve periodo del 1860, ma anche di un cinquantennio in cui la monarchia borbonica aveva dovuto far fronte a continue insurrezioni, numerose anche nella stessa provincia [Canosa 2002]. La rivoluzione nazionale, giunta al dunque, non aveva però trovato consenso unanime, e

l’incapacità o l’impossibilità di portare ai suoi termini la transizione politica era andata a complicare i nodi sociali di un’incerta transizione post-feudale, essendo da questi aggravata. Ne derivò un’area grigia nella quale la politica confinava con la criminalità, e in cui si collocò in una certa misura la mobilitazione dei soggetti popolari, sia sul fronte rivoluzionario che su quello reazionario. [Lupo 2011, 20]

In buona sostanza, motivazioni criminali, sociali e politiche finirono per intersecarsi e banditi comuni come il nostro Nunziato trovarono nella battaglia borbonica occasione di guadagno, sfruttando e al contempo generando forme spontaneistiche di protesta. Il Generale collaborò ad una causa di cui presumibilmente non comprendeva appieno il significato, e avrebbe potuto ben poco senza il decisivo contributo dei cosiddetti manutengoli, a loro volta mossi chi da fini personali e chi dall’effettiva appartenenza politica. L’azione personale del brigante di Arielli sembra dettata drammaticamente dalla disperazione piuttosto che dalla consapevolezza politica, e poté essere esercitata soltanto nella contingenza di un vuoto istituzionale nella gestione dell’ordine pubblico. Si può dire che coloro che erano effettivamente “borbonici” – che senz’altro esistevano – seppero sfruttare la situazione, politicizzando anche chi politicizzato non era. Forse sarebbe troppo parlare di “pretesto e mantello”, come diceva il procuratore Ferreri, ma individuare degli opportunismi credo sia legittimo. Del resto, poi, «vendette e odî privati, fratture di carattere localistico e fazionistico, violenza criminale non solo trovano maggiori opportunità di manifestarsi a seguito del collasso degli apparati statali preposti alla repressione, ma possono anche rappresentare una copertura (o assumere un’effettiva dimensione) più strettamente “politica”» [Pezzino 1994, 62].

A tutto ciò vanno affiancati gli aspetti più marcatamente sociali, non isolabili dal contesto politico, che emersero nel momento della crisi finale del regno di Napoli. La transizione politica, sostanzialmente incompiuta nell’inverno 1860-61, finì per complicare i nodi sociali derivanti dall’incerto passaggio a un sistema post-feudale, che vennero così drammaticamente al pettine [Massafra 1988]. Infine, la vicenda processuale della banda Mecola, lontana dall’essere un caso isolato, si presta alla riflessione sulle tensioni tra governo e magistratura, sulla gestione dell’emergenza dell’ordine pubblico, sulla percezione che gli ambienti forensi avevano della problematica brigantaggio. Dopo mesi in cui si alternavano la relativa mitezza della magistratura ordinaria e l’arbitrarietà delle fucilazioni operate dall’esercito, l’elaborazione della legge Pica rispose ai problemi posti dai molteplici casi simili a quello di Arielli, la cui gestione venne generalmente ritenuta infruttuosa. Certamente di stampo illiberale e antigarantista, ispirata peraltro alla tradizione borbonica, la legge Pica rappresentò comunque uno strumento che permise di uscire dall’arbitrarietà dello stato di guerra e che consentì al Governo di ristabilire un principio di legalità volto a mettere ordine dopo gli sconvolgimenti rivoluzionari.

Abbreviazioni

A.S.C.: Archivio di Stato di Chieti

A.S.L.: Archivio di Stato di Chieti – Sezione di Lanciano

C.A.C.: Corte di Assise di Chieti (già Gran Corte criminale, 1860, processi)

C.A.L.: Corte di Assise di Lanciano

G.C.C.: Gran Corte Criminale di Chieti

Int.: Interrogatorio

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Note

[1] Tuttavia anche Martucci talvolta presta il fianco a riusi “neoborbonici”: cfr. Martucci 1999.

[2] Su questo tema cfr. Ranzato 1994 e specialmente Pezzino 1994 e Viola 1994. Sulla lunga gestazione del conflitto politico nel meridione cfr. Pinto 2011, 171-200 e Petrusewicz 1998, mentre per una concettualizzazione più generale cfr. Tilly 1992.

[3] Su questo tema cfr. Sangiovanni 2001. Sulla crisi delle province abruzzesi cfr. Bonanni 1974 e Colapietra 2011, mentre sull’Abruzzo ottocentesco cfr. Buccella 1996. Più in generale cfr. Adorni 1997.

[4] Sul nodo chiave del vuoto istituzionale e dei conflitti a esso legati cfr. Macry 2003 e Roccucci 2012, in particolare Barone 2012, 251-270 e Macry 2012a, 75-86.

[5] Cfr. Scirocco 1963, Spagnoletti 1997 e Galasso 2007. Per un approccio più generale alla questione del Risorgimento cfr. Riall 1997, Isnenghi-Cecchinato 2008 e Macry 2012b.

[6] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Atto di nascita di Nunziato Di Mecola.

[7] Ivi. Possessi di Nunziato Di Mecola (Giunta Municipale di Arielli).

[8] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Int. di Nunziato Di Mecola del 20 giugno 1862.

[9] A.S.C., C.A.C., 2° versamento, Processi, b. 14, m. 8. Int. di Domenico di Bascio.

[10] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Precedenti penali di Nunziato Di Mecola.

[11] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Int. di Raffaele Palumbo.

[12] Ivi. Int. di Nunziato Di Mecola del 15 febbraio 1862.

[13] A.S.L., C.A.L., Cospirazioni, b. 540, m. 1. Processo contro il marchese Crognale e altri.

[14] A.S.L., Sottoprefettura, Polizia, b. 152, fasc. 1, sottofasc. 7, f. 91. Lettera del sottogovernatore Virgili al giudice Lattanzi.

[15] Per un resoconto più dettagliato delle “gesta” della banda Mecola cfr. Canosa 2010, 39-49

[16] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Requisitoria del Procuratore del Re Ferreri per la causa di Ari.

[17] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Resoconto del Giudice Istruttore Magaldi per la causa di Ari.

[18] A.S.C., C.A.C., 2° versamento, Processi, b. 13, m. 8. Atto di accusa del Procuratore del Re Ferreri per la causa di Canosa-Miglianico.

[19] Ivi. Atto di accusa del Procuratore del Re Ferreri per la causa di Tollo.

[20] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 3. Int. di Tommaso Monaco, cit.

[21] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 1. Int. di Raffaele Palumbo, cit.

[22] A.S.L., C.A.L., Cospirazioni, b. 255, m. 5. Resoconto del Giudice Istruttore Cannella per la causa di Orsogna.

[23] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 3. Int. di Vincenzo Simigliani.

[24] Ivi. Atto di accusa del Procuratore Generale Auriti per la causa di Arielli.

[25] A.S.C., G.C.C., b. 92, m. 1145. Int. di Nunziato Di Mecola del novembre 1861.

[26] Cfr. ibidem e A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 3. Int. di Nunziato Di Mecola del febbraio 1862.

[27] Sugli effetti della legge Pica, meno repressivi di quanto sostenga un certo tipo di retorica, cfr. Lupo 2011, 132-135.

[28] A.S.C., C.A.C., 2° versamento, Processi, b. 13, m. 8. Requisitoria del Procuratore del Re Ferreri per la causa di Tollo.

[29] A.S.C., C.A.C., 2° versamento, Processi, b. 14, m. 8. Atto di accusa del Procuratore del Re Ferreri per la causa di Tollo.

[30] In questo libricino sono contenuti alcuni utili testi, relativi alla discussione pubblica del processo, non presenti nelle carte d’archivio.

[31] A.S.C., C.A.C., Appendice, b. 3. Int. di Giovanni Vespa.

[32] Ivi. Int. di Nunziato Di Mecola del 15 febbraio 1862 cit.

[33] A.S.C., C.A.C., 2° versamento, Sentenze, vol. 1°, «Sentenze della Corte d’Assise», 1862-1866. Sentenza della C.A.C. per la causa di Arielli del 26 aprile 1863.

[34] Ibidem.

[35] Atto di morte di Nunziato Di Mecola. Devo la consultazione di una copia di questo documento alla gentilezza della signora Marinella Di Mecola, pronipote di Nunziato.