Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

I nemici degli USA e la dimensione religiosa del discorso politico americano

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Abstract

The rhetorics used in US foreign politics are based on a national identity shared by the whole population and with strong historical roots. The idea of the US as a moral and religious authority legitimises it's political and military interventions worldwide, as the country sees itself as responsible for spreading universal values such as liberty, freedom and progression. The role of the President as a symbol of the unity of the nation is very central for these rhetorics, and so is the extreme usage of the dichotomy of good and evil. The US actually claims to have God on their side, which means that every enemy and opponent should be eliminated. This is very well pictured by the phrase “God bless America” particularly used by George W. Bush after 9/11. Creating a gap between “us” and “them” has been, and is still, used successfully as a political strategy.

We want the germinal idea that America, inheritor of the past, is the custodian of the future of humanity.

It seems as if the Almighty had spread before this nation charts of imperial destinies, dazzling as the sun… [America] will be empire of empires, overshadowing all else, past and present...

Walt Whitman, Specimen Days and Collect , 1882

Narrazioni dicotomiche:
il Bene e il Male nella retorica politica statunitense

La retorica della politica estera degli Stati Uniti è basata su un'identità nazionale condivisa e storicamente radicata, che enfatizza il ruolo degli Stati Uniti nella promozione di valori ritenuti universali e di un destino legato alla volontà divina. La creazione dell'identità nazionale statunitense e la sua crescita e continua ri-produzione sono legate a una visione basata su una profezia che vede gli Stati Uniti come artefici di un progetto universale per il mondo intero, custodi supremi di valori universali quali la libertà, la giustizia e il progresso. La fiducia nella derivazione divina dei principi su cui si basa la politica statunitense è evidente fin dalla formulazione della Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776.

Questa profezia assegna agli Stati Uniti la responsabilità di estendere il loro progetto di redenzione oltre i propri confini. Questa concezione di autorità morale e religiosa costituisce un elemento fondamentale della “religione civile” che caratterizza la vita politica e la partecipazione dei cittadini. D'altra parte, l'identità nazionale non ha solo la funzione di cementare la coesione interna a una comunità, ma serve anche a marcare distinzioni con coloro che non fanno parte del gruppo. La costruzione del “noi” – da cui il senso di identità individuale e collettiva trae notevoli risorse emotive e simboliche – avviene attraverso una contemporanea proiezione di un'alterità, di un “loro” da cui ci si differenzia [1].

L'importanza della retorica politica nella costruzione dell'identità nazionale è tanto più importante in una nazione disomogenea come gli Stati Uniti, in cui la grande diversità geografica, sociale, etnica e culturale produce spesso spaccature e divisioni molto più forti che in altri Paesi. Un altro elemento che rende l'identità nazionale particolarmente rilevante negli Stati Uniti è il ruolo di superpotenza mondiale che questo Paese riveste ormai da decenni, e che comporta un impegno significativo in politica estera, sia sul piano di guida nei processi delle relazioni internazionali, sia sul piano di interventi militari in aree del mondo spesso remote. Poiché questo ruolo non comporta solo benefici ma anche costi per i contribuenti, l'apporto della retorica politica nel creare o mantenere consenso in questa sfera di governo è fondamentale. L'identità nazionale diventa allora una delle risorse che i leader politici possono mobilitare per governare con il consenso dell'opinione pubblica o per manipolare i suoi orientamenti [2].

Il senso di appartenenza e l'identità nazionale si concentrano in modo particolare sulla figura simbolica e istituzionale del presidente e sulla sua retorica. Secondo Beasley [3] fin dalla presidenza di George Washington è evidente il ricorso a un linguaggio basato sull'unicità degli Stati Uniti e sulla missione salvifica di cui sono investiti. In un'analisi della retorica dei presidenti e dei candidati alla presidenza dal 1948 al 1996, Hart sostiene che le campagne elettorali sono «preghiere secolari», che hanno la funzione di affermare valori intangibili, «rendere manifesto ciò che non è ancora manifestamente vero» [4]. I tre valori fondamentali della religione civile statunitense che emergono nel discorso politico della presidenza sono, secondo Hart, «Dio, patria e comunità». Questi elementi non solo sono una presenza costante in tutti i testi che costituiscono una campagna elettorale, ma si collegano fortemente tra di loro, costruendo una rete di significati che rafforza l'identità nazionale.

Nel campo della politica estera, la visione patriottica e religiosa che ispira la religione civile statunitense si esprime storicamente in quello che Philip Wander definisce «dualismo profetico» [5]. Wander utilizza questa definizione per descrivere il tratto dominante della retorica politica negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, ma come vedremo le radici di questa tendenza si possono riscontrare sia in epoca precedente, sia nella “Guerra al Terrorismo” in cui gli Stati Uniti sono oggi impegnati.

Il dualismo profetico opera una distinzione settaria tra Bene e Male, dove il Bene è identificato pienamente con gli Stati Uniti, mentre il Male comprende tutte le caratteristiche attribuite al nemico o ai nemici della nazione. Gli Stati Uniti sono dunque depositari di una superiorità morale rispetto alle altre nazioni e rispetto ai nemici. Chi si oppone agli Stati Uniti diventa automaticamente un emissario del Male: a formulare queste distinzioni sono gli stessi Stati Uniti, che dunque assumono il ruolo di giudici e custodi della volontà divina e della dimensione morale e religiosa della politica.

La distinzione manichea tra Bene e Male rende insignificante qualsiasi gradazione e sfumatura che si può trovare tra questi due poli. Nelle fasi più acute del conflitto, quando la retorica assume caratteristiche più drammatiche, chiunque dubiti dell'opinione degli Stati Uniti e del loro diritto unilaterale e superiore all'azione diventa sospetto di disfattismo, se cittadino statunitense, o di infedeltà, slealtà e mancanza di riconoscenza, se si tratta di una nazione alleata. Neutralità, negoziazione e compromesso non sono opzioni legittime, almeno nei momenti di massima mobilitazione, così come non è accettabile una critica della posizione degli Stati Uniti da parte dei loro stessi cittadini. Per converso, i good citizens sono coloro che ripropongono i valori su cui si basa la coscienza civile della loro patria e che agiscono per rafforzare e rinnovare il senso di comunità e di coesione interna. La forte connotazione emotiva e l'unilateralismo morale pongono il freno a qualsiasi discussione e mediazione sia all'interno, tra i cittadini, sia all'esterno, rispetto non solo ai nemici, ma anche agli alleati meno convinti o alle nazioni neutrali.

La costruzione di una dicotomia tra Bene e Male non ha tuttavia una valenza esclusivamente statica e descrittiva, ma al contrario produce un quadro dinamico, una tendenza all'azione. Più precisamente, ha la funzione di costruire una narrazione in cui le intenzioni e le azioni dei protagonisti riproducano la divisione Bene/Male e la proiettino nello scenario presente della politica internazionale, realizzando una storia di cui gli Stati Uniti sono protagonisti e in cui sono contrapposti a delle nazioni o a dei soggetti con cui rivaleggiano in vista del conseguimento di un obiettivo. Poiché gli elementi essenziali della religione civile statunitense e della rappresentazione del nemico sono fortemente radicati nella storia e nella cultura dei cittadini, la retorica politica ha la funzione di ri-attualizzare una narrazione archetipica, di riprodurre nel presente un modello e un universo di significati che mantengono una stabilità storica. Nella comunicazione politica, a differenza che in quella commerciale, gli atteggiamenti e le conoscenze si costruiscono nel tempo attraverso stratificazioni successive, cosicché le informazioni e le emozioni del presente sono in gran parte legate a quelle del passato. Il discorso politico è dunque in grado di capitalizzare efficacemente su questo stock preesistente di significati, stabilendo collegamenti cognitivi ed emotivi che leghino il vecchio al nuovo.

Possiamo quindi analizzare gli elementi che, con variazioni storiche significative ma che non precludono la stabilità del modello generale, costituiscono la narrazione che descrive e legittima la politica estera degli Stati Uniti. La semiotica narrativa [6] offre un modello utile al nostro scopo, in quanto individua quattro sintagmi narrativi che costituiscono l'ossatura di qualunque storia, dalle fiabe ai testi giornalistici alla retorica politica: Contratto, Competenza, Performanza e Sanzione. Ogni narrazione ha inoltre una natura polemica, vale a dire che individua due universi di significato contrapposti tra loro.

Vediamo dunque come si costruisce la narrazione canonica dell'impegno degli Stati Uniti in politica estera, e come i nemici degli Stati Uniti vengano rappresentati in questo quadro.

Nella fase del Contratto, il popolo statunitense (Soggetto), rappresentato dal presidente, viene chiamato a una missione da parte di un Destinante identificato con Dio e con una serie di valori universali (Bene, pace, libertà, democrazia, giustizia, progresso, civilizzazione). La missione consiste nel conseguimento di un Oggetto di valore. Del campo semantico del Contratto fanno parte anche termini come “destino” e “missione”. In questo senso gli Stati Uniti non scelgono il loro Programma Narrativo, ma sono esplicitamente chiamati all'azione da forze incontrollabili e trascendenti. Gli Stati Uniti non agiscono per scelta, ma per necessità e dovere; non perseguono il proprio interesse egoistico, ma sono esecutori di un disegno storico e divino. L'Oggetto di valore ha natura duplice. L'obiettivo immediato è la conquista di territori o la modifica di assetti nello scacchiere politico internazionale. L'Oggetto qui è visto come un'entità geografica e un insieme di utilità da conquistare, si tratti di risorse o di mutamenti politici favorevoli agli Stati Uniti. Tuttavia questo scopo viene messo in secondo piano rispetto alla missione di lungo periodo, che è la purificazione dell'Oggetto conquistato, il suo congiungimento con una serie di valori universali; in questo caso l'Oggetto viene presentato non come un territorio ma come un popolo, che in quanto tale avrebbe diritto di godere dei valori rappresentati dai Destinanti degli Stati Uniti, ma che nella situazione contingente ne è privo. Se nella superficie del racconto gli Stati Uniti sono impegnati in operazioni militari, al livello profondo la narrazione articola un sistema di valori in cui gli Stati Uniti hanno lo scopo di affermare e diffondere i propri ideali. La missione degli Stati Uniti non è dunque di mera conquista, ma di trasformazione dell'Oggetto, a cui viene assegnato un Programma Narrativo parallelo a quello degli Stati Uniti, e che si può sommariamente tradurre con i termini “civilizzazione”, “democratizzazione” e “occidentalizzazione”. L'immagine dell'Oggetto-popolo che ne deriva risulta necessariamente sminuita: le popolazioni che gli Stati Uniti vogliono “liberare” non sono in grado, nella situazione presente, di accedere ai valori universali simboleggiati dagli Stati Uniti, o perché vittime di governanti crudeli, immorali e incapaci, o perché arretrate culturalmente, economicamente e socialmente. Anziché evolvere naturalmente verso il modello di civiltà raggiunto dall'Occidente, questi popoli hanno dunque bisogno di un intervento diretto da parte del Soggetto.

La fase del Contratto rivela dunque l'esistenza di una serie di Antisoggetti che si contrappongono agli Stati Uniti. Si tratta delle classi politiche, guidate da dittatori e tiranni, che soggiogano l'Oggetto di valore, i popoli oppressi. Il fatto che questi Antisoggetti manifestino crudeltà e ingiustizia verso i loro concittadini ne dimostra la malvagità intrinseca e costituisce una minaccia per la sicurezza del mondo e degli Stati Uniti. In altri casi l'Antisoggetto compie un attacco diretto contro gli Stati Uniti, come il Giappone a Pearl Harbor o i terroristi contro le Torri Gemelle e il Pentagono. Anche l'Antisoggetto ha dunque due Oggetti di valore Negativi: uno è il maltrattamento e lo sfruttamento della propria popolazione, l'altro è il danneggiamento degli interessi e della sicurezza degli Stati Uniti e del mondo intero. A motivare l'Antisoggetto è un Antidestinante identificato specularmente come la negazione di tutti i tratti positivi dei Destinanti: il Male, la mancanza di principi morali e la disobbedienza a Dio, il disprezzo per i valori della libertà, della democrazia, della civiltà, della vita umana, il desiderio di apportare morte e distruzione. Nelle narrazioni a carattere più marcatamente religioso, l'Antisoggetto assume perfino le sembianze del Demonio, o ne riproduce iconicamente alcune connotazioni [7]. Così come il Soggetto non ha solo un Programma Narrativo immediato, ma anche uno di lungo periodo che incarna i suoi valori di fondo, l'Antisoggetto compie azioni distruttive nel presente in vista di un progetto rivoluzionario di lungo periodo, mirato a dominare il mondo o una parte significativa di esso e ad affermare un sistema di valori radicalmente contrapposto a quello espresso dai Destinanti del Soggetto. Il nemico non cerca un bottino o una vittoria, ma lo scontro totale e con esso l'annientamento definitivo del Soggetto. Per questo motivo non può essere affrontato con gli strumenti del dialogo, del negoziato e del compromesso, in quanto non è possibile trovare un terreno comune con chi mira a distruggere il suo interlocutore e i suoi valori. Nell'intreccio tra la nobiltà della missione salvifica degli Stati Uniti e l'innata crudeltà del nemico, qualunque mezzo viene giustificato in ragione del fine della vittoria, sfiorando e talvolta oltrepassando il limite del paradosso, come nell'espressione, celebre ma infausta, di un ufficiale nella guerra del Vietnam: “dobbiamo distruggere [un villaggio vietnamita] per salvarlo” [8]. L'Antisoggetto viene insomma costruito attraverso il classico meccanismo freudiano della proiezione, in base al quale il soggetto attribuisce a un'altra persona i propri pensieri e impulsi negativi di cui non vuole prendere consapevolezza.

Nella fase della Competenza , il Soggetto rafforza la sua determinazione e il suo rigore morale in vista dello scontro con l'Antisoggetto. In questa fase si verifica un notevole accentramento di potere e di consenso sul Presidente, che viene raffigurato come Commander in Chief e investito di tratti eroici e mitici, in contrapposizione ai valori negativi legati all'Antisoggetto. In questa situazione, il potere esecutivo tende a sopraffare quello legislativo, contrariamente al dettato costituzionale dei Padri Fondatori, e la scena politica viene così dominata dalla figura del “presidente imperiale”.

Il Soggetto si dota inoltre di una serie di Aiutanti, sotto forma di alleati che condividono i suoi Destinanti e il suo Programma Narrativo. Per converso, coloro che non accettano il Programma Narrativo e rifiutano quindi il ruolo di Aiutanti possono, con gradazioni diverse, essere definiti come Opponenti o possono rimanere fuori dalla narrazione. Nel primo caso in particolare, la contrapposizione manichea “o con noi o contro di noi” rischia di trasformare in “traditori” e “vigliacchi” gli alleati dubbiosi o contrari alle scelte del Soggetto. Viene infatti invocato un rapporto “naturale” di fedeltà, legato alla condivisione di valori e destini storici, in base al quale gli alleati dovrebbero schierarsi a fianco degli Stati Uniti senza alcuna esitazione.

Nella fase della Performanza, attraverso una serie di azioni il Soggetto riesce a congiungersi con l'Oggetto di valore e a impedire che l'Antisoggetto faccia altrettanto con il suo Oggetto Negativo. In questa fase il Soggetto è identificato non solo con i suoi leader, il Presidente e gli ufficiali di massimo rango dell'esercito, ma anche con i Soggetti di alcune micro-narrazioni che compongono la storia principale: si tratta di racconti di eroismo e coraggio, tra i soldati al fronte o tra la gente comune, che esemplificano il successo del Soggetto come attore collettivo. La performanza avviene non solo in seguito a un Programma Narrativo iniziato dal Soggetto: nel caso dell'attacco dell'11 settembre, la prima performanza messa in atto dagli Stati Uniti è la reazione alla tragedia, che passa attraverso il rafforzamento della Competenza come condivisione di valori morali e risolutezza nel sostenere il modello di vita statunitense, e si realizza da un lato con una serie di apparizioni simboliche da parte dei leader (come la visita di Bush a Ground Zero il 14 settembre 2001 o le dichiarazioni risolute del sindaco di New York Rudolph Giuliani), dall'altro sotto forma di micro-storie che raccontano il coraggio dei soccorritori, il dolore dei parenti delle vittime, l'eroismo dei passeggeri a bordo degli aerei dirottati, la generosità dei cittadini statunitensi nell'inviare aiuti e donazioni. Questa prima Performanza si trasforma poi in Competenza, in risorsa morale e concreta per la successiva Performanza, vale a dire la reazione militare contro il nemico.

Nella fase della Sanzione si verifica il riconoscimento del successo del Soggetto, la sua fedeltà ai principi e ai valori incarnati dai Destinanti, il rafforzamento del ruolo degli Stati Uniti come legittimo mandatario e rappresentante di Dio e dei valori universali della civiltà, mentre per converso vengono squalificati non solo l'Antisoggetto, ma anche i suoi Antidestinanti. La contrapposizione tra Bene e Male viene riaffermata per confermare il principio che il Bene prevale. Questa aspettativa viene creata nel lettore fin dall'inizio del testo, implicita nel fatto che il punto di vista della narrazione definisce un Soggetto e dei Destinanti con cui il fruitore si identifica e in cui riconosce gli agenti del Bene contro il Male. Qualora il Programma Narrativo del Soggetto non venga completato, come nel caso di una sconfitta militare o di un ritiro delle truppe, la sanzione negativa rischia di indebolire la condivisione dei valori incarnati nei Destinanti e la fiducia nella competenza dei leader e della nazione. Le ferite all'identità nazionale legate alla guerra del Vietnam sono un esempio calzante in questo senso.

Radici storiche dell'immagine del nemico

We concur in considering [its] government as totally without morality beyond bearing, inflated with vanity and ambition, aiming at the exclusive domination of the [world], lost in corruption, of deep-rooted hatred towards us, hostile to liberty whenever it endeavors to show its lead, and the eternal disturber of the peace of the world [9].

Così come le libertà civili su cui si fonda la nazione sono attribuite a un benevolo disegno divino, l'idea che il nemico degli Stati Uniti sia privo di moralità, corrotto e ostile alla libertà e alla pace nel mondo è radicata nei processi storici che hanno portato alla fondazione degli Stati Uniti d'America. La citazione riportata sopra è di Thomas Jefferson e risale al 1815. Il nemico è il Re di Inghilterra. La spinta morale e religiosa con cui la retorica politica statunitense affronta il conflitto demonizzando il nemico è dunque presente fin dagli albori della storia della nazione.

Una volta conquistata la libertà dalla Madrepatria, gli Stati Uniti avviarono una fase espansionistica, in cui la missione della nazione si espande dalla conquista di valori e libertà in patria alla loro esportazione. È così che nacque la teoria del “Manifest Destiny”, secondo la quale gli Stati Uniti sono investiti della missione storica e morale di donare i loro ideali democratici e le loro istituzioni a quelle popolazioni ritenute in grado di auto-governarsi.

Il Manifest Destiny aveva una dimensione sia politica sia identitaria e religiosa: «Gli espansionisti non erano solo motivati dal desiderio di espandere la democrazia e la libertà, credevano anche che i loro ideali fossero proprietà esclusiva dei Protestanti Anglosassoni» [10]. A una definizione degli Stati Uniti come portatori di valori nobili e assoluti corrisponde una patente di esclusiva di questi valori, incarnati in una comunità privilegiata che ha natura religiosa prima ancora che nazionale.

Lo stesso schema ideologico venne riproposto durante la guerra contro la Spagna del 1898, il primo conflitto in cui la stampa ebbe un effetto importante sull'opinione pubblica grazie alla comparsa della “penny press[11]. Mentre i giornali popolari costruivano immagini drammatiche della ribellione cubana e della dura repressione spagnola, il presidente William McKinley e Theodore Roosevelt, che gli succederà dopo il suo assassinio, enfatizzavano ancora una volta la dimensione “missionaria” dell'intervento militare degli Stati Uniti. Nel discorso in cui, l'11 aprile 1898, McKinley chiese al Congresso l'autorizzazione all'uso della forza, il presidente elencò quattro ragioni per cui gli USA sarebbero dovuti entrare in guerra con la Spagna. Le motivazioni legate all'interesse nazionale sono poste alla fine dell'elenco, mentre le prime due argomentazioni sono ancora una volta legate alla missione profetica degli Stati Uniti, «nel nome dell'umanità e della civiltà».

Nel Novecento i nemici degli Stati Uniti hanno assunto volti e identità diverse. Hitler è stato il primo vero leader straniero a essere presentato come un demone, ma il nemico con cui gli Stati Uniti ebbero il confronto più duro nella Seconda Guerra Mondiale fu il Giappone, contro cui gli Stati Uniti impiegarono l'arma suprema, la bomba atomica: «L'esistenza di un'arma così assoluta implicava l'esistenza del Nemico assoluto. Senza il Nemico assoluto, nessuna arma assoluta sarebbe stata necessaria» [12]. L'immagine della bomba atomica come metafora della giustizia divina che cade dal cielo fa da contrappunto alla rappresentazione del nemico come entità disumana da purificare: «Il presidente Truman giustificò l'uso delle bombe atomiche dicendo che, triste ma vero, una bestia andava affrontata come una bestia» [13].

Ma il vero nemico degli Stati Uniti nel Ventesimo secolo era l'Unione Sovietica. Fin dalla Rivoluzione di Ottobre del 1917 l'URSS era percepita dalla diplomazia statunitense non come un interlocutore e una potenza rivale, ma come una minaccia all'ordine mondiale, un agente rivoluzionario con cui non sarebbe stata possibile nessuna convivenza pacifica. Questa concezione manichea, enunciata nei cosiddetti assiomi di Riga, contribuisce a spiegare il motivo per cui, a pochi mesi dalla fine della guerra, l'Unione Sovietica tornò a essere raffigurata come il nemico assoluto e il depositario di ogni male. La sua politica estera non era descritta secondo le categorie tradizionali, ma «era percepita come governata dalla paranoia e dalla disperazione e quindi rappresentava una sfida a cui non si poteva dare alcuna risposta razionale» [14]. La potenza retorica di questa narrazione riempì il vuoto che si era creato in seguito alla sconfitta dei nemici della Seconda Guerra Mondiale ed ebbe la funzione di compattare il consenso interno, anche se al prezzo di soffocare il dissenso e consentire crociate morali come quelle del Senatore Joseph McCarthy.

Come si vede, la minaccia sovietica viene presentata come uno scontro di civiltà e di valori morali, in particolare come un attacco esplicito alle radici cristiane delle democrazie occidentali, di fronte al quale qualunque posizione moderata porta inevitabilmente alla rovina. Lo stesso presidente Dwight Eisenhower raffigurava il comunismo come la negazione del valore morale e spirituale dell'uomo e come un progetto malvagio di rimpiazzare Dio con lo Stato. Di conseguenza, il fronte interno si compattò sulla base della difesa dei valori non solo del capitalismo e della democrazia liberale, ma della religione e tradizione cristiana. Nel 1954 Eisenhower firmò un atto con cui si aggiungevano le parole “under God” nel “Pledge of Allegiance”. Due anni dopo, nel 1956, un atto del Congresso dichiarava motto nazionale la frase “In God We Trust”.

La retorica di John F. Kennedy nelle fasi precedenti la guerra in Vietnam costituisce una miscela del dualismo profetico che si era imposto con la Guerra Fredda e di quello che Wander definisce “realismo tecnocratico” [15]. Kennedy tuttavia non rinunciava ad argomentazioni moralistiche per giustificare l'impegno militare degli USA nel Sud-Est asiatico come dovere etico nella lotta tra forze democratiche e forze antidemocratiche, tra i difensori della libertà e quella che definiva “Communist Consipracy”.

Secondo Bostdorff e Goldzwig [16], l'alternanza di questi due stili retorici consentiva a Kennedy di raggiungere scopi diversi. Nei suoi discorsi pubblici il presidente enfatizzava soprattutto gli aspetti morali e idealistici, «per definire il Vietnam come un conflitto morale di grande importanza e per definire se stesso come un leader morale». Nei rapporti con la stampa Kennedy tendeva a ricorrere maggiormente ad argomentazioni pragmatiche, «per contrastare le critiche alle sue politiche e per dipingere se stesso come un comandante in capo competente e capace». Nell'oratoria pubblica il dualismo profetico continuava quindi a prevalere. Questa duplicità retorica poneva tuttavia una serie di rischi che si sarebbero poi verificati con l' escalation del conflitto durante la presidenza Johnson.

Dopo la disfatta in Vietnam, lo scandalo Watergate e l'estenuante crisi di 444 giorni legata alla cattura di ostaggi presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, che contribuì fortemente alla mancata rielezione di Jimmy Carter nel 1980, l'ottimismo di Ronald Reagan, la sua raffigurazione iperbolica degli Stati Uniti, il suo uso sistematico del termine «America» anziché «United States», il ricorso a espressioni come «this great nation of ours» e «a nation under God», riaccesero l'orgoglio nazionale ferito, in un'epoca di crisi economica e di incertezza sulla supremazia internazionale degli Stati Uniti.

A questa immagine del Soggetto-Nazione fa da contrappunto, come in tutta la tradizione retorica che stiamo esaminando, una raffigurazione speculare dell'Antisoggetto-Unione Sovietica. Gran parte del Male rappresentato dall'Unione Sovietica era legato al loro disprezzo per Dio: godless communists era una delle espressioni utilizzate più di frequente. Il presidente riaffermava l'idea, radicata negli assiomi di Riga, che i Sovietici avevano l'obiettivo di sovvertire il mondo “civilizzato” e di imporre la loro ideologia, di costruire un Evil Empire. Nella campagna elettorale del 1984, in cui fu rieletto a grande maggioranza, Reagan mise in onda uno spot in cui l'Unione Sovietica veniva paragonata a un pericoloso orso. Di fronte a un nemico malvagio e desideroso di ostacolare la missione degli Stati Uniti, l'orgoglio nazionale doveva tornare a risplendere e la forza degli Stati Uniti doveva imporsi nel mondo, come espresso dalla cosiddetta “dottrina Reagan”.

Con la fine della Guerra Fredda, si aprì un vuoto nella definizione dell'Antisoggetto e quindi del Programma Narrativo che identifica la “missione” degli Stati Uniti. George H.W. Bush e il suo Segretario di Stato James Baker alla fine del 1990 affermarono che gli Stati Uniti dovevano intervenire contro l'invasione del Kuwait ad opera di Saddam Hussein per difendere i propri interessi materiali, per assicurare la stabilità dei prezzi del petrolio e per salvaguardare “posti di lavoro”, come il presidente disse esplicitamente in un'intervista alla CNN. La rinuncia a giustificazioni morali per l'intervento militare degli Stati Uniti, apparentemente sensata in un mondo che stava appena uscendo dalle contrapposizioni ataviche della Guerra Fredda, procurò a Bush una pioggia di accuse di cinismo ed eccesso di pragmatismo [17]. Questa crisi di immagine fu tuttavia un'eccezione, se si considera che la retorica di Bush a proposito della guerra affermava il ruolo di guida degli Stati Uniti nella costruzione di «A New World Order».

L'immagine del nemico degli Stati Uniti dopo l'11 settembre

Gli attentati che si verificano l'11 settembre aprono una crisi profonda nella sfera pubblica statunitense. Come ogni crisi, essa ha una dimensione pratica, politica, e una prettamente comunicativa. L'opinione pubblica mondiale si trova di fronte a un evento senza precedenti, che apre scenari impensabili e incomprensibili con gli schemi di pensiero tradizionali. Occorre dunque costruire una comunicazione che dia un senso a quanto è accaduto e che orienti le scelte future attraverso narrazioni appropriate.

Occorre dunque mettere in campo due narrazioni contrapposte che diano un senso a quanto è successo l'11 settembre e motivino il corso di azione che gli Stati Uniti sceglieranno. È necessario che queste storie proiettino una visione di due universi contrapposti, in modo da rendere evidenti le differenze tra le motivazioni, la natura e gli scopi dei protagonisti. È inoltre necessario che i vari pubblici che di queste storie sono destinatari si riconoscano negli elementi del Programma Narrativo del Soggetto e che, per converso, riconoscano l'alterità e l'opposizione dell'Antisoggetto e del suo Programma Narrativo negativo. In questo modo la narrazione acquisisce, agli occhi del fruitore, quella natura di oggettività che la mette al riparo dallo scontro politico e dalla diversità delle opinioni e degli interessi in campo.

Se l'11 settembre presenta agli Stati Uniti una situazione eccezionale e dei nemici nuovi e sconosciuti a gran parte dell'opinione pubblica, la strategia retorica con cui costruirne una narrazione può ricorrere a strumenti e oggetti culturali conosciuti e radicati nella cultura politica della nazione. In questo modo l'indefinibile e l'incerto diventano definibile e certo, ciò che nel presente sembra inspiegabile si può raccontare sulla base di oggetti culturali provenienti dal passato, ma proprio per questo solidificati nell'immaginario collettivo, largamente condivisi e facilmente recuperabili dalla memoria di gran parte del pubblico. Il nuovo Antisoggetto assume dunque buona parte delle caratteristiche del vecchio nemico, così come i Destinanti, il Soggetto e l'Oggetto di valore che costituiscono il nuovo Programma Narrativo sono costruiti riprendendo gli elementi fondamentali delle narrazioni del passato, enfatizzando esplicitamente la continuità tra di essi e costruendo paragoni impliciti ed espliciti.

Quella che viene definita “una nuova guerra”, contro un nemico dalla caratteristiche completamente diverse da quelli del passato, ha in realtà paradossalmente i tratti e le sembianze dei conflitti che la storia tramanda e la memoria ricorda. Più che un mutamento di paradigma, l'11 settembre e la “Nuova Guerra al Terrorismo” costituiscono dunque un adattamento retorico di risorse, schemi culturali e stili lessicali cristallizzati in 250 anni di storia e comunicazione politica.

Nel primo discorso alla nazione del presidente Bush l'11 settembre 2001, gli attacchi terroristici vengono immediatamente descritti come parte di un Programma Narrativo negativo:

Today, our fellow citizens, our way of life, our very freedom came under attack in a series of deliberate and deadly terrorist acts. The victims were in airplanes, or in their offices; secretaries, businessmen and women, military and federal workers; moms and dads, friends and neighbors. Thousands of lives were suddenly ended by evil, despicable acts of terror.

Fin dalla prima definizione della situazione, appare evidente come la contrapposizione riguardi non interessi contingenti, ma valori non negoziabili, come lo stile di vita di una popolazione intera, la libertà, il Bene e il Male: «I termini che si riferiscono ai terroristi non suggeriscono caratteristiche temporanee che sono il risultato di un errore, ma tratti che denotano una qualità connaturata, una forza immodificabile che può solo essere fermata tragicamente» [18]. La definizione del nemico fa dunque leva su caratteristiche ascritte e non acquisite, su contrapposizioni morali e valoriali astoriche anziché su interessi e divergenze contingenti. Pochi istanti dopo Bush afferma: «America was targeted for attack because we're the brightest beacon for freedom and opportunity in the world. And no one will keep that light from shining». L'azione dell'Antisoggetto rivela dunque l'esistenza di un Soggetto (gli Stati Uniti), che ha come scopo l'estensione al mondo intero di valori quali libertà e opportunità. Questa missione rappresenta un Contratto che gli Stati Uniti hanno il compito di portare a termine. La condivisone di questo obiettivo costituisce sia la fonte principale dell'identità nazionale, sia l'oggetto verso cui il nemico rivolge il suo odio e il suo desiderio di conquista. L'attacco ha dunque la funzione di rinvigorire il Programma Narrativo del Soggetto di fronte a un Antisoggetto che lo minaccia. La contrapposizione tra Soggetto e Antisoggetto riguarda le caratteristiche che ne costituiscono l'identità, così come i Destinanti e Antidestinanti che li spingono all'azione: «Today, our nation saw evil, the very worst of human nature. And we responded with the best of America -- with the daring of our rescue workers, with the caring for strangers and neighbors who came to give blood and help in any way they could».

Un altro elemento che caratterizza il nemico è la codardia: «The United States will hunt down and punish those responsible for these cowardly acts», dice il presidente in un breve messaggio da una base militare in Louisiana nelle ore successive all'attentato. Al contrario, l'azione degli Stati Uniti è presentata come coraggiosa ed eroica.

Il discorso di Bush si conclude, come la gran parte degli interventi che si succedono immediatamente dopo l'11 settembre, con un esplicito riferimento religioso, che raffigura Dio non solo come Destinante del Soggetto-Stati Uniti, ma anche come Aiutante nella sua lotta contro il nemico: «And I pray they [i terroristi] will be comforted by a power greater than any of us, spoken through the ages in Psalm 23: “Even though I walk through the valley of the shadow of death, I fear no evil, for You are with me».

Nell'esortazione conclusiva Bush fa esplicitamente riferimento al legame tra la situazione presente e le vicende impresse nella memoria collettiva del suo popolo. In questo modo il presidente inizia da subito a proiettare un corso d'azione familiare, che vede una nazione unita contro un nemico che, pur cambiando faccia nella storia, ha sempre le stesse caratteristiche e gli stessi obiettivi. Il richiamo al passato serve anche a proiettare una Sanzione positiva, legata al ristabilimento della giustizia e del Bene universali.

This is a day when all Americans from every walk of life unite in our resolve for justice and peace. America has stood down enemies before, and we will do so this time. None of us will ever forget this day. Yet, we go forward to defend freedom and all that is good and just in our world.

Il 14 settembre, presso la National Cathedral a Washington, Bush pronuncia un'orazione funebre per le vittime degli attentati, in cui afferma la “responsabilità verso la storia” degli Stati Uniti nella lotta tra il Bene e il Male: «Just three days removed from these events, Americans do not yet have the distance of history. But our responsibility to history is already clear: to answer these attacks and rid the world of evil».

Se dunque gli Stati Uniti sono soggetti a un Contratto con la Storia, che li lega, generazione dopo generazione, a una missione da cui non possono esimersi, i nemici degli Stati Uniti perseguono un Contratto specularmente opposto, ovvero distruggere la libertà e chi ha la responsabilità di difenderla e coltivarla:

America is a nation full of good fortune, with so much to be grateful for. But we are not spared from suffering. In every generation, the world has produced enemies of human freedom. They have attacked America, because we are freedom's home and defender. And the commitment of our fathers is now the calling of our time.

Un elemento importante della rappresentazione del nemico è la descrizione del rapporto tra i terroristi e la religione islamica. Abbiamo visto che storicamente il discorso politico statunitense traccia una separazione tra moralità e immoralità, tra fede e sacrilegio, tra Dio e Satana. Lo scontro non è tra popoli con fedi e religioni diverse, ma tra un popolo che ha fede e venera Dio e uno che non ha fede e non riconosce l'esistenza di Dio, come i godless communists della Guerra Fredda. Il fatto che Osama Bin Laden e la sua rete terroristica proclamino di agire in nome e per conto di Allah e che identifichino Satana con gli Stati Uniti, pone la retorica politica di fronte a un problema nuovo: come conciliare l'immagine familiare del “nemico senza Dio” con la nuova realtà di un leader terrorista che si erge a profeta vendicatore di un altro Dio? Il problema, ovviamente, non è solo di tipo comunicativo, ma soprattutto politico: come costruire un discorso che eviti di alimentare il rischio di una guerra di religione e di uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam?

Bush risolve questo dilemma retorico affermando che i terroristi non possono essere considerati fedeli a una religione, ma miscredenti che tradiscono i principi del loro credo. La narrazione marca così una nuova linea di confine: da una parte tutti i popoli e i leader che professano una religione in modo autentico, interpretandone i valori universali come la pace, la libertà e la fratellanza, dall'altra coloro che usurpano una religione per predicare odio, morte e terrore. Il Male di cui i terroristi sono responsabili è tanto più grave in quanto essi profanano una religione, sono “blasfemi”, “traditori della loro fede”, vogliono “dirottare l'Islam stesso”.

Questa ridefinizione del fondamentalismo come negazione della fede autentica consente a Bush di riprendere la terminologia e il quadro di riferimento del dualismo profetico che abbiamo analizzato in precedenza. Fin dal 16 settembre, in una conferenza stampa improvvisata alla Casa Bianca, Bush impiega la parola “crusade” come sinonimo di “guerra al terrorismo”.

Nel messaggio al Congresso del 20 settembre 2001, in vista dell'attacco all'Afghanistan, l'Antisoggetto viene presentato attraverso i suoi atti più crudeli, che si aggiungono nell'immaginario collettivo a quelli dell'11 settembre. Nella contrapposizione tra i crimini del regime dei Talebani e le libertà garantite dalle democrazie occidentali si ritrova il contrasto universale tra il Bene e il Male:

In Afghanistan, we see al Qaeda's vision for the world.

Afghanistan's people have been brutalized - many are starving and many have fled. Women are not allowed to attend school. You can be jailed for owning a television. Religion can be practiced only as their leaders dictate. A man can be jailed in Afghanistan if his beard is not long enough.

A questa raffigurazione disumana della visione politica del nemico corrisponde una definizione delle sue motivazioni, dei suoi Destinanti, come legati al sentimento più negativo di tutti: l'odio. Nella domanda retorica “perché ci odiano?” è già contenuta, e data per scontata, la premessa che l'odio sia la forza che muove i terroristi.

Americans are asking, why do they hate us? They hate what we see right here in this chamber – a democratically elected government. Their leaders are self-appointed. They hate our freedoms – our freedom of religion, our freedom of speech, our freedom to vote and assemble and disagree with each other.

In modo simile, nel primo discorso di commemorazione dell'11 settembre, tenuto da Bush a Ellis Island nei pressi di New York, a un anno dall'attentato, il presidente ribadisce la linea di demarcazione antropologica, valoriale e morale tra il Soggetto e l'Antisoggetto, con un riferimento molto preciso al fatto che “ogni vita è un dono di Dio” (che riprende la retorica della destra religiosa e implicitamente pone come non problematici temi quali l'aborto e la ricerca sugli embrioni):

The attack on our nation was also attack on the ideals that make us a nation. Our deepest national conviction is that every life is precious, because every life is the gift of a Creator who intended us to live in liberty and equality. More than anything else, this separates us from the enemy we fight. We value every life; our enemies value none -- not even the innocent, not even their own. And we seek the freedom and opportunity that give meaning and value to life.

Tornando al discorso del 20 settembre 2001, una volta definito il nemico sulla base delle connotazioni tipiche del dualismo profetico e della dicotomia Bene/Male, il legame tra i rivali del presente e quelli del passato è semplice da stabilire. Ad accomunarli non sono solo le loro caratteristiche e i loro obiettivi, ma anche il destino che li aspetta: la sconfitta e la vergogna della storia.

We are not deceived by their pretenses to piety. We have seen their kind before. They are the heirs of all the murderous ideologies of the 20th century. By sacrificing human life to serve their radical visions - by abandoning every value except the will to power - they follow in the path of fascism, and Nazism, and totalitarianism. And they will follow that path all the way, to where it ends: in history's unmarked grave of discarded lies.

La contrapposizione Bene/Male ha la funzione di includere ed escludere: «Every nation, in every region, now has a decision to make. Either you are with us, or you are with the terrorists». Se lo scontro è tra valori assoluti e tra opzioni non conciliabili tra loro, nessuna gradazione di accordo, nessuna sfumatura di grigio è possibile. O si fa parte del Bene o si fa parte del Male: tertium non datur.

Il discorso di Bush traccia un legame tra i valori e le aspirazioni degli Stati Uniti e quelli del mondo. Cerca così di costruire un Soggetto collettivo, accomunato dagli stessi Destinanti e dallo stesso Programma Narrativo, contrapposto radicalmente all'Antisoggetto, che si trova così completamente isolato. L'uso di termini come “civilizzazione”, “progresso”, “pluralismo”, “tolleranza” e “libertà” è finalizzato a suggerire uno stock di valori comuni sulla base dei quali motivare la reazione degli Stati Uniti. Ma in questo progetto, agli Stati Uniti spettano chiaramente un ruolo egemone, un privilegio e una responsabilità, una “missione” e un dovere morale: quello di radunare il mondo sotto i vessilli della libertà e della civilizzazione, in uno scontro che non coinvolge Stati nazionali e istituzioni politiche, ma «libertà e paura, giustizia e crudeltà». Una guerra che viene ricondotta a conflitti eterni, a contrapposizioni ataviche, ma nella quale la mano e il volere di Dio sono sempre visibili e soprattutto benevoli verso gli Stati Uniti. Dio è dunque il Destinante principale del Contratto che Bush si appresta ad accettare e a stringere insieme ai suoi concittadini e alle nazioni del mondo che gli Stati Uniti si apprestano a guidare nella loro missione.

Il passaggio successivo nella strategia politica e comunicativa di Bush è infatti l'allargamento del fronte nella guerra al terrorismo. Nel discorso sullo Stato dell'Unione del 29 gennaio 2002, Bush esordisce inneggiando al successo nella missione in Afghanistan e alla nascita di un governo provvisorio nella regione, ma subito dopo indica nuove minacce e ribadisce la malvagità del nemico, «la profondità dell'odio» di persone che «ridono per la perdita di vite innocenti».

Bush punta poi il dito contro la Corea del Nord, l'Iran e l'Iraq: questi tre Stati appartengono a un “Asse del Male” che minaccia la sicurezza degli Stati Uniti e del mondo civilizzato. Compongono dunque un nuovo Antisoggetto collettivo che comprende anche la rete di terroristi che ha colpito l'11 settembre e il regime appena deposto dei Talebani in Afghanistan. Iran, Iraq e Corea del Nord sono terrorist States , espressione con cui Bush introduce un nuovo uso del termine “terrorista”, riferito non più solo a persone o organizzazioni, ma a interi Stati. L'allargamento del perimetro del conflitto è segnalato da un altro passaggio linguistico: a partire dal 2002, Bush utilizza sempre meno frequentemente l'espressione «war on terrorism», sostituendola progressivamente con «war on terror». In questo modo si crea una sorta di confusione semantica tra “terrorismo” e “terrore”.

Sul piano narrativo, gli “Stati terroristi” e gli altri componenti dell'Asse del Male sono accomunati da due elementi: il loro Destinante, raffigurato come il Male, e il possesso o il desiderio di armi di distruzione di massa. Nell'economia della narrazione delineata in precedenza, le armi di distruzione di massa rappresentano un elemento della Competenza, un Aiutante che consente all'Antisoggetto di portare avanti il suo Programma Narrativo negativo.

A fronte di questa nuova sfida, gli Stati Uniti sono chiamati a rinnovare la loro missione storica, per affermare Oggetti di valore universali «perché sono giusti e veri e invariabili per ogni popolo in ogni luogo», in quanto rappresentano «esigenze non negoziabili della dignità umana».

Con il discorso sullo Stato dell'Unione del 28 gennaio 2003 Bush formula la sua giustificazione definitiva per l'imminente guerra contro l'Iraq. La missione degli Stati Uniti, condensata simbolicamente nella bandiera a stelle e strisce e radicata nell'intento dei Padri Fondatori, è «la causa della dignità umana», perseguita affrontando e sconfiggendo «i progetti di uomini malvagi».

The qualities of courage and compassion that we strive for in America also determine our conduct abroad. The American flag stands for more than our power and our interests. Our founders dedicated this country to the cause of human dignity, the rights of every person, and the possibilities of every life. This conviction leads us into the world to help the afflicted, and defend the peace, and confound the designs of evil men.

Bush dedica gran parte del suo discorso a definire Saddam Hussein come il nuovo Antisoggetto contro cui gli Stati Uniti devono combattere. Ad accomunarlo alle altre forze dell'Asse del Male sono gli stessi due elementi che abbiamo osservato in precedenza: il possesso o la ricerca delle armi di distruzione di massa e la volontà di agire per compiere il Male. Così come i Talebani, Saddam è rappresentato come folle, brutale, crudele verso il suo stesso popolo. Dopo una lunga descrizione delle atrocità del regime iracheno, Bush sentenzia: «Se questo non è il Male, allora il Male non ha significato».

Il presidente conclude il suo discorso con un altro riferimento alla missione degli Stati Uniti e alla presenza di Dio come loro Destinante. L'azione degli Stati Uniti è presentata come un atto disinteressato («ci sacrifichiamo per la libertà di estranei»), compiuto non per decisione autonoma, ma per fare in modo che tutti possano beneficiare del «dono di Dio all'umanità». Gli Stati Uniti sono «guidati» e «benedetti» da un «Dio amorevole dietro tutta la vita e tutta la storia». Eseguono un Contratto che è stato affidato loro da un Destinante supremo di fronte al quale non sono possibili compromessi e tentennamenti, in quanto la missione degli Stati Uniti fa parte della lotta eterna tra il Bene e il Male.

Tutti questi discorsi costruiscono una narrazione duplice, in cui un Soggetto e un Antisoggetto perseguono due Programmi Narrativi antitetici, che si incontrano nella fase della Performanza. Le Performanze che le “forze del Bene” e le “forze del Male” si contendono sono speculari e inconciliabili, così come i loro Destinanti e i loro Oggetti di valore. Se i terroristi vogliono distruggere gli Stati Uniti e i simboli del “mondo civilizzato”, gli Stati Uniti hanno l'obiettivo di distruggere i terroristi. Poiché non esistono compromessi tra questi due obiettivi, la vittoria del Soggetto non può che avvenire attraverso l'annientamento dell'Antisoggetto, e viceversa.

L'offesa che i terroristi hanno apportato agli Stati Uniti con gli attentati dell'11 settembre, la loro appartenenza al dominio del Male, la loro volontà di distruggere la civiltà, giustificano dunque un atteggiamento speculare da parte degli Stati Uniti, compreso il disprezzo per le loro vite. D'altra parte Bush enfatizza ripetutamente la (presunta) precisione e accuratezza della tecnologia militare che consente all'alleanza di colpire obiettivi mirati senza sacrificare vittime civili.

Nell'economia della narrazione proposta da Bush lo spazio occupato dal Soggetto e dall'Antisoggetto è preponderante rispetto agli altri elementi. Il racconto è cioè incentrato sull'esistenza di due attori contrapposti, distinti fra loro in tutte le caratteristiche fondamentali. Per usare la terminologia di Chatman [19], la storia è focalizzata più sugli esistenti , e in particolare sui personaggi, che sugli eventi , vale a dire le azioni. La sfera dell' essere riceve più attenzione di quella del fare. Questa discrepanza si può spiegare in due modi. In primo luogo, è evidente che il tempo del discorso è in questo caso dilatato rispetto al tempo dell'azione. Tra l'attentato dell'11 settembre e la guerra in Afghanistan, e tra questa e quella in Iraq, c'è uno spazio temporale occupato dalla definizione del nemico e dalla proposta di un corso di azione. In secondo luogo, è proprio l'appiattimento del discorso sulla definizione del Soggetto e dell'Antisoggetto che consente alla comunicazione di Bush di estendere il fronte nella guerra al terrorismo.

Riferendosi al concetto di “deformazione casistica” proposto da Burke, Kephart afferma che il discorso sul terrorismo adotta una definizione del nemico che è «certa e ambigua allo stesso tempo» [20]. Se il nemico è reso tale dall'appartenenza al “Male” e dall'ostilità verso la civiltà occidentale, il ventaglio dei possibili nemici degli Stati Uniti si amplia a discrezione di chi definisce il concetto di “Male”. Significativamente infatti, una volta scoperta l'assenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, Bush ridefinisce le motivazioni della guerra affermando che la sola rimozione di Saddam è una giustificazione sufficiente per il conflitto.

In conclusione, possiamo sintetizzare gli elementi fondamentali della narrazione dicotomica proposta da Bush rispetto al terrorismo:

  Soggetto (Stati Uniti) Antisoggetto (terroristi)
Destinanti

Dio, civiltà, progresso, democrazia, libertà, giustizia, amore per il prossimo, disinteresse, Bene, Storia

Satana, disprezzo per la vita, Male, odio, paura, volontà di distruzione, disumanità, disprezzo e mancanza di rispetto per Dio

Contratto

Liberare i popoli oppressi, diffondere nel mondo i valori dei Destinanti

Distruggere i valori e le istituzioni del Destinante e del Soggetto, portare morte e distruzione, imporre un regime oppressivo e fanatico

- Dover fare

Responsabilità verso la storia e verso il mondo, obbligo morale, “faro per la civiltà”, “o con noi o contro di noi”

Miscredenza, immoralità

- Voler fare

Determinazione, risolutezza, unità, fiducia, fede, ottimismo

Odio, cecità, desiderio di morte

Oggetto di valore

Sicurezza per gli Stati Uniti, libertà e democrazia per i popoli oppressi, pace, prosperità

Distruzione degli Stati Uniti, oppressione dei popoli, morte, guerra, miseria

Competenza

Consapevolezza dei propri valori, coesione interna, eroismo, aiuto di Dio, aiuto degli alleati

Disperazione, fanatismo, follia

- Poter fare

Coraggio, passione, eroismo, “Commander in Chief”, “presidente imperiale”

Astuzia, spietatezza, codardia

- Saper fare

Tecnologia “pulita”, addestramento, esperienza

Ricorso a tecnologie “proibite”, armi di distruzione di massa

Performanza

Distruzione dei terroristi, liberazione dei popoli oppressi, atti di guerra mirati a non toccare i civili

Distruzione degli Stati Uniti e del mondo occidentale, attentati contro vittime civili, pratiche barbare (decapitazioni)

Sanzione

Ristabilimento della giustizia, realizzazione del disegno divino, amicizia tra popoli liberi, pace e prosperità, “luce”, Storia

Fine della libertà, guerra perenne, soggiogazione del mondo a regimi tirannici, “buio”, tenebre, “macerie della Storia”

 

L'immagine del nemico e il discorso politico negli Stati Uniti

La maggior parte di questo saggio si è focalizzata sulla retorica ufficiale del presidente Bush. In conclusione di questo articolo è opportuno esplorare alcuni dei possibili effetti della strategia della Casa Bianca e analizzare il comportamento di altri attori fondamentali nella sfera pubblica: i mass media, e l'opinione pubblica.

L'11 settembre e la guerra al terrorismo hanno messo in luce quello che Jamieson e Waldman definiscono il ruolo della “stampa come patriota” [21]. Nel suo studio sul giornalismo e la guerra in Vietnam, Dan Hallin parla di sospensione dell'obiettività giornalistica in tempo di guerra. In questa situazione i giornalisti si sentono meno in dovere di proporre un punto di vista critico e di mettere in dubbio le prese di posizione e la retorica del governo, riducendo all'osso lo spazio della discussione pubblica.

Le ricerche svolte mostrano come, dall'11 settembre alla caduta del regime di Saddam Hussein, i media statunitensi abbiano sostanzialmente adottato la retorica presidenziale e rinunciato ad esaminare attentamente le informazioni fornite dal governo per giustificare le operazioni militari. Gli studi mettono in luce l'omogeneità tra i frame interpretativi impiegati dalla Casa Bianca e quelli utilizzati dai media, la ripresa nel linguaggio dei media della distinzione “Noi/Loro” e “Bene/Male”, la glorificazione del presidente Bush, la ri-costruzione del “mito” di una nazione ferita ma pronta a reagire [22].

Le ragioni dell'adesione dei media statunitensi alla logica e alla retorica del presidente si possono individuare in quattro aspetti.

In primo luogo, i giornalisti hanno interpretato il loro ruolo come quello di patrioti in quanto avvertivano una minaccia reale alla sicurezza e all'identità nazionale. In queste situazioni i media si sentono spesso investiti di una funzione “sacerdotale”, di una responsabilità nel tenere unita la nazione.

Questa presa di coscienza comporta probabilmente una forte auto-censura da parte dei media, ma d'altra parte – e siamo al secondo punto della nostra spiegazione – il governo degli Stati Uniti non ha mancato di fare sentire ripetutamente e ufficialmente la sua voce per controllare l'informazione, attaccare i giornalisti scettici e suggerire che la critica all'amministrazione Bush equivaleva a un aiuto ai terroristi e a un danno arrecato alle truppe in guerra e all'unità nazionale.

Terzo, la copertura mediatica della guerra e della politica estera tende normalmente a rispecchiare il consenso che si registra tra le élite politiche [23] Entman mostra come la copertura dei media è stata favorevole a Bush finché il sistema politico ha mostrato consenso bipartisan verso le sue iniziative [24]. Quando però, nell'estate del 2002, alcuni importanti esponenti del partito Repubblicano hanno iniziato a dissentire pubblicamente sul conflitto in Iraq, affermando che il vero obiettivo doveva essere l'Arabia Saudita, i media hanno criticato apertamente Bush e la sua politica, tanto da costringere il presidente a ritardare l'inizio della guerra per ricostruire il consenso. L'immagine del nemico e la cornice interpretativa della vicenda erano, però, già stati fissati dalla retorica presidenziale riecheggiata dai media.

Quarto, ma non da ultimo, le logiche commerciali e di mercato hanno giocato sicuramente un ruolo determinante. In presenza di un'opinione pubblica compatta, stretta intorno al presidente e desiderosa di unità e rassicurazione, i giornalisti e i loro direttori hanno compreso che il modo migliore per alzare gli indici di ascolto e le vendite era innestare nel racconto della “guerra al terrorismo” e nella descrizione dei nemici una buona dose di patriottismo e fiducia nelle autorità. Per converso, qualunque testata di larga diffusione che avesse criticato le scelte del governo o alimentato sospetti e dubbi, o in qualche modo relativizzato e umanizzato la figura del nemico, sarebbe stata immediatamente accusata di essere “non patriottica” e avrebbe subito un drastico crollo negli ascolti o nelle vendite.

Quanto all'opinione pubblica, tema ben più complesso di quanto questo articolo consenta di affrontare, due elementi meritano di essere menzionati.

Il primo è la sostanziale adesione del pubblico alla descrizione del nemico presentata nella retorica presidenziale e rispecchiata dai mass media. Un secondo elemento di interesse è legato alla correttezza delle informazioni e delle convinzioni del pubblico in merito alla natura del nemico. Abbiamo visto come, grazie ai meccanismi della “distorsione casistica”, della proiezione e dell'appiattimento della narrazione sulle caratteristiche dell'Antisoggetto, Bush abbia costruito una storia in cui la natura del nemico può essere modulata a seconda delle situazioni. Insistendo sulla natura “malvagia” del dittatore iracheno e sulla sua “pericolosità”, il discorso di Bush è riuscito a creare un legame implicito nell'opinione pubblica tra Saddam Hussein e Bin Laden, tra il regime iracheno e i responsabili degli attentati dell'11 settembre.

La spiegazione di questi dati deve tenere conto di due fattori.

Il primo è che, come abbiamo ampiamente documentato in questo saggio, Bush ha descritto il nemico in modo molto simile ai suoi predecessori dalla nascita dell'Unione in poi. Utilizzando termini, metafore e narrazioni legate esplicitamente al passato, Bush è riuscito a riattivare schemi e attitudini ben presenti e radicati nella memoria e nella coscienza di gran parte dei suoi concittadini, in un momento di spaesamento collettivo e di tensione che favoriva il ricorso a descrizioni e spiegazioni semplici e conosciute.

Il secondo punto è che queste narrazioni non hanno solo un valore descrittivo, ma anche e soprattutto una funzione prescrittiva, una capacità di mobilitare all'azione e di coagulare consenso. La narrazione della lotta al terrorismo come missione degli Stati Uniti nella lotta del Bene contro il Male si compone di stereotipi culturali che Popkin definisce script , ossia schemi prefissati che l'individuo segue dandone per scontato il fondamento per mezzo di un ragionamento prevalentemente analogico e non riflessivo.

La narrazione costruita dalla retorica politica del presidente, e supportata quasi completamente dai media, ha avuto la funzione di semplificare una situazione molto complessa e angosciante, di ricondurre l'ignoto al noto, di legare il presente al passato e di suggerire una linea di azione chiara e condivisa in quanto radicata in schemi ed esperienze che la maggior parte dei cittadini statunitensi conosce e in cui riscontra tratti centrali della propria identità nazionale.

Conclusioni: una retorica per l'incomunicabilità

L'espressione “God bless America” è sempre stata utilizzata dai politici per concludere i loro discorsi più importanti, ad esempio nelle convention pre-elettorali. Mai come dopo l'11 settembre, tuttavia, questa frase è divenuta una costante dell'oratoria pubblica. Praticamente tutti i messaggi di Bush si concludono con questa formula rituale. Il presidente incarna in questo caso un ruolo sacerdotale, il cui compito è di recuperare e rafforzare il senso di identità che deriva dalla religione civile statunitense.

Ironicamente, ma coerentemente con il nostro modello, esiste una simmetria tra la retorica degli Stati Uniti e quella dei loro nemici: «Il concetto di Male ha una funzione sia tra i gruppi terroristici sia tra i loro oppositori. Su entrambi i fronti, la convinzione che le azioni dell'altro siano malvagie assolve coloro che li combattono dalla responsabilità per la violenza delle proprie azioni» [25]. Il conflitto è visto attraverso le stesse lenti da entrambi i fronti: se la retorica ufficiale statunitense proclama di avere Dio al proprio fianco, i fondamentalisti islamici identificano gli Stati Uniti con Satana.

Queste rappresentazioni contrastano con l'evidenza storica e con i principi fondamentali della diplomazia e delle relazioni internazionali, secondo cui le definizioni di “amico” e “nemico” non dipendono da caratteristiche ascritte e immutabili, ma dalla situazione contingente delle alleanze e dal bilanciamento degli interessi in gioco. La retorica dicotomica e manichea con cui entrambe le parti in conflitto si definiscono reciprocamente ha la funzione di giustificare lo stato di guerra e di squalificare sul piano retorico qualsiasi altra soluzione. Inoltre, esclude dalla sfera pubblica qualsiasi discussione sulla strategia e sulle motivazioni del nemico, compattando il consenso interno al prezzo di soffocare la discussione nella sfera pubblica. Il terrorismo viene trattato come un elemento dell'identità del nemico e come una scelta fine a se stessa, non come una tattica legata a una strategia di lungo periodo.

In questo modo la retorica politica scava un fossato sempre più vasto tra “noi” e “loro”, ma anche tra l'immagine pubblica del nemico e la nostra possibilità di comprenderne le ragioni e la vera natura.

Note

* Questo articolo è stato scritto durante un periodo di ricerca con il Center for Congressional and Presidential Studies presso l'American University a Washington, DC

http://www.american.edu/
academic.depts/spa/ccps/

Ringrazio in particolare il Professor James A. Thurber, direttore del centro, per l'ospitalità e le opportunità offertemi

[1] Cfr. P. Schlesinger, Media, the Political Order and National Identity , «Media, Culture and Society», 13 (1991), 297-308.

[2] Cfr. L. Jacobs, R. Shapiro, Politicians don't Pander: Political Manipulation and the Loss of Democratic Responsiveness , Chicago, University of Chicago Press, 2000.

[3] Cfr. V. Beasley, The Rhetoric of Ideological Consensus in the United States: American Principles and American Pose in Presidential Inaugurals , «Communication Monographs», 68 (2001), 169-183.

[4] R. Hart, Campaign Talk: Why Elections are Good for us , Princeton, Princeton University Press, 2000, 50.

[5] Cfr. P. Wander, The Rhetoric of American Foreign Policy , in: M. Medhurst, R. Ivie, P. Wander, R. Scott, R. (eds.), Cold War Rhetoric: Strategy, Metaphor, and Ideology , East Lansing, Michigan State University Press, 1997.

[6] Cfr. A. Greimas, Del senso , Milano, Bompiani, 1974; Id., Del senso 2: Narrativa, modalità, passioni , Milano, Bompiani, 1985.

[7] M.P. Pozzato, Leader, oracoli, assassini: analisi semiotica dell'informazione , Roma, Carocci, 2004.

[8] Cfr. D. Sears, The role of affect in symbolic politics , in J. Kulkinski (ed.), Citizens and Politics: Perspectives from Political Psychology , Cambridge, Cambridge University Press, 2001.

[9] V. Harle, The Enemy with a Thousand Faces: The Tradition of the Other in Western Political Thought and History , Westport, Praeger, 2000, 86.

[10] A. Weinberg, Manifest Destiny: A Study of Nationalist Expansion in American History , Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1955 (citato in D. Heidler, J. Heidler, Manifest Destiny , Westport, Greenwood Press, 2003).

[11] M. Schudson, La scoperta della notizia: Storia sociale della stampa americana . Napoli, Liguori, 1978.

[12] V. Harle, The Enemy with a Thousand Faces , cit., 84.

[13] Ivi, 87.

[14] Ivi, 89.

[15] P. Wander, The Rhetoric of American Foreign Policy , in M. Medhurst, R. Ivie, P. Wander, R. Scott (eds.), Cold War Rhetoric: Strategy, Metaphor, and Ideology , East Lansing, Michigan State University Press, 1997.

[16] Cfr. D. Bostdorff, S. Goldzwig, Idealism and pragmatism in American foreign policy rhetoric: The case of John F. Kennedy and Vietnam , «Presidential Studies Quarterly»; 24 (1994).

[17] D. Bostdorff, Idealism Held Hostage: Jimmy Carter's Rhetoric on the Crisis in Iran , «Communication Studies», 43 (1992).

[18] Cfr. J. Kephart, A Drama in Two Acts, or the Acts in Two Dramas: The Rhetoric of the War on Terrorism . Paper presentato alla conferenza annuale dell'International Communication Association, 2004.

[19] Cfr. S. Chatman, Story and discourse: narrative structure in fiction and film , Ithaca, London, Cornell University Press, 1978.

[20] Cfr. J. Kephart, A Drama in Two Acts, or the Acts in Two Dramas: The Rhetoric of the War on Terrorism , Paper presentato alla conferenza annuale dell'International Communication Association, 2004.

[21] K. Jamieson, P. Waldman, The press effect: Politicians, journalists, and the stories that shape the political world , Oxford, New York, Oxford University Press, 2003.

[22] B. Greenberg (ed.), Communication and terrorism: Public and media responses to 9/11 , Cresskill, Hampton Press, 2002; J. Lule, Myth and terror on the editorial page: The New York Times responds to September 11, 2001 , «Journalism And Mass Communication Quarterly», 79 (2002), 275-293; B. Zelizer, S. Allan, Journalism after September 11 , London, New York, Routledge, 2002; R. Entman, Cascading Activation: Contesting the White House's Frame After 9/11 , «Political Communication», 20 (2003), 415-432; K. Jamieson, P. Waldman, The press effect: Politicians, journalists, and the stories that shape the political world , Oxford, New York, Oxford University Press, 2003; J. Hutcheson, D. Domke, A. Billeaudeaux, P. Garland, US National Identity, Political Elites, and a Patriotic Press Following September 11 , in «Political Communication», 21 (2004), 27-50; K. Coe, D. Domke, E. Graham, John, S. Lockett, V. Pickard, No Shades of Gray: The Binary Discourse of George W. Bush and an Echoing Press , «Journal of Communication», 2 (2004), 234-252.

[23] L. Bennett, Toward a theory of press-state relations in the United States , «Journal of Communication», 40 (1990), 103-125.

[24] R. Entman, Cascading Activation: Contesting the White House's Frame After 9/11 , «Political Communication», 20 (2003), 415-432.

[25] P. Herbst, Talking terrorism: A dictionary of the loaded language of political violence , Westport, Greenwood Press, 2003, 58.